I CONGIUNTI DI UN LAVORATORE DECEDUTO PER AVER AFFRONTATO UN RISCHIO MORTALE IN UN TENTATIVO DI SOCCORSO DURANTE L’ATTIVITA’ LAVORATIVA, HANNO DIRITTO DI ESSERE INDENNIZZATI DALL’INAIL I doveri di solidarietà sussistono anche in sede aziendale (Cassazione Sezione Lavoro n. 16216 del 28 ottobre 2003, Pres. Mattone, Rel. Lamorgese).
            Angiolino P., coltivatore diretto si è calato in un pozzo in costruzione nella sua azienda per soccorrere l’appaltatore dei lavori rimasto preda di esalazioni di gas prodotti da sfibrato di mais; in questo tentativo egli è morto per effetto delle esalazioni. La sua vedova ha chiesto all’Inail il riconoscimento del diritto al trattamento previsto per i familiari dei lavoratori deceduti per infortunio sul lavoro. L’Istituto non ha accolto la domanda, in quanto ha ritenuto che l’evento mortale non fosse stato causato dall’attività lavorativa. Nel giudizio che ne è seguito sia il Tribunale che la Corte di Appello di Brescia hanno escluso il diritto della vedova al trattamento. In particolare la Corte ha rilevato che il rischio cui era collegato l’evento mortale non derivava dall’attività lavorativa di coltivatore diretto svolta dalla vittima e che non era sufficiente ai fini del diritto al trattamento assicurativo, un mero collegamento indiretto. La vedova ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza della Corte di Brescia per difetto di motivazione e violazione di legge.
            La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 16216 del 28 ottobre 2003, Pres. Mattone, Rel. Lamorgese) ha accolto il ricorso, richiamandosi al principio secondo cui la nozione di occasione di lavoro, quale requisito per l’indennizzabilità dell’infortunio, si estende anche al cosiddetto rischio specifico improprio, cioè al rischio che, pur non inerendo all’attività materiale tipica della specifica prestazione lavorativa, riguarda situazioni ed attività strettamente ad essa connesse. Non è coperto dall’assicurazione Inail – ha aggiunto la Corte – il rischio elettivo, ossia quello dovuto ad una scelta arbitraria del lavoratore, il quale crei ed affronti volutamente, in base a ragioni od impulsi personali, una situazione diversa da quella inerente alla attività lavorativa, ponendo così in essere una causa interruttiva tra lavoro, rischio ed evento. L’intervento del lavoratore che soccorre il compagno in difficoltà – ha rilevato la Corte – non può essere considerato uno spontaneo e discrezionale atto di generosità, ma deve ritenersi conseguenza diretta ed immediata della situazione di pericolo che mira a rimuovere, inserendosi esso, in buona sostanza nel contesto delle relazioni umane e dei reciproci doveri di solidarietà sussistenti anche in sede aziendale; questi doveri sono positivamente valutati nel comune sentire, per cui qualsiasi gesto di solidarietà in favore di un soggetto in pericolo, ancorché presenti dei rischi, non può considerarsi "arbitrario" (vale a dire, irrazionale o dettato da impulsi meramente personalistici), ma al contrario sorretto da un "valore" avvertito come tale dal corpo sociale e quindi meritevole di tutela.

 


 

