LE NOTE DI QUALIFICA SONO ILLEGITTIME SE FONDATE SU VALUTAZIONI POSITIVE E NEGATIVE TRA LORO INCONCILIABILI Il giudice deve analizzare i singoli elementi (Cassazione Sezione Lavoro n. 9898 del 20 giugno 2002, Pres. Senese, Rel. Lamorgese).
         Pasquale A., dipendente della Banca di Roma, ha riportato nelle note di qualifica per l’anno 1991 il giudizio di “mediocre”, per inadeguatezza motivata con riferimento alla quantità e qualità del lavoro, alla responsabilità e all’affidamento nonché ai criteri di “capacità di integrazione interpersonale, responsabilità e affidamento, capacità di proporre soluzioni innovative, capacità di sviluppare professionalmente i collaboratori, senso degli affari e del rischio”. Nella scheda di valutazione in base alla quale è stato formulato il giudizio conclusivo figuravano peraltro indicazioni di sufficienza con riferimento ai criteri di “competenza professionale, impegno professionale per i risultati, capacità organizzativa, capacità di espressione, capacità di convincimento, capacità decisionale autonoma, capacità di apprendimento”.
         Il lavoratore ha chiesto al Pretore di Roma di dichiarare l’illegittimità delle note di qualifica per il 1991 per violazione delle regole di correttezza e buona fede. Il Pretore ha rigettato la domanda, ma la sua decisione è stata riformata, in grado di appello, dal Tribunale di Roma, che ha dichiarato l’illegittimità delle note di qualifica. Il Tribunale ha rilevato l’inconciliabilità della affermata carenza, rispetto allo standard della posizione lavorativa, della qualità e quantità del lavoro e della responsabilità e dell'affidamento con il giudizio positivo, formulato contestualmente nella scheda valutativa, in relazione ai parametri di competenza professionale, di impegno professionale per i risultati, di capacità organizzativa, di capacità di espressione, di capacità di convincimento, di capacità decisionale autonoma, di capacità di apprendimento; mentre per gli altri parametri, in relazione ai quali era stato espressa valutazione di insufficienza, e cioè capacità di integrazione interpersonale, capacità di proporre soluzioni innovative, capacità di sviluppare professionalmente i collaboratori e eventuali conoscenze non utilizzate, senso degli affari e del rischio, il Tribunale ne ha rilevato la inconferenza con riferimento alla posizione lavorativa del medesimo dipendente, svolgendo costui mansioni elementari di smistamento della corrispondenza. La Banca ha proposto ricorso per cassazione sostenendo, tra l’altro, che il sindacato del giudice del merito non può essere esteso alla verifica dei singoli momenti di formazione del giudizio finale contenuto nelle note di qualifica.
         La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 9898 del 20 giugno 2002, Pres. Senese, Rel. Lamorgese) ha rigettato il ricorso, richiamando la sua giurisprudenza secondo cui le valutazioni sul rendimento e le capacità professionali del lavoratore espresse dal datore di lavoro con le note di qualifica devono essere motivate e sono sindacabili dal giudice in relazione all'osservanza, da parte dell’azienda, degli eventuali criteri obbiettivi previsti dal contratto collettivo e degli obblighi di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ. Non è fondato l’assunto che il sindacato del giudice deve arrestarsi alla verifica della "coerenza estrinseca" del giudizio riassuntivo formulato, senza entrare nel merito del suo procedimento di formazione e senza analizzare i singoli momenti di giudizio. Infatti una limitazione del controllo del giudice sulle note di qualifica al profilo della correttezza formale del procedimento priverebbe la verifica di contenuto e non potrebbe essere riscontrata la coerenza della valutazione con le finalità proprie di questa. Nel giudizio sintetico espresso con le note di qualifica sul rendimento e le capacità professionali del lavoratore concorrono elementi contrastanti, nel senso che deve tenersi tanto dei dati positivi che di quelli negativi; ciò significa che la valutazione non può essere basata soltanto su elementi di un segno trascurando quelli di segno opposto, ma non su elementi che con riferimento alla prestazione lavorativa effettuata dal lavoratore siano fra loro inconciliabili o siano estranei rispetto ad essa.
 


La differenza fra dirigente e impiegato direttivo consiste nell’ampiezza e nella discrezionalità dei poteri – Nell’attività di gestione - La qualifica di dirigente spetta al prestatore d’opera che, operando sul piano gerarchico più elevato e quale alter ego dell’imprenditore, sia preposto alla direzione dell’intera organizzazione aziendale o a quella di un settore autonomo dell’azienda, esplicando la sua attività con ampi poteri discrezionali, pur nel quadro delle direttive dell’imprenditore. I tratti caratteristici che qualificano, invece, l’impiegato di concetto di prima categoria, o con funzioni direttive, consistono nella preposizione, formale o di fatto, del prestatore d’opera a un ramo o servizio dell’impresa e nell’attuazione, con poteri di supremazia gerarchica, di determinazione e di autonomia esecutiva, delle direttive generali dell’imprenditore o del dirigente di una parte autonoma dell’impresa (Cassazione Sezione Lavoro n. 9640 del 16 giugno 2003, Pres. Mileo, Rel. Putaturo Donati V.).

