IL LAVORATORE PUO’ IMPUGNARE DAVANTI AL GIUDICE IL LICENZIAMENTO PER MANCANZE, ANCHE CON ARGOMENTI NON UTILIZZATI NEL PROCEDIMENTO DISCIPLINARE SVOLTOSI IN SEDE AZIENDALE – Non sussistono preclusioni (Cassazione Sezione Lavoro n. 4050 del 27 febbraio 2004, Pres. Mileo, Rel. De Luca).
           Giancarlo C. dipendente della s.r.l. Cogne Acciai Speciali è stato sottoposto a procedimento disciplinare con l’addebito di essersi rifiutato di sottoporsi agli accertamenti sanitari, comprendenti anche l’effettuazione di prelievi ematici, disposti dal medico di fabbrica e ripetutamente richiestigli dall’azienda. Egli si è difeso, in sede disciplinare, invocando il suo diritto alla privacy e sostenendo l’inutilità delle analisi disposte. L’azienda lo ha licenziato. Nel giudizio che ne è seguito, davanti al Tribunale di Aosta, il lavoratore ha sostenuto di essere affetto da una nevrosi fobica che gli impediva di sottoporsi ai prelievi ematici. Il Tribunale ha annullato il licenziamento ordinando la reintegrazione di Giancarlo C. nel posto di lavoro e condannando la società convenuta al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni relative al periodo dal recesso alla reintegrazione. In grado di appello la Corte di Torino ha nominato un consulente tecnico che ha accertato che il lavoratore presentava effettivamente una “nevrosi fobica che ha come oggetto aghi destinati ad uso medico, per iniezioni o prelievi”. Questa patologia – ha affermato il consulente – “è da ritenere, considerate le caratteristiche di struttura della personalità del lavoratore, sia tanto grave da costituire un ostacolo all’effettuazione di un prelievo ematico, poiché una tale situazione suscita in lui un’angoscia tanto intensa da costituire un prezzo troppo gravoso per mantenere la propria attività lavorativa”. La Corte di Appello ha quindi confermato la decisione di primo grado. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione sostenendo, tra l’altro, che la Corte di Appello avrebbe dovuto ritenere inammissibile la giustificazione addotta dal lavoratore in sede giudiziaria, in quanto essa non era stata mai prospettata nelle difese da lui svolte in sede disciplinare.
           La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 4050 del 27 febbraio 2004, Pres. Mileo, Rel. De Luca) ha rigettato il ricorso. La contestazione preventiva dell’addebito e l’audizione del lavoratore incolpato – ha osservato la Corte – concorrono ad assolvere la funzione di garanzia del diritto di difesa del dipendente nell’ambito del procedimento preliminare che deve precedere l’applicazione della sanzione. Si tratta di adempimenti che – esigendo “come essenziale presupposto delle sanzioni disciplinari”, lo svolgersi di un procedimento “che rinviene il suo marchio distintivo nella regola del contraddittorio: audiatur et altera pars” (così testualmente, Corte Cost. n. 204/82) – all’evidenza riecheggiano analoghe garanzie (del contraddittorio tra le parti, appunto), già previste per reati ed illeciti amministrativi ed, ora, esplicitamente ribadite nell’ambito della disciplina costituzionale del giusto processo (art. 111, 2° comma, Cost.).
           In coerenza con la funzione prospettata – ha affermato la Corte – la difesa del lavoratore incolpato, nell’ambito del procedimento disciplinare (di cui all’art. 7 legge n. 300/70), preliminare all’intimazione del licenziamento (come all’irrogazione di ogni altra sanzione) disciplinare, non preclude che, una volta intimato il licenziamento, lo stesso lavoratore possa prospettare un sistema difensivo, affatto diverso, anche nel giudizio d’impugnazione del licenziamento.
 