NEL PROCESSO DEL LAVORO I DOCUMENTI NON POSSONO ESSERE PRODOTTI IN CORSO DI CAUSA Devono essere depositati tempestivamente con il ricorso o con la memoria di costituzione (Cassazione Sezione Lavoro n. 16265 del 29 ottobre 2003, Pres. Mileo, Rel. De Matteis).
            Maria D. ha convenuto in giudizio gli eredi di Rosa I. per ottenere il pagamento di differenze di retribuzione e trattamento di fine rapporto per lavoro domestico prestato alle dipendenze della defunta. Gli eredi si sono costituiti in giudizio tardivamente, sostenendo che i crediti della lavoratrici erano stati soddisfatti ed hanno chiesto di essere ammessi a produrre alcune ricevute. Il Pretore ha consentito la produzione di documenti ed ha rigettato la domanda. La lavoratrice ha proposto appello davanti al Tribunale di Benevento censurando la decisione del Pretore per aver fondato la decisione sui documenti tardivamente prodotti dai convenuti. Essa ha invocato l’art. 416 cod. proc. civ. secondo cui il convenuto deve costituirsi in giudizio dieci giorni prima dell’udienza fissata per la comparizione e produrre, con la memoria di costituzione, i documenti che intende utilizzare come mezzi di prova. Il Tribunale ha respinto l’appello in quanto ha ritenuto, attenendosi al prevalente orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte, che la produzione di documenti (cosiddette prove costituite) sia consentita, al contrario delle prove costituende, nell’udienza di discussione fino a che non sia iniziata la discussione orale e quindi oltre i termini dell’art. 416 cod. proc. civ. La lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione del Tribunale per disapplicazione dell’art. 416 cod. proc. civ.
            La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 16265 del 29 ottobre 2003, Pres. Mileo, Rel. De Matteis) ha accolto il ricorso ricordando che la giurisprudenza più recente della Cassazione, modificando un antico orientamento in senso più conforme al dato letterale dell’art. 416 cod. proc. civ., nonché allo spirito del sistema e quindi alla intenzione del legislatore ha statuito che: “Nel rito del lavoro, l’omessa indicazione nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, ovvero nella comparsa di risposta, dei documenti, anche attinenti ad eccezioni rilevabili d’ufficio, nonché il loro mancato deposito insieme a detti atti, anche se in questi espressamente indicati, producono la decadenza dal diritto di produrli nel corso del giudizio, salvo che si tratti di documenti formati successivamente alla sua instaurazione o che la relativa produzione sia giustificata dallo sviluppo del giudizio” (Cass. 20.01.2003 n. 775).
            Alle due ipostesi di ammissibilità di produzione di documenti successivamente ai termini previsti per l’attore dall’art. 414 cod. proc. civ. e per il convenuto dall’art. 416 cod. proc. civ. indicati dalla giurisprudenza citata – ha affermato la Corte – si deve aggiungere quello di provata difficoltà a procurarsi il documento, come potrebbe essere in caso di successione nel processo ai sensi dell’art. 111 cod. proc. civ.

 


Nel pubblico impiego, dopo la privatizzazione, lo svolgimento di mansioni superiori comporta il diritto a percepire le relative differenze di retribuzione – E’ esclusa invece la promozione automatica se non prevista dalla contrattazione collettiva – Nel quadro della “privatizzazione” del pubblico impiego, l’art. 57 del D.Lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, ha introdotto una nuova disciplina dell’attribuzione temporanea di mansioni superiori, riconoscendo rilevanza economica a tale assegnazione, pur senza il diritto alla qualifica superiore. Siffatta garanzia del trattamento retributivo corrispondente alle mansioni superiori svolte non ha, però, avuto immediata applicazione, giacché la sua operatività è stata a più riprese differita senza soluzione di continuità fino a quanto l’art. 57 cit. è stato abrogato dall’art. 43 del D. Lgs. 31 marzo 1998, n. 80.
            La materia è ora disciplinata dall’art. 56 del D. Lgs. n. 29 del 1993, nel testo dapprima sostituito con l’art. 25 del D. Lgs. n. 80 del 1998, e successivamente modificato dall’art. 15 del D. Lgs. 29 ottobre 1998 n. 387. L’art. 56 prevede la retribuibilità dello svolgimento delle mansioni superiori, ma (al sesto comma) ne rinvia l’applicazione in sede di attuazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali, prevista dai contratti collettivi e con la decorrenza da questi stabilita, per cui, fino  a tale data, “in nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza può comportare il diritto a differenze retributive o ad avanzamenti automatici nell’inquadramento professionale del lavoratore”. Però la modifica introdotta dall’art. 15 del D. Lgs. 387/1998 – che ha soppresso le parole “a differenze retributive o” nel cit. sesto comma dell’art. 56 – ha reso operante la prescrizione della retribuibilità dell’espletamento delle mansioni superiori alla qualifica; in tal senso si è già pronunciata la giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, ad. pl. 23 febbraio 2000 n. 12), che, appunto, ha affermato che l’art. 15 del D.Lgs. 29 ottobre 1998 n. 387 ha reso anticipatamente operativa la disciplina contenuta nell’art. 56 D.Lgs. 3 febbraio 1993 n. 29 con riguardo al diritto del dipendente pubblico, che abbia svolto le funzioni, al trattamento economico relativo alla qualifica immediatamente superiore a decorrere dall’entrata in vigore del D.Lgs. n. 387 cit., con la conseguente inapplicabilità alle situazioni pregresse.
            La retribuibilità dell’esercizio delle mansioni superiori alla qualifica, costituisce peraltro diretta applicazione del canone costituzionale della retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 Cost., come è stato affermato dalla giurisprudenza costituzionale con riferimento proprio alla particolare disciplina dettata per il personale sanitario, al quale appartiene il ricorrente (cfr. C. Cost. n. 57 del 1989; n. 296 del 1990; n. 101 del 1995). Questo principio peraltro è stato esteso anche al pubblico impiego in generale, pur se la Corte Costituzionale ha precisato che la garanzia dell’art. 36 Cost. non si traduce necessariamente in un rigido automatismo per cui al pubblico dipendente spetta esattamente il trattamento economico corrispondente alle mansioni superiori (C. Cost. n. 115 del 2003); è sufficiente – ma anche necessario per assicurare il rispetto dell’art. 36 Cost. – che vi sia un compenso aggiuntivo rispetto alla retribuzione della qualifica di appartenenza (C. Cost. n. 273 del 1997). Peraltro la legge (ora art. 52 del Decreto Legislativo 30.3.2001 n. 165) esclude che dallo svolgimento delle mansioni superiori possa conseguire l’automatica attribuzione della qualifica superiore; questa regola è destinata ad essere superata dalla normativa contrattuale, che è autorizzata dal comma sesto dell’art. 52 D.Lgs. n. 165 del 2001 a prevedere fattispecie di “avanzamenti automatici” (Cassazione Sezione Lavoro n. 16078 del 25 ottobre 2003, Pres. Mileo, Rel. Amoroso).
  
