Non c'è contrasto con il principio di eguaglianza né con la garanzia della sussistenza
Cumulo, giusto selezionare per l'integrazione al minimo PAGINA PRECEDENTE
(Corte Costituzionale 173/2003)
   
   
Le disposizioni dell’art. 6, comma 3, del DL n. 463/1983, convertito con modificazioni nella legge n. 638/1983, che stabiliscono i criteri per individuare quale debba essere il trattamento da integrare fino al limite del minimo pensionistico in caso di cumulo di pensioni di importo al di sotto di tale limite, debbono ritenersi costituzionalmente legittimi perché non si pongono in contrasto né con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione né con la garanzia dell’adeguatezza dei mezzi di sussistenza alle esigenze di vita sancita dall’art. 38 della Costituzione. In tal senso si è pronunciata la Corte Costituzionale nella Ordinanza 19-23 maggio 2003, n. 173, dichiarando la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della normativa di cui all’art. 6, comma 3, del DL n. 463/1983, convertito in legge n. 638/1983, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 38 della Costituzione, dal Tribunale di Viterbo. Detto Tribunale, infatti, aveva ritenuto che la normativa del citato art. 6, comma 3, del DL n. 463/1983, fosse costituzionalmente illegittima nella parte in cui, per il caso di cumulo tra più pensioni, relativamente alla scelta del trattamento da integrare fino al minimo pensionistico, prevede criteri differenti a seconda che le pensioni appartengano alla stessa gestione ovvero a gestioni diverse, determinando, nella prima ipotesi e nella generalità dei casi, una compressione del diritto del pensionato a disporre di mezzi di sussistenza superiori al limite di povertà. Ma la Corte Costituzionale, ha dissentito dalle argomentazioni svolte dal Tribunale di Viterbo e, dopo avere rilevato che, per il profilo della pretesa violazione dell’art. 3 della Costituzione, tali argomentazioni non presentano alcun elemento di novità rispetto a quelle già esaminate e respinte con la Sentenza di manifesta infondatezza n. 18/1998 emessa in riferimento ad analoghe questioni, ha puntualizzato tra l’altro i seguenti aspetti. Le asimmetrie che possono riscontrarsi nel momento dell’applicazione del sistema di individuazione della pensione da integrare al minimo, che è stato prescelto discrezionalmente dal legislatore nella formulazione della normativa oggetto di censura, costituiscono disparità di mero fatto e come tali non sono suscettibili di dare luogo a problemi di costituzionalità della stessa normativa con riferimento al principio di uguaglianza. L’integrazione al minimo delle pensioni è già di per sé finalizzata al assicurare mezzi adeguati alle esigenze di vita del lavoratore, per cui il riconoscimento dell’integrazione può considerarsi sufficiente per garantire il rispetto del principio dell’art. 38 della Costituzione. Peraltro, il legislatore, nell’esercizio del ricordato proprio potere discrezionale, di recente, con l’art. 38 della legge n. 448/2001, attraverso l’aumento delle maggiorazioni sociali dei trattamenti pensionistici, ha inteso garantire, a decorrere dal 1° gennaio 2002, il raggiungimento di un reddito minimo pari a 516,46 euro al mese a diverse categorie di pensionati, ivi compresi i titolari di pensioni integrate al trattamento minimo. Sulla base di queste considerazioni, la Corte Costituzionale, come detto all’inizio, ha dichiarato manifestamente infondata la questione sollevata da Tribunale di Viterbo. (5 giugno 2003)  


ORDINANZA della Corte costituzionale N. 173/2003

 

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

………………..omissis…………….

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 6, terzo comma, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), convertito, con modificazioni nella legge 11 novembre 1983, n. 638, promosso con ordinanza del 13 febbraio 2002 dal Tribunale di Viterbo nel procedimento civile vertente tra Benvenuti Petra e l’INPS, iscritta al n. 213 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell’anno 2002.

Visti l’atto di costituzione dell’INPS nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 25 febbraio 2003 il Giudice relatore Fernanda Contri;

uditi l’avvocato Alessandro Riccio per l’INPS e l’avvocato dello Stato Ivo M. Braguglia per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto

che il Tribunale di Viterbo, nel corso di un giudizio in cui la ricorrente, titolare di una pensione diretta e di una ai superstiti, entrambe a carico della gestione lavoratori dipendenti, aveva chiesto che fosse riconosciuto il suo diritto ad ottenere l’integrazione al minimo del primo trattamento anziché del secondo come disposto dall’INPS, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 38 della Costituzione [1], questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, terzo comma, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), convertito, con modificazioni, nella legge 11 novembre 1983, n. 638, nella parte in cui, in caso di cumulo tra più pensioni, prevede per la scelta del trattamento da integrare al minimo criteri differenti a seconda che le pensioni appartengano alla stessa gestione ovvero a gestioni diverse, comprimendo nella prima ipotesi e nella generalità dei casi il diritto del pensionato a mezzi di sussistenza superiori al limite di povertà;

