Il Comune può essere chiamato a rispondere dei danni derivanti da multe ingiuste
Risarcibile lo stress da multa ingiusta PAGINA PRECEDENTE
(Cassazione 2690/2004)
   
   
L'automobilista che ha subito una multa o una serie di multe ingiustificate può ottenere il risarcimento dei danni derivanti dallo stress causato dal comportamento dei vigili urbani e dell'amministrazione comunale. Lo ha stabilito la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione che ha confermato una sentenza del Giudice di Pace di Perugia che aveva condannato il Comune della stessa città a risarcire ad un avvocato i danni, patrimoniali e non "causati dallo stress dovuto alla illegittima contestazione che gli aveva provocato ansia e disagio". La Suprema Corte ha respinto il ricorso del Comune di Perugia, ritenendo giuridicamente ineccepibile la sentenza del Giudice di Pace che aveva condannato l'amministrazione a pagare 100 euro per lo stress subito, ed in tal modo annoverando tra i danni risarcibili anche quelli subiti dagli automobilisti a causa di errori dell'amministrazione comunale. (10 marzo 2004)  


Suprema Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, sentenza n.2690/2004

 

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

SENTENZA

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Nell’impugnata decisione lo svolgimento del processo è esposto come segue.

Con atto di citazione ritualmente notificato l’avv. P. chiamava in giudizio il Comune di Perugia in persona del Sindaco legale rappresentante pro-tempore per sentirlo condannare al pagamento di £ 200.000 o nella misura che il Giudice, in via equitativa, ritenesse opportuno liquidare a titolo di risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti.

Esponeva l’attore che in data 25/9/93 egli aveva trovato sul cruscotto della propria auto FIAT 126 targata PG 451883, momentaneamente parcheggiata all’inizio di via Mazzini a Perugia, una contravvenzione stradale per violazione dell’art. 158 C.d.S. (divieto di accesso in zona ZTL).

L’avv. P., individuato il vigile accertatore, gli faceva presente di essere munito di permesso per accedere al centro storico; ma questi, nonostante la manifesta inesattezza della contestazione, rimaneva fermo nella propria posizione.

Successivamente, con accomandata del 27/9/93, allegata agli atti, l’attore comunicava al Comando dei Vigili Urbani che la contravvenzione per il divieto di accesso non poteva essere operante dal momento che egli era munito di regolare permesso per accedere al centro storico.

Il Comando dei Vigili urbani con lettera del 20/10/1993, stampata su modello precostituito, genericamente rispondeva insistendo nella fondatezza della contestazione, ed in data 14/12/93 l’Ufficio notifiche del Corpo di Polizia Municipale notificava all’Avv. P. un verbale di Contravvenzione per violazione dell’art. 158 C.d.S.

L’avv. P. con lettera 14/4/95 tentava ancora una vota ed in via bonaria di evidenziare la illegittimità della contravvenzione motivandone le ragioni, ma il Comando dei Vigili urbani persisteva nella propria posizione.

Per tali motivi l’attore si vedeva costretto a proporre ricorso al Prefetto di Perugia avverso al verbale, ed il Prefetto, riconosciuta la fondatezza della opposizione proposta, disponeva l’archiviazione del verbale impugnato.

Per la non corretta condotta tenuta dal Comando dei Vigili Urbani l’Avv. P. riteneva di aver subito danni patrimoniali (redazione dell’atto di opposizione, posta…) e danni non patrimoniali causati dallo stress dovuto alla illegittima contestazione che gli aveva provocato ansia e disagio.

Si costituiva il Comune di Perugia in persona del Sindaco Pro-tempore e contestava la ricostruzione dei fatti così come descritti nell’atto di Citazione dall’Avv. P.: in particolare evidenziava che agli atti del Comune non risultava traccia dello scambio di note 27/9/93 e 20/10/93 tra lo stesso Avv. P. ed il Comando dei Vigili Urbani relativo alla contravvenzione del 25/9/93.