 

PER STABILIRE L’ESISTENZA E LE CAUSE DI UNA MALATTIA PROFESSIONALE IL CONSULENTE TECNICO D’UFFICIO PUO’ PROCEDERE ALL’ACCERTAMENTO DEI FATTI ACCESSORI – Con l’assunzione di informazioni (Cassazione Sezione Lavoro n. 4252 del 2 marzo 2004, Pres. Ciciretti, Rel. De Matteis).
          Francesco D. dipendente delle Ferrovie dello Stato con mansioni di elettricista a bordo delle navi traghetto, ha chiesto al Pretore di Messina di riconoscere il suo diritto ad una rendita corrispondente ad una riduzione della capacità di lavoro del 20% per ipoacusia determinata dalla rumorosità dell’ambiente di lavoro. Egli ha fatto presente di avere lavorato in ambienti chiusi ed angusti, come le stive, dove al fragore di potenti motori e dei getti di aria compressa si assommava quello prodotto dalle attività di carpenteria, ribaditura ed altro. Il giudice, dopo avere disposto l’integrazione del contradditorio nei confronti dell’Ipsema, ente competente per l’assicurazione contro gli infortuni nel lavoro del personale navigante delle Ferrovie, ha accolto la domanda, fondando la sua decisione sulla relazione di un consulente tecnico che, dopo avere assunto informazioni sull’ambiente di lavoro, ed acquisito una dichiarazione scritta del capo dell’impianto, ha accertato l’esistenza della malattia professionale e la sua dipendenza dai rumori cui il lavoratore era esposto nella stiva. In grado di appello, il Tribunale di Messina, dopo avere rinnovato l’accertamento tecnico, ha confermato la decisione di primo grado. La S.p.A. Ferrovie dello Stato ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza del Tribunale per essersi basata esclusivamente sui risultati della consulenza tecnica d’ufficio, mentre il nesso causale tra l’attività lavorativa e la malattia avrebbe dovuto essere provato dal lavoratore  mediante testimoni e documenti.
          La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 4252 del 2 marzo 2004, Pres. Ciciretti, Rel. De Matteis) ha rigettato il ricorso. In tema di accertamento dell’esistenza, del grado invalidante e della causa di una malattia professionale – ha affermato la Corte – il consulente tecnico d’ufficio può acquisire, mediante l’anamnesi lavorativa, in base all’art. 194 cod. proc. civ., che consente la richiesta di chiarimenti alle parti o di informazioni dai terzi, circostanze di fatto relative all’origine della malattia, le quali, se non contestate nella prima difesa utile, costituiscono fatti accessori legittimamente acquisiti al processo, che possono essere posti, unitamente ai fatti principali, alla base della decisione del giudice.
          Tuttavia la stessa giurisprudenza di legittimità si fa carico delle pregnanti disposizioni codicistiche ricordate, e distingue due figure o, meglio, ruoli del consulente, quello c.d. deducente, quando il giudice affida al consulente tecnico solo l’incarico di valutare i fatti accertati dallo stesso giudice o dati per esistenti; quello c.d. percipiente, quando il giudice gli assegna altresì il compito di accertare i fatti stessi. Nel primo caso la consulenza presuppone l’avvenuto espletamento dei mezzi di prova e ha per oggetto la valutazione di fatti i cui elementi sono già stati completamente provati dalle parti; nel secondo caso la consulenza può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova, senza che questo significhi che le parti possano sottrarsi all’onere probatorio e rimettere l’accertamento dei propri diritti all’attività del consulente. In questo secondo caso è necessario, infatti, che la parte quanto meno deduca il fatto che pone a fondamento del proprio diritto e che il giudice ritenga che il suo accertamento richieda cognizioni tecniche che egli non possiede o che vi siano altri motivi che impediscano o sconsiglino di procedere direttamente all’accertamento. In definitiva, il consulente può procedere all’accertamento dei fatti accessori costituenti presupposti necessari per rispondere ai quesiti postigli.
 


 