che il giudice rimettente osserva che la contestata determinazione dell’INPS è del tutto conforme alla disposizione censurata, secondo la quale, in caso di titolarità di pensione diretta e di pensione ai superstiti a carico della stessa gestione, l’integrazione al minimo spetta sulla pensione diretta e se, però, uno dei due trattamenti (nella specie la pensione indiretta) è costituito per effetto di non meno di 781 contributi settimanali, è su quest’ultimo che spetta l’integrazione;

che la stessa disposizione stabilisce, invece, che nell’ipotesi in cui le pensioni sono a carico di gestioni diverse, il detto criterio non opera, dovendosi integrare al minimo la pensione con decorrenza più remota;

che il giudice a quo, pur conoscendo la sentenza n. 18 del 1998 [2] con la quale questa Corte ha dichiarato non fondata analoga questione, ritiene di sottoporre nuovamente all’attenzione del Giudice delle leggi il menzionato art. 6, terzo comma, affermando di farlo "sotto profili almeno parzialmente diversi" e, in particolare, sostenendo di non voler effettuare un confronto tra due diversi regimi dell’integrazione al minimo (operazione non consentita secondo la citata sentenza n. 18 del 1998), ma di porre l’accento sul differente trattamento che viene riservato, in riferimento alla scelta della pensione da integrare, a due diversi gruppi di soggetti titolari di una pluralità di pensioni sulla base di un elemento – l’identità o meno della gestione che eroga le pensioni – che non è sufficiente a rendere ragione della disparità stessa;

che, secondo il Tribunale di Viterbo, la norma impugnata si porrebbe in contrasto anche con la garanzia dell’adeguatezza dei mezzi alle esigenze di vita sancita dall’art. 38 della Costituzione in quanto, in applicazione del criterio di scelta in argomento, si perviene a liquidare trattamenti complessivamente inferiori al milione di lire, livello al di sotto del quale "recenti studi di istituti scientificamente accreditati" pongono la soglia della povertà;

che nel giudizio dinanzi a questa Corte si è costituito l’INPS che ha concluso per l’inammissibilità o l’infondatezza della questione, rilevandone la sostanziale identità rispetto a quelle decise con la citata sentenza n. 18 del 1998 e ponendo, altresì, l’accento sulla perdurante validità delle affermazioni contenute nella citata decisione e soprattutto di quella secondo cui non esiste nel nostro ordinamento alcun principio costituzionale che garantisca all’assicurato il trattamento pensionistico più favorevole;

che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, che ha concluso per l’infondatezza della questione, richiamandosi principalmente alla sentenza n. 18 del 1998 di questa Corte e facendo altresì riferimento - con riguardo alla censura relativa all’asserita inadeguatezza del trattamento complessivo determinato sulla base della norma impugnata - all’ art. 38, comma 1, della recente legge 28 dicembre 2001, n. 448 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2002), che, attraverso l’aumento delle maggiorazioni sociali dei trattamenti pensionistici, ha garantito un reddito minimo pari ad un milione di vecchie lire a diverse categorie di pensionati, ivi compresi i titolari di pensioni integrate al minimo.

Considerato

che il Tribunale di Viterbo dubita, in riferimento agli articoli 3 e 38 della Costituzione [1], della legittimità costituzionale dell’ art.6, terzo comma, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), convertito, con modificazioni, nella legge 11 novembre 1983, n. 638, nella parte in cui, in caso di cumulo tra più pensioni, prevede per la scelta del trattamento da integrare al minimo criteri differenti a seconda che le pensioni appartengano alla stessa gestione ovvero a gestioni diverse, comprimendo nella prima ipotesi e nella generalità dei casi il diritto del pensionato a mezzi di sussistenza superiori al limite di povertà;

che, per quanto riguarda il profilo attinente alla pretesa violazione dell’art. 3 della Costituzione, gli argomenti addotti dall’odierno remittente non presentano alcun elemento di novità rispetto a quelli già esaminati da questa Corte nella sentenza n. 18 del 1998 in riferimento ad analoghe questioni;