Inoltre rimarcava che la lettera del 14/4/95 (doc. n. dell’atto di Citazione) era stata rimessa dopo l’inoltro del ricorso al Prefetto e quindi, presumibilmente, andava riferita ad altra contravvenzione.

In ogni caso il Comune sosteneva che da quanto denunciato dall’Attore non potesse ravvisarsi un danno risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c. [1].

Inoltre, ai sensi dell’art. 7 c.p.c. il Comune convenuto riteneva che il Giudice di Pace fosse competente per le cause di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione degli autoveicoli purchè il valore della controversia non fosse superiore a £ 30.000.000.

Pertanto il danno di cui l’attore pretendeva il ristoro, non attenendo alla circolazione dei veicoli, non era di competenza del Giudice adito.

Il Comune, nel merito, aggiungeva che l’interessato, una volta proposta opposizione al verbale in sede amministrativa, aveva ottenuto, con l’archiviazione, il pieno soddisfacimento della propria pretesa, pertanto nel comportamento della Pubblica Amministrazione convenuta non poteva ravvisarsi una colpa costitutiva dell’illecito civile di cui all’art. 2043 c.c.

D’altro canto nel caso in specie, pur ammettendo che l’Amministrazione comunale avesse posto in essere un atto illegittimo (verbale di contravvenzione), successivamente, secondo le regole di buona amministrazione, non aveva dato esecuzione allo stesso, ma aveva provveduto a sospendere la riscossione della relativa somma.

Quanto al pregiudizio patrimoniale i danni di cui l’attore chiedeva il risarcimento non erano stati dimostrati dallo stesso, anche perché il ricorso al Prefetto può essere consegnato a mani proprie dall’interessato, senza dover sostenere alcun onere economico.

Ancor più difficile, secondo il convenuto, la dimostrazione dell’insorgere di un danno biologico in un soggetto che, esercitando la professione di avvocato, abituato a gestire le liti, non doveva aver subito disagio e stress in seguito alla notifica di una contravvenzione al codice della strada…

Con sentenza emessa e depositata il 26/4/00 il Giudice di Pace di Perugia, definitivamente pronunciando, condannava il Comune di Perugia a corrispondere la somma di £ 200.000 a favore dell’Avv. U. P., a titolo di risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali; condannava altresì la parte convenuta al pagamento delle spese del giudizio che liquidava in complessive £ 500.000.

Contro questa decisione ha proposto ricorso per cassazione il Comune di Perugia.

Ha resistito con controricorso l’Avv. U. P..

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con l’unico, articolato motivo di ricorso, la difesa del comune, dopo aver premesso che intende gravarsi contro la sentenza n. 115/2000, entro i limiti…cui è sottoposta l’impugnazione delle pronunce rese dal giudice di pace secondo equità ai sensi dell’art. 113, secondo comma c.p.c…espone le seguenti doglianze.

Non sussisteva, e comunque non ne è stata fornita la prova, alcuno degli elementi costitutivi; fatto colposo dell’amministrazione, danno e nesso eziologico.

La sentenza impugnata ha violato i seguenti ineludibili principi: violazione di norma costituzionale: l’art. 28 della Costituzione impone l’applicazione, tra le alte, delle disposizioni contenute nel libro quarto, titolo IX del codice civile, tra cui, per quanto interessa in questa sede, l’art. 2043: nel caso che ci occupa la norma appare violata in quanto nella presente fattispecie nessuno degli elementi costitutivi di cui all’art. 2043 c.c. è riscontrabile ed è stato riscontrato dal giudice di prime cure.

Pertanto la condanna dell’ente pubblico contrasta con il precetto costituzionale sopra richiamato.

In punto di colpa dell’amministrazione.

Nella sentenza della Corte di Cassazione n. 500/99 l’elemento soggettivo in capo alla PA che ha consumato il fatto illecito viene rinvenuto non in via presuntiva dalla mera caducazione di un atto amministrativo (che può rappresentare, se del caso, un presupposto minimo), ma deve necessariamente incentrarsi nella violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi…

A ciò si aggiunga che la dottrina circoscrive tale violazione ai casi di vera e propria mala amministrazione inconciliabile con i precetti di cui all’art. 97 della Costituzione.