 


 

CASSAZIONE: ONERE DELLA PROVA PER LO SVOLGIMENTO DI MANSIONI SUPERIORI DA PARTE DEL LAVORATORE

A testimonianza dell'importanza dell'argomento, e della frequenza con la quale giunge all'attenzione degli organi giurisdizionali, la Corte di Cassazione è tornata sul tema delle mansioni svolte effettivamente dai lavoratori subordinati ed in particolare del riconoscimento di una qualifica superiore. In una recente pronuncia la Suprema Corte ha stabilito che il lavoratore che agisce in giudizio per ottenere l’inquadramento in una qualifica superiore ha l’onere di allegare e di provare gli elementi posti a base della domanda e, in particolare, è tenuto ad indicare esplicitamente quali siano i profili caratterizzanti le mansioni di detta qualifica, raffrontandoli altresì espressamente con quelli concernenti le mansioni che egli deduce di avere concretamente svolto. Si tratta di un orientamento ormai consolidato in giurisprudenza. (Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 21 maggio 2003, n. 8025

 


 

Garante: attivazione di schede telefoniche a clienti ignari

Al termine di articolate indagini il Garante per la protezione dei dati personali ha denunciato alla magistratura l’attività illecita di una società i cui rivenditori, dei numerosi punti vendita dislocati nel territorio nazionale, attivavano carte telefoniche all’insaputa dei clienti. Chi entrava in un negozio per acquistare una scheda telefonica rilasciava informazioni sui propri dati personali e tali informazioni venivano poi utilizzate, senza il consenso degli interessati, per attivare altre schede sempre a loro nome. L’accertamento del Garante ha preso il via dalla segnalazione di una persona che era venuta casualmente a conoscenza di essere intestataria a sua insaputa di sei utenze attivate dallo stesso rivenditore. Dalle indagini è emerso che in un breve periodo erano state effettuate circa 800 attivazioni di schede telefoniche nei confronti di 200 utenti. Sembra che la società abbia adottato questa “strategia” per beneficiare dei “piani di incentivazione per i rivenditori” che riconoscono un compenso extra per ogni attivazione in più rispetto al plafond programmato.


 


Data: 26/06/2003
Notizia inserita da: Simona Falconieri

 

Le mansioni inferiori nella giurisprudenza

Con sentenza n. 6714 del 2.5.2003 la Sezione lavoro della Corte di Cassazione ha rigettato la domanda proposta da un impiegato di livello B2 contro il proprio datore di lavoro (una SPA), diretta ad ottenere l'annullamento (ed in subordine la riduzione) di una sanzione disciplinare (sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per tre giorni) che gli era stata inflitta per essersi rifiutato di dattiloscrivere una nota, su richiesta di un superiore gerarchico.
Una sentenza, quella in esame, che si segnala per l'espresso richiamo a clausole generali di correttezza e buona fede del rapporto contrattuale fra datore di lavoro e lavoratore al pari di ogni singolo rapporto obbligatorio ex art. 1175 c.c.

Tali clausole, si legge nella sentenza, "non introducono nei rapporti giuridici diritti ed obblighi diversi da quelli legislativamente e contrattualmente previsti, ma sono destinate ad operare all'interno dei rapporti medesimi in funzione integrativa di altre fonti, con la conseguenza che rilevano soltanto come modalità di comportamento delle parti e (…) come limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva, attiva o passiva".

Il richiamo a queste clausole di ampio respiro interpretativo consente al giudice di verificare la coerenza della fisionomia del contratto con i valori espressi nel rapporto.

Si tratta di considerazioni che i giudici della Cassazione hanno espresso nel valutare la legittimità del rifiuto del lavoratore di svolgere mansioni inferiori.

Tuttavia, per dichiarare illegittimo il comportamento del lavoratore, che si era rifiutato di dattiloscrivere una nota (ed era stato sospeso dal servizio e dalla retribuzione per tre giorni) la Suprema Corte non fa ricorso ai tali principi, ma all'analisi della portata dello ius variandi consentito ai sensi dell'art. 2103 c.c. così come novellato dall'art. 13 della legge 20 maggio 1970 n. 300.

L'illegittimità del diniego si evince dalla accessorietà delle mansioni inferiori rispetto a quelle di competenza (vengono citati i precedenti della Corte stessa) e dal fatto che le mansioni contestate non rientravano nella competenza specifica di altri lavoratori di professionalità meno elevata.

"Tanto basta per ritenere ingiustificato il rifiuto di svolgere quelle mansioni" conclude la Corte.