che, in particolare, anche nel presente giudizio si discute di alcune asimmetrie che possono riscontrarsi nel momento applicativo del sistema di individuazione della pensione da integrare al minimo discrezionalmente e non irragionevolmente prescelto dal legislatore, le quali, come si è detto nella citata sentenza, costituiscono disparità di mero fatto insuscettibili di dare luogo a problemi di costituzionalità con riferimento al principio di eguaglianza, secondo quanto più volte affermato da questa Corte (v., da ultimo, sentenza n. 374 del 2002 e ordinanza n. 267 del 2002);

che, quanto alla censura riferita all’art. 38 della Costituzione, va rilevato che l’integrazione al minimo delle pensioni è già, di per sé, finalizzata ad assicurare mezzi adeguati alle esigenze di vita al lavoratore che, in mancanza di altri redditi di una certa consistenza, abbia maturato, sulla sola base dei contributi accreditati, il diritto ad un trattamento pensionistico di importo troppo esiguo per soddisfare i bisogni minimi di protezione della persona, sicché il riconoscimento dell’integrazione può considerarsi sufficiente per garantire il rispetto del principio costituzionale invocato, mentre in merito all’eventuale attribuzione di ulteriori benefici va riconosciuto al legislatore un margine di discrezionalità, anche in relazione alle risorse disponibili (v., da ultimo, sentenza n. 180 del 2001 e ordinanza n. 342 del 2002);

che, nell’esercizio della suddetta discrezionalità, di recente il legislatore con l’art. 38 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 ha, attraverso l’aumento delle maggiorazioni sociali dei trattamenti pensionistici, inteso garantire, a decorrere dal 1° gennaio 2002, il raggiungimento di un reddito minimo pari a 516,46 euro al mese a diverse categorie di pensionati, ivi compresi i titolari di pensioni integrate al minimo;

che, pertanto, la questione va dichiarata manifestamente infondata in relazione a tutti i parametri invocati.

PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, terzo comma, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), convertito, con modificazioni, nella legge 11 novembre 1983, n. 638, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 38 della Costituzione [1], dal Tribunale di Viterbo, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2003. Depositata in Cancelleria il 23 maggio 200

 
 
1] Costituzione della Repubblica Italiana 27 dicembre 1947

Art. 3.

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Art. 38.

Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale.

I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi, adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.

Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale.

Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato.

L’assistenza privata è libera.

 

 

[2] Corte Costituzionale - Sentenza n. 18 del 12 febbraio 1998

Non è fondata la questione di legittimità costituzionale - sollevata in riferimento all’art. 3 della Costituzione - dell’art 6, comma 3, del DL 12 settembre 1983 n. 463, convertito nella legge 11 novembre 1983 n. 638 - nella parte in cui, derogando senza apparente giustificazione al criterio, ritenuto prioritario, che privilegia la pensione diretta, prevede l’integrazione al minimo della pensione ai superstiti costituita per effetto di un numero di settimane di contribuzione non inferiore a 781, qualora la pensione diretta risulti basata su di una provvista contributiva più esigua, provocando così, secondo il rimettente, disparità nel trattamento complessivo dei soggetti iscritti alla stessa gestione INPS - in quanto, premesso che il criterio censurato si inserisce in un congegno normativo complesso, frutto di uno sforzo di razionalizzazione della disciplina dell’integrazione al minimo delle pensioni, che la Corte ha già ritenuto nel suo insieme rispondente ai principi costituzionali (vedi sentenze n. 418 del 1981 e 184 del 1988); la scelta di liquidare l’integrazione sulla pensione costituita per effetto di almeno 781 contribuzioni settimanali, qualora l’altra pensione risulti sorretta da una base contributiva più modesta, non costituisce una deroga ingiustificata al criterio che impone di privilegiare la pensione diretta, indicato per primo nella parte del denunciato terzo comma, che riguarda il caso di plurititolarità di pensioni erogate dalla medesima gestione INPS, né può ritenersi in sé irragionevole, a causa dell’asserito venir meno della sua "ratio" originaria: circostanza, questa, che non comporta necessariamente l’illegittimità costituzionale sopravvenuta della disposizione stessa. Peraltro, nessun principio costituzionale, né la disciplina previdenziale nel suo complesso, accordano tutela alla pretesa dell’assicurato al trattamento pensionistico complessivo più favorevole; al contrario, i principi costituzionali, senza predeterminare la scelta, rimessa alla discrezionalità del legislatore, dei criteri per la ragionevole individuazione della pensione da integrare, impongono al legislatore previdenziale l’integrazione di almeno una pensione, attraverso un’erogazione ulteriore rispetto al trattamento dovuto in base ai contributi versati, al quale si aggiunge per assicurare al lavoratore in quiescenza il reddito minimo considerato necessario per far fronte alle esigenze di vita del titolare della pensione (vedi, da ultimo, sentenza n. 127 del 1997).