Orbene, nella fattispecie oggetto di giudizio: l’atto amministrativo (verbale di contravvenzione) è stato caducato solo per ragioni formali (omessa specificazione del comma dell’art. 158 del codice della strada), nel mentre è pacifico che era stata contestata all’attore in prima sede sia la mancata esposizione del permesso ZTL sia la sosta su area vietata; la condotta serbata dal Comune di Perugia anche nel mantenere ferma la sanzione adottata appare dunque scevra da critiche, attesa la piena legittimità del proprio operato; inoltre nessun estenuante tentativo di soluzione binaria della vicenda è stato mai posto in essere dalla controparte; infine, l’atto, quand’anche possa ritenersi illegittimo, non è stato eseguito dall’amministrazione.

In punto di danno e nesso eziologico.

Parimenti non è dato riscontrare in atti alcun elemento da cui possa derivarsi l’esistenza di un danno ovvero del nesso eziologico tra comportamento (asseritamente) colposo dell’amministrazione e (pretesa) lesione.

Violazione dei principio generali dell’orientamento giuridico (onere della prova); norma processuali in punto di prova (art. 116 c.p.c.) e norma sostanziali necessariamente presupposte (art. 2697 c.c.).

Il giudice di prime cure ha violato il precetto di cui all’art. 2697 c.c., in forza del quale, nel caso di responsabilità aquiliana, spetta all’interessato dimostrare gli elementi costitutivi della fattispecie.

Altro principio fondamentale violato, anche in dispregio del disposto di cui all’art. 116 c.p.c. circa la valutabilità del contegno delle parti, è quello per cui la prova di un fatto può essere desunta anche dalla mancata contestazione di un assunto avversario.

Infatti nel caso che ci occupa: quanto al danno il Comune di Perugia ne ha negata la sussistenza e l’avv. P. non ha fornito un benchè minimo principio di prova (come, ad esempio, un certificato medico comprovante l’alterazione della propria sfera psico- emotiva), quanto alla colpa dell’amministrazione il giudice ne ha desunto la sussistenza dalla mera caducazione dell’atto e dall’indimostrata affermazione attorea di aver profuso chissà quali e quante energie per ottenere l’annullamento in parola; invero non solo l’avv. P. non ha dimostrato l’elemento soggettivo, ma per converso il Comune ha fornito la prova della legittimità del proprio operato (controparte ha violato le norme in materia di sosta e lo ha pure ammesso), ha dimostrato di avere ricevuto una sola richiesta di archiviazione del verbale ed ha offerto di poter provare anche per testimoni l’esistenza della violazione contestata (cfr. memoria autorizzata del 6/3/2000 pag. 3).

Lo stesso va affermato con riferimento al nesso eziologico che pure è rimasto sfornito di supporto probatorio.

Vizio motivazionale; violazione dei principi generali e processuali.

In primo luogo il mancato rispetto delle norme in materia di prova e il non avere ammesso i mezzi istruttori richiesti dal convenuto su un punto fondamentale (colpa o legittimità dell’operato amministrativo) è ex se fondante il vizio denunciato.

La pronuncia non fornisce comunque alcuna logica contezza circa tutti gli elementi costitutivi della fattispecie aquiliana.

Violazione di norma processuale (art. 91 c.p.c.) e di norma sostanziale necessariamente sottesa (D. Min. GG. 5/10/1994 n. 585).

È il caso infine di evidenziare altro capo illegittimo della pronuncia, vale a dire quello relativo alla quantificazione delle spese di lite in £ 500.000, a fronte di un danno equitativamente liquidato in £ 200.000.

Infatti alla norma processuale invocata in epigrafe è sottesa la vigente disciplina delle tariffe forensi in forza della quale, per il citato valore di causa, possono riconoscersi al massimo onorari per £ 150.000, oltre alle funzioni dello scaglione minimo (£ 4.000).

Il motivo non può essere accolto.