E' però significativo che la Corte indichi la strada della correttezza e della buona fede ex art. 1175 come criterio dinamici di interpretazione e di giudizio.

Indicativa in tal senso è anche l'interpretazione dinamica del concetto di "mansione" alla quale si attiene quella parte della giurisprudenza che sostiene che mansione non è solo il livello di inquadramento in organico, ma la professionalità acquisita con il tempo valutata sulla base dei seguenti indici:

autonomia decisionale e responsabilità operativa
aspettative di carriera e di avanzamento professionale
prestigio sia interno che esterno all'azienda
coordinamento di altro personale
gerarchia nell'impresa


Sulla base del concetto suddetto di "mansione" è legittimo il rifiuto del lavoratore di prestare mansioni inferiori dequalificanti qualora il suo rifiuto rispetti il principio di buona fede ed esplicitamente il lavoratore si offra di prestare comunque la mansione precedente.

Va detto che, pur con questo accorgimento, il lavoratore è esposto comunque al rischio del licenziamento.

Ebbene, la giurisprudenza subordina la dichiarazione di illegittimità del licenziamento alla prova che la mansione sia veramente dequalificante.

L'onere della prova incombe sul lavoratore e non è facile riuscire a provare davanti al giudice di avere effettivamente subito una dequalificazione.

A tal fine sarà utile ricordare che anche la riduzione quantitativa delle mansioni costituisce dequalificazione, qualora il ridimensionamento dell'area operativa del dipendente si traduca in un progressivo deterioramento del suo bagaglio culturale ed in un graduale "appannamento" della sua professionalità (Cass. 4.10.1995 n. 10405; Cass. 13.8.1991 n. 8835).

Gli interessi contrapposti non sono, dunque, le esigenze dell'impresa ed il diritto all'inquadramento livellare del lavoratore, ma le esigenze dell'impresa e la libertà e la dignità dei lavoratori sulla base delle priorità indicate dalla L.300/70.

Si spiegano, in tal senso, i profili risarcitori del danno biologico (cfr. Cass. Sez. lavoro 9.4.2003 n. 5539), del danno alla vita di relazione, del danno patrimoniale da perdita di chances (Trib. Di Milano 22.2.2000, in Riv. Critica Dir. Lav., 2000, 446), del danno alla dignità intesa come sviluppo o possibilità di ulteriori ricollocazioni. (Pret. Milano 11.3.1996 in Riv. Crit. Del Lavoro 1996, 677).

Il rifiuto del lavoratore di svolgere mansioni inferiori può, inoltre, essere giustificato ex art. 1460 c.c., purchè la reazione risulti proporzionata e conforme a buona fede (Cass. 26.6.1999 n. 6663) e comporta la condanna del datore a rimuovere gli effetti che derivano dal provvedimento illegittimo (Cass. 27.4.1999 n. 4221) .

Va detto, infine, che è legittima l'assegnazione a mansioni inferiori ove prevista dalla legge a tutela di interessi prevalenti di categorie più deboli (cfr.art. 4 comma 4 L.1204/72 per le lavoratrici madri; art. 4 comma 4 L.68/99 a tutela dei disabili;per il riassorbimento di personale ritenuto precedentemente eccedente: art. 4 comma 11 L. 223/91; per motivi sanitari : art. 8 commi 2 e 3 L. 277/91).

La giurisprudenza ammette, inoltre, eccezionalmente, le mansioni inferiori qualora siano disposte per evitare il licenziamento del personale e purchè siano consensuali, in casi di ristrutturazione aziendale (Cass. 21.12.2001 n. 16106) ovvero qualora siano temporanee e dettate da esigenze straordinarie di emergenza o di forza maggiore.

Nel primo caso prevale il diritto al lavoro al diritto alla tutela del mantenimento della professionalità acquisita, ma datore di lavoro e lavoratore si devono espressamente accordare in tal senso.

Le considerazioni che precedono rilevano anche in materia di pubblico impiego che, com'è noto, si ispira, a seguito della privatizzazione e della introduzione del contratto individuale, ai medesimi principi. (art. 52 D.Lvo 165/2001)

(di Simona Falconieri)


Lavoratore demansionato cade in depressione? Va risarcito

La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione (Sent. 5539/2003) ha stabilito che il dipendente che subisca un illegittimo demansionamento e che, in seguito ad esso, veda peggiorare le proprie condizioni di salute, ha diritto alla riqualificazione e al risarcimento del danno biologico. I Giudici di Piazza Cavour hanno così riconosciuto tale diritto risarcitorio a un impiegato, caduto in una profonda crisi depressiva, dopo essere stato assegnato a mansioni inferiori a quelle per le quali era stato assunto dal proprio datore di lavoro senza che alla base della decisione ci fosse stato un motivo legittimo.


 


Cassazione, ecco dove il cittadino