 


14/11/2003 ore 10:16
Domicilio fiscale e residenza anagrafica

 

Con provvedimento 23 ottobre 2003 l'Agenzia delle entrate ha indicato gli uffici competenti a stabilire il domicilio fiscale del contribuente in un comune diverso da quello della residenza anagrafica o della sede legale.
I provvedimenti sono adottati dal direttore regionale se la variazione avviene nell'ambito della stessa regione e dal direttore centrale se la variazione avviene tra regioni diverse.
Le disposizioni si applicano a partire dal 1° gennaio 2004.

( Agenzia delle entrate, Provv. 23/10/2003 , G.U. , 13/11/2003 , n. 264 )

 


 

IN CASO DI NOTIFICAZIONE DEL RICORSO PER CASSAZIONE A MEZZO DELLA POSTA, IL TERMINE PER IL DEPOSITO DECORRE DALLA DATA DELLA RICEZIONE - Anche dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 477 del 2002 (Cassazione Sezione Tributaria n. 16418 del 3 novembre 2003, Pres. Paolini, Rel. Bielli).
           
In base alla sentenza della Corte Costituzionale n. 477 del 2002 ai fini del rispetto del termine per la notificazione del ricorso per cassazione a mezzo della posta vale la data della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario. Deve tuttavia ritenersi che il termine per il deposito nella Cancelleria della Suprema Corte del ricorso notificato (venti giorni dalla notifica) decorra dalla data dell’effettiva ricezione, da parte del destinatario del plico speditogli dall’ufficiale giudiziario.
           