Circa i vizi denunciabili in sede di ricorso per cassazione contro sentenza del Giudice di Pace resa ex art. 113 cit. va precisato che secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte, le sentenze pronunciate dal Giudice di pace in controversie di valore non superiore a due milioni (sentenze da ritenersi sempre pronunciate secondo equità, anche quando il giudice abbia fatto applicazione di una norma di legge, con o senza espressa indicazione della sua rispondenza all’equità) sono ricorribili in cassazione per violazione delle norme processuali ai sensi dell’art. 360 primo comma numeri 1, 2, e 4 cod. proc. civ. (in quest’ultimo caso anche con riferimento alle ipotesi di inesistenza della motivazione), nonché ai sensi del n. 5 dell’art. 360 cit., con riferimento alle sole ipotesi equiparabili a quella di inesistenza della motivazione e cioè solo allorquando quest’ultima, pur sussistendo formalmente, debba considerarsi meramente apparente per la concreta impossibilità di comprenderne la ratio decidendi (ad esempio a causa di radicale ed insanabile contraddittorietà della motivazione), mentre la censura di violazione della legge sostanziale ai sensi del n. 3 del citato art. 360 è consentita soltanto in caso di inosservanza o falsa applicazione della costituzione e delle norme comunitarie (se di rango superiore a quelle ordinarie).

Ne consegue che è pertanto inammissibile la denunzia della violazione della norma di cui all’art. 1189 cod. civ., in tema di pagamento al creditore apparente, non trattandosi ne di norma costituzionale, ne di disposizione comunitaria di rango superiore alla norma ordinaria.

(Cass. n. 09393 del 11/6/2003; con riferimento ai vizi di violazione di legge denunciabili v. anche Cass. Sez. Un. n. 08223 del 6/6/2002: la pronuncia secondo equità resa dal giudice di pace in controversie non eccedenti il valore di due milioni di lire, non più soggetta ai principi regolatori della materia ed ai principi generali dell’ordinamento (art. 113, comma secondo cod. proc. civ. nella riformulazione introdotta dall’art. 21 della legge 374/1991), è sottoposta soltanto all’osservanza delle norme costituzionali e delle norme comunitarie di rango superiore a quelle ordinarie, nonché delle norme processuali ai sensi dell’art. 311 cod. proc. civ.).

ciò premesso si osserva che il motivo di ricorso in esame è inammissibile (per le ragioni che verranno esposte) prima ancora che privo di pregio (essendo l’impugnata decisione immune da vizi che siano contemporaneamente denunciati nel ricorso e denunciabili nella presente sede; ed in particolare non essendo comunque ipotizzabili nella specie le denunciate violazioni di legge processuale e di norme costituzionali).