L’assenza ad una visita di controllo domiciliare può dirsi giustificata solo dalla sussistenza di un motivo molto serio – L’insuperabile necessità di effettuare un determinato adempimento in orario ricompreso nelle fasce orarie di reperibilità -L’assenza ad una visita di controllo domiciliare può dirsi giustificata solo dalla sussistenza di un motivo molto serio, concretantesi nella insuperabile necessità di effettuare un determinato adempimento in orario ricompreso nelle fasce orarie di reperibilità. L’onere di fornire tale prova, ovviamente, è a carico del lavoratore il quale ne alleghi, a propria giustificazione, la ricorrenza. Ai fini della sussistenza di un giustificato motivo di assenza all’obbligo della visita domiciliare è necessario, laddove il lavoratore alleghi di essersi dovuto allontanare dal proprio domicilio per recarsi dal medico curante per una visita ambulatoriale, che il lavoratore dimostri sia la necessità di tale visita medica, sia l’assoluta impossibilità di rispettare le fasce orarie di reperibilità. Il lavoratore assente dal lavoro per malattia – ove deduca come giustificato motivo della non reperibilità alla visita di controllo domiciliare di avere nell’occasione, effettuato una visita presso il medico di fiducia – deve provare che la causa del suo allontanamento dal domicilio durante le fasce orarie, pur senza necessariamente integrare una causa di forza maggiore, costituisca, al fine della tutela della salute, una necessità dell’assenza dal lavoro quale mezzo per curare la malattia. E’ necessario, in altri termini che il lavoratore provi che la sua assenza è stata determinata da situazioni tali da comportare adempimenti non effettuabili in ore diverse da quelle di reperibilità (Cassazione Sezione lavoro n. 4247 del 2 marzo 2004, Pres. Dell’Anno, Rel. Filadoro).

  

 

 


 

 

IL DEMANSIONAMENTO E’ ILLEGITTIMO ANCHE SE DURA SOLO POCHI MESI – La brevità non giustifica una deroga al divieto posto dall’art. 2103 cod. civ. (Cassazione Sezione Lavoro n. 3772 del 25 febbraio 2004, Pres. Mattone, Rel. De Matteis).
            Maria Donata V., dipendente della banca Intesa, ha chiesto al Pretore di Milano, tra l’altro, di condannare l’azienda al risarcimento del danno per averla destinata, nel periodo dall’inizio dell’ottobre 1994 ai primi giorni del febbraio 1995, all’ufficio contabilità titoli con mansioni inferiori a quelle previste per la sua qualifica, in violazione dell’art. 2103 c.c. Sia il Pretore che, in grado di appello, il Tribunale di Milano, hanno ritenuto la domanda priva di fondamento, rilevando che il periodo oggetto della doglianza era troppo breve per potersi affermare la ricorrenza di una concreta dequalificazione, anche in considerazione del fatto che la lavoratrice si era assentata per venti giorni. Maria Donata V. ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza del Tribunale di Milano per difetto di motivazione e violazione dell’art. 2103 cod. civ.
            La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 3772 del 25 febbraio 2004, Pres. Mattone, Rel. De Matteis) ha accolto il ricorso. La tesi del giudice d’appello – secondo cui la breve durata del periodo della dedotta dequalificazione precluderebbe di per sé la possibilità di valutare se un demansionamento vi fu, indipendentemente da qualsiasi ulteriore caratteristica della fattispecie – costituisce, ha affermato la Cassazione, violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 cod. civ. Questa norma – ha ricordato la Corte – proibisce l’adibizione del lavoratore a mansioni inferiori a quelle di assunzione o corrispondenti alla categoria superiore successivamente acquisita e, all’ultimo comma, fulmina di nullità qualsiasi patto contrario, volto a derogare ai precetti in materia di tutela della professionalità. La perentorietà di tale principio ha successivamente subito parziali modifiche, per ipotesi circoscritte, ad opera della giurisprudenza e del legislatore. La giurisprudenza, partendo dalla ratio della norma, di tutela del lavoratore, ne ha ammesso deroghe nell’interesse di quest’ultimo, soprattutto al fine di evitare la perdita del posto di lavoro (Cass. 12 gennaio 1984, n. 266; Cass. 7 marzo 1986, n. 1536; Cass. 4 maggio 1987, n. 4142; Cass. 29 novembre 1988 n. 6441; Cass. 24 ottobre 1991 n. 11297; Cass. 2 novembre 1993 n. 10793; Cass. 29 settembre 1998 n. 9734, in tema di necessità del consenso del lavoratore all’accordo sindacale di attribuzione di mansioni inferiori, al di fuori dell’ipotesi di cui all’art. 4, comma 11 Legge 23 luglio 1991, n. 223, che ne prescinde; Cass. Sez. Un. 7 agosto 1998 n. 7755, che ha ritenuto illegittimo il recesso del datore di lavoro per sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, ove sia possibile adibire il lavoratore a mansioni diverse, anche inferiori; Cass. 5 agosto 2000 n. 10339; Cass. 18 ottobre 1999 n. 11727; Cass. 14 settembre 1995 n. 9715). L’art. 6 della Legge 13 maggio 1985, n. 190 (Riconoscimento giuridico dei quadri intermedi) ha consentito al contratto collettivo di fissare un periodo, anche superiore a tre mesi, dopo del quale l’assegnazione di fatto a mansioni di quadro o di dirigente diviene definitiva. L’art. 4, comma 11, della L. 223/1991 ha stabilito che gli accordi sindacali stipulati nel corso delle procedure di mobilità, che prevedano il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori ritenuti eccedenti, possano stabilire, anche in deroga al secondo comma dell’art. 2103 c.c., la loro assegnazione a mansioni diverse da quelle svolte (vedi Cass. 7 settembre 1993 n. 9386, che ha dichiarato legittimo l’accordo sindacale concluso dai rappresentati dei lavoratori e dall’azienda il quale, al fine di salvaguardare il bene primario del posto di lavoro, ha riformato il pejus le mansioni ed il trattamento dei dipendenti; conforme Cass. 7 settembre 2000 n. 11806). La giurisprudenza ammette anche la liceità dello svolgimento di mansioni inferiori, in misura non prevalente e non caratterizzante, ma occasionale e marginale (Cass. 8 giugno 2001 n. 7821, che ha ritenuto legittimo che il lavoratore fosse adibito, per motivate esigenze aziendali, anche a compiti inferiori, in misura marginale, rispetto a quelli propri del suo livello; nella specie un lavoratore, addetto alla gestione dei crediti della società Telecom, era stato addetto anche – a turno – a compiti di informazione all’utenza; Cass. 25 febbraio 1998 n. 2045 ha ritenuto suscettibile di valutazione in sede disciplinare il comportamento di una dipendente di una Cassa di Risparmio che, avendo compilato atti delicati che avrebbero potuto essere esposti al rischio di disguidi o smarrimenti, si era rifiutata di imbustarli). Infine la giurisprudenza della Corte ha ammesso la liceità dell’adibizione temporanea del lavoratore a diverse mansioni, seppure non strettamente equivalenti a quelle di appartenenza, al fine di acquisire una più ampia professionalità (Cass. 1 marzo 2001 n. 2948). Nel caso in esame – ha concluso la Corte – la fattispecie decisa dal giudice d’appello non rientra in alcune delle predette ipotesi eccettuative al rigore dell’art. 2103 cod. civ.; detta norma non consente l’adibizione a mansioni, se inferiori, per la durata di quattro mesi, se non ricorre alcuna delle circostanze sopra indicate.
 