Ritenere che, in ogni caso, la notificazione a mezzo del servizio postale si perfezioni, per il notificante, con l’affidamento dell’atto all’ufficiale giudiziario, comporterebbe l’improcedibilità (rilevabile d’ufficio) di tutti i ricorsi ancora da decidersi (ancorché proposti anteriormente alla pubblicazione della citata sentenza della Corte costituzionale), per il quali il notificante abbia effettuato il deposito rispettando i termini computati – secondo il precedente diritto vivente – dalla data di ricezione del plico, ma non quelli computati dalla data di consegna all’ufficiale giudiziario: conclusione, questa, non solo paradossalmente sfavorevole al notificante (nonostante l’intento della Corte costituzionale di maggiormente garantirlo), ma estranea al bilanciamento di interessi tra notificante e destinatario della notificazione e, perciò, niente affatto implicata dalla sentenza n. 477 del 2002 della Corte costituzionale

SENTENZA N.477  ANNO 2002

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Cesare RUPERTO             Presidente

- Riccardo CHIEPPA            Giudice

- Gustavo ZAGREBELSKY           "

- Valerio ONIDA                 "

- Carlo MEZZANOTTE              "

- Fernanda CONTRI               "

- Guido NEPPI MODONA            "

- Piero Alberto CAPOTOSTI       "

- Annibale MARINI               "

- Franco BILE                   "

- Giovanni Maria FLICK          "

- Francesco AMIRANTE            "

- Ugo DE SIERVO                 "

- Romano VACCARELLA             "

- Paolo MADDALENA               "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 149 del codice di procedura civile e 4, comma terzo, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), promosso con ordinanza del 2 febbraio 2002 dalla Corte di cassazione sul ricorso proposto da Rizzacasa Giovambattista contro  ENEL s.p.a., iscritta al n. 134 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell’anno 2002.

Visto l’atto di costituzione di Rizzacasa Giovambattista;

udito nell’udienza pubblica del 22 ottobre 2002 il Giudice relatore Annibale Marini;

udito l’avvocato Claudio Chiola per Rizzacasa Giovambattista.

Ritenuto in fatto

1.- La Corte di cassazione, con ordinanza depositata il 2 febbraio 2002, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma terzo, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), «richiamato implicitamente dall’art. 149 c.p.c., nella parte in cui fa decorrere la notifica dell’atto da notificare dalla data della consegna del plico al destinatario, anziché dalla data della spedizione».

Il medesimo giudice aveva precedentemente sollevato, nei termini di cui sopra e nel corso dello stesso procedimento, questione di legittimità costituzionale dell’art. 149 del codice di procedura civile come interpretato dalla giurisprudenza «nel silenzio del dettato normativo». Questione dichiarata manifestamente inammissibile, con ordinanza  n. 322 del 2001, non avendo la Corte rimettente «assolto l’onere di verificare, prima di sollevare la questione di costituzionalità, la concreta possibilità di attribuire alla norma denunciata un significato diverso da quello censurato e tale da superare i prospettati dubbi di legittimità costituzionale».

Il giudice a quo precisa ora che l’art. 4, comma terzo, della legge n. 890 del 1982, nel disporre che «l’avviso di ricevimento costituisce prova dell’eseguita notificazione», non lascerebbe spazi interpretativi e non consentirebbe, dunque, soluzioni ermeneutiche diverse da quella, costituente diritto vivente, secondo la quale gli effetti della notificazione a mezzo posta si produrrebbero, anche per il notificante, solo con la consegna del plico al destinatario da parte dell’agente postale.

Sulla base di tale premessa, il rimettente assume che la disciplina censurata sarebbe lesiva dell’art. 24 della Costituzione in quanto ostacolerebbe, fino a vanificarlo sostanzialmente, l’esercizio del diritto di impugnazione a chi, risiedendo in luogo diverso da quello in cui deve essere eseguita la notificazione, si avvalga della notificazione a mezzo posta, adempiendo tempestivamente alle formalità previste dall’art. 149 del codice di procedura civile e dalla legge n. 890 del 1982, ma «restando nondimeno esposto alla disorganizzazione di Uffici pubblici, quali quelli postali che sono soltanto strumenti ausiliari dell’Amministrazione della Giustizia».

Le norme impugnate - ad avviso del medesimo rimettente - non esprimerebbero, d’altro canto, una regola generale dell’ordinamento, considerato che la notificazione effettuata ai sensi dell’art. 140 del codice di procedura civile si perfezionerebbe, invece, alla data di spedizione della raccomandata con avviso di ricevimento, così come sarebbe del resto previsto per la notificazione dei ricorsi amministrativi e per le notificazioni eseguite nell’ambito del contenzioso tributario.