Tali ragioni di inammissibilità sono le seguenti: al di la delle formale denuncia di violazione dell’art. 28 cost. (in realtà neppure ipotizzabile nella specie) la norma realmente oggetto di doglianza è l’art. 2043 c.c. e cioè una norma di legge ordinaria di carattere sostanziale; si è quindi di fronte ad una doglianza non ammissibile; una ulteriore autonoma (e anch’essa già di per se decisiva) ragione di inammissibilità è costituita dalla circostanza che a ben guardare il motivo di gravame non contiene neppure vere doglianze concernenti la violazione di detta norma sostanziale in quanto l’asserita mancanza degli elementi costitutivi di cui all’art. 2043 c.c…. attiene in realtà ad un giudizio di mero fatto concernente la valutazione del materiale probatorio; analoghe considerazioni valgono anche con riferimento all’asserita violazione dell’art. 116 c.p.c., nel senso che al di la della formale denuncia di violazione dell’art. 116 c.p.c. (comunque neppure ipotizzabile nella specie) la norma realmente oggetto di doglianza e l’art. 2697 c.c. e cioè una norma di legge ordinaria di carattere sostanziale; e che anche in tal caso in realtà il motivo di gravame non contiene neppure vere doglianze concernenti la violazione di detta norma sostanziale in quanto l’asserita violazione dell’art. 2697 c.c. attiene in realtà ad un giudizio di mero fatto concernente la valutazione del materiale probatorio; nei limiti in cui si fondano su specifiche risultanze processuali le doglianze sono inammissibili anche perché, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso non riportano integralmente il contenuto delle risultanze medesime (cfr. tra le altre Cass. n. 2838 del 25/3/1999, Cass. n. 3284 del 5/3/2003, Cass. a Sez. Un. n. 9561 del 16/6/2003); come si è già esposto, i vizi ex art. 360 n. 5 (ed i vizi di violazione di norme sostanziali) non sono denunciabili nella presente sede; e nella specie non è ritualmente e chiaramente denunciato il vizio di motivazione insussistente ovvero meramente apparente (del resto la motivazione sussiste in concreto e non è meramente apparente); ne la doglianza concernente l’asserito vizio di ultrapetizione è stata ritualmente supportata dalla indicazione degli atti e delle difese di controparte su cui si fonderebbe, nonché dalla citazione dei brani rilevanti di tali atti e difese (cfr. con riferimento alla circostanza che il principio di autosufficienza si applica anche nel caso di denuncia di errores in procedendo, Cass. n. 05148 del 3/4/2003: il ricorrente che denunzi un error in procedendo è tenuto, in ossequio al principio di specificità ed autosufficienza del ricorso che deve consentire al giudice di legittimità di effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, i controllo demandatogli del corretto svolgersi dell’iter processuale, non solo ad enunciare le norme processuali violate, ma anche a specificare le ragioni della violazione, incoerenza a quanto prescritto dal dettato normativo, secondo l’interpretazione da lui prospettata e, soprattutto , è tenuto a specificare puntualmente i singoli passaggi dello sviluppo processuale nel corso del quale è stato commesso l’errore che si adduce indicato, ai fini di un controllo mirato, i luoghi del processo ove rinvenire gli atti, le pronunzie o le omissioni che si pongano in contrasto con la norma; non sembra comunque inutile aggiungere, per mera completezza ed anche se non sarebbe necessario, che la doglianza è in ogni caso pure priva di base in fatto dato che nell'atto di citazione dell’avv. U. P. innanzi al Giudice di Pace di Perugia era stata esposta una chiara richiesta di risarcimento anche del danno non patrimoniale, come si evince in particolare dalle pagg. 2 e 3); la doglianza concernente l’asserita violazione dell’art. 91 c.p.c. e di norma sostanziale necessariamente sottesa, è inammissibile in quanto non contiene la specifica indicazione voce per voce dei singoli importi ritenuti dovuti in relazione agli importi in concreto liquidati; ed inoltre (trattasi di una ulteriore autonoma ragione di inammissibilità, anch’essa decisiva già da sola) in quanto concerne in realtà non la debenza o meno delle spese (le problematiche concernenti tale debenza concernerebbero effettivamente l’art. 91 cod. proc. civ.), ma la quantificazione delle spese stesse (è inammissibile il motivo del ricorso per cassazione avverso sentenza del giudice di pace, in causa di valore inferiore a £ due milioni, con il quale si denunzi non la debenza o meno delle spese, cioè la violazione dell’art. 91 cod. proc. civ., norma processuale alla cui osservanza è tenuto anche il giudice di pace, ma la quantificazione delle spese stesse.

In particolare, sono norme di carattere sostanziale, che il giudice di pace non è tenuto ad osservare allorchè pronunzia in controversie di valore inferiore a £ due milioni, le disposizioni, contenute in leggi o in altre fonti del diritto (come le deliberazioni del Consiglio nazionale forense che stabiliscono i criteri per la determinazione degli onorari, dei diritti e delle indennità spettanti agli avvocati per le prestazioni giudiziali), relative al quantum delle spese che devono essere liquidate in favore della parte vincitrice (ed a carico di quella soccombente); Cass. n. 01185 del 27/1/2003).

Il ricorso va dunque respinto.

Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente a rifondere le spese del giudizio di cassazione liquidate in E 280, oltre E 100 per spese vive e oltre spese generali ed accessorie come per legge.

 

Depositata in Cancelleria il 12 febbraio 2004.