 


 

 

Passeggeri senza cinture: in caso di incidente "concorso di colpa" per il conducente

Una sentenza della Cassazione condanna un giovane al risarcimento del passeggero (che non aveva allacciato la cintura di sicurezza) ferito gravemente in seguito ad un incidente stradale.

Ha suscitato molto interesse la sentenza della Corte di Cassazione che ha affrontato il tema delle responsabilità del conducente dell’auto nel caso in cui un passeggero che non indossa le cinture di sicurezza subisca danni a seguito di un incidente stradale.
La Suprema Corte ha condannato un giovane al risarcimento di un milione e mezzo di euro alla sua fidanzata che, a causa di un incidente stradale, è in coma irreversibile.
La giovane, che non indossava la cintura di sicurezza, era stata sbalzata fuori dall’auto in seguito all’urto con un altro veicolo.
Il giovane è stato riconosciuto colpevole dell’incidente al 70%: 50% per la guida, 20% per aver permesso che la sua fidanzata non indossasse la cintura di sicurezza.
Se il passeggero non allaccia le cinture di sicurezza, il codice della strada prevede che sia multato il conducente solo se il passeggero è minorenne.
La Cassazione ha invece sostenuto che il conducente è tenuto, “in base alle regole della comune prudenza e diligenza”, ad esigere che il passeggero indossi la cintura di sicurezza e, in caso il passeggero si rifiuti, a sospendere la marcia o a rifiutarne il trasporto.

L’assicurazione dell’auto sulla quale è avvenuto l’incidente aveva un massimale di 750.000 euro, quindi, il resto del risarcimento dovrà pagarlo il giovane di tasca sua