Il ricorso al servizio postale in materia di notificazioni di atti giudiziari risulterebbe, dunque, diversamente disciplinato in relazione a fattispecie analoghe, escludendosi solo in alcuni casi, e non in altri, l’esposizione della parte notificante al rischio del disservizio postale. Con conseguente violazione del principio di eguaglianza garantito dall’art. 3 della Costituzione.

 

2.- Si è costituito in giudizio Giovambattista Rizzacasa, ricorrente nel giudizio a quo, il quale preliminarmente sottolinea la sicura ammissibilità della questione in quanto sostanzialmente diversa da quella dichiarata manifestamente inammissibile con l’ordinanza n. 322 del 2001.

Nel merito, secondo la parte privata, verrebbero nella specie in considerazione due distinte esigenze: quella di assicurare la certezza del diritto, per cui l’impugnativa dovrebbe essere esercitata entro precisi limiti temporali, e quella di garantire il diritto di difesa del destinatario dell’atto notificato.

La prima delle due esigenze - secondo la stessa parte - potrebbe essere adeguatamente soddisfatta facendo riferimento alla data di presentazione del ricorso all’ufficiale giudiziario per la notifica, mentre solo ai fini della seconda occorrerebbe avere riguardo al momento della effettiva consegna dell’atto al destinatario.

Siffatta distinzione sarebbe, d’altro canto, ben presente nella giurisprudenza di questa Corte, così come il principio secondo cui gli effetti derivanti dall’operato della pubblica amministrazione non possono risolversi nella menomazione del diritto di difesa della parte incolpevole.

Se si volesse, poi, richiamare, in contrapposizione al diritto di difesa del notificante, l’interesse generale alla certezza dei rapporti giuridici, dovrebbe allora considerarsi - ad avviso sempre della parte privata - che il principio di ragionevole durata del processo, di cui al novellato art. 111 della Costituzione, impone di disciplinare le cadenze temporali del processo stesso in modo da consentire l’agevole esercizio del diritto di difesa.

Il sacrificio del diritto di difesa a favore della rapidità del processo potrebbe, dunque, essere giustificato solamente in conseguenza di condotte omissive della parte processuale e non già in relazione a ritardi od omissioni riferibili all’operato della pubblica amministrazione, cui il cittadino-attore sia obbligato a rivolgersi.

La disciplina dettata dall’art. 140 del codice di procedura civile e quella relativa alle notifiche in materia di ricorsi amministrativi e nell’ambito del contenzioso tributario costituirebbero poi - sempre secondo la parte privata - adeguati termini di comparazione ai fini del giudizio di legittimità costituzionale sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza.

Conclude dunque la parte per l’accoglimento della questione «e, in subordine, per l’adozione di una sentenza interpretativa del combinato disposto dell’art. 149 c.p.c. e dell’art. 4 l. 890/92 (recte: legge 890/82) che consenta un’adeguata tutela del diritto di difesa, affermando che lo scopo della notifica per posta è legittimamente raggiunto nel momento in cui vengono realizzati gli adempimenti formali gravanti sulla parte intimante».

Considerato in diritto

1.- La Corte di cassazione dubita, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, della legittimità costituzionale degli artt. 149 del codice di procedura civile e 4, comma terzo, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), nella parte in cui dispongono che gli effetti della notificazione a mezzo posta decorrono, anche per il notificante, dalla data di consegna del plico al destinatario anziché dalla data della spedizione.

Tale disposizione si porrebbe in contrasto sia con la garanzia costituzionale del diritto di difesa, in quanto esporrebbe il notificante, pur incolpevole, al rischio del disservizio postale, sia con il principio di eguaglianza, in quanto - in materia di notificazioni di atti giudiziari o di ricorsi amministrativi - altre norme dell’ordinamento attribuirebbero invece rilevanza esclusiva alla data di spedizione dell’atto.

 2.- In via preliminare, va affermata la proponibilità della presente questione di costituzionalità, in quanto essenzialmente diversa, sia sotto l’aspetto normativo che argomentativo, da quella proposta nello stesso giudizio e dichiarata da questa Corte manifestamente inammissibile con l’ordinanza n. 322 del 2001.

La questione in esame, infatti, oltre ad avere un oggetto solo parzialmente coincidente con quello della precedente (con la quale veniva impugnato il solo art. 149 del codice di procedura civile), si fonda sulla premessa della impossibilità di una diversa opzione interpretativa e non risulta, dunque, come l’altra, censurabile sotto il profilo della mancata ricerca di una interpretazione alternativa rispetto a quella sospettata di illegittimità costituzionale.

 3.- Nel merito la questione è fondata.

 3.1.- Il rimettente muove dalla premessa secondo la quale l’inequivoco tenore testuale dell’art. 4, comma terzo, della legge n. 890 del 1982 non consentirebbe interpretazione diversa da quella del perfezionamento della notificazione, anche per il notificante, alla data di ricezione del plico da parte del destinatario. Tale premessa - pur opinabile nei termini assoluti in cui è formulata, come del resto dimostra la rimessione della predetta questione interpretativa alle Sezioni unite da parte di altra sezione della stessa Corte di cassazione - è, peraltro, conforme ad un orientamento da tempo consolidato del giudice di legittimità e tale, dunque, da poter essere senz’altro assunto a base della presente decisione.

 3.2.- Questa Corte ha avuto modo di affermare, in tema di notificazioni all’estero, che gli artt. 3 e 24 della Costituzione impongono che «le garanzie di conoscibilità dell’atto, da parte del destinatario, si coordinino con l’interesse del notificante a non vedersi addebitato l’esito intempestivo di un procedimento notificatorio parzialmente sottratto ai suoi poteri di impulso» ed ha, altresì, individuato come soluzione costituzionalmente obbligata della questione sottoposta al suo esame quella desumibile dal «principio della sufficienza [...] del compimento delle sole formalità che non sfuggono alla disponibilità del notificante» (sentenza n. 69 del 1994).

Principio questo che, per la sua portata generale, non può non riferirsi ad ogni tipo di notificazione e dunque anche alle notificazioni a mezzo posta, essendo palesemente irragionevole, oltre che lesivo del diritto di difesa del notificante, che un effetto di decadenza  possa discendere - come nel caso di specie - dal ritardo nel compimento di un’attività riferibile non al medesimo notificante, ma a soggetti diversi (l’ufficiale giudiziario e l’agente postale) e che, perciò, resta del tutto estranea alla sfera di disponibilità del primo.

In ossequio ai richiamati principi costituzionali, gli effetti della notificazione a mezzo posta devono, dunque, essere ricollegati - per quanto riguarda il notificante - al solo compimento delle formalità a lui direttamente imposte dalla legge, ossia alla consegna dell’atto da notificare all’ufficiale giudiziario, essendo la successiva attività di quest’ultimo e dei suoi ausiliari (quale appunto l’agente postale) sottratta in toto al controllo ed alla sfera di disponibilità del notificante medesimo.

Resta naturalmente fermo, per il destinatario, il principio del perfezionamento della notificazione solo alla data di ricezione dell’atto, attestata dall’avviso di ricevimento, con la conseguente decorrenza da quella stessa data di qualsiasi termine imposto al destinatario medesimo. Ed è appena il caso di sottolineare, al riguardo, che la possibilità di una scissione soggettiva del momento perfezionativo del procedimento notificatorio risulta affermata dalla stessa legge n. 890 del 1982, laddove all’art. 8 prevede, secondo l’interpretazione vigente, che, nel caso di assenza del destinatario e di mancanza, inidoneità o assenza delle persone abilitate a ricevere il piego, la notificazione si perfezioni per il notificante alla data di deposito del piego presso l’ufficio postale e, per il destinatario, al momento del ritiro del piego stesso ovvero alla scadenza del termine di compiuta giacenza. Confermandosi in tal modo la necessità che le norme impugnate siano dichiarate costituzionalmente illegittime nella parte in cui prevedono che la notificazione si perfeziona, per il notificante, alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario anziché alla data, antecedente, di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 149 del codice di procedura civile e dell’art. 4, comma terzo, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), nella parte in cui prevede che la notificazione si perfeziona, per il notificante, alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario anziché a quella, antecedente, di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 novembre 2002.

F.to:

Cesare RUPERTO, Presidente

Annibale MARINI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 novembre 2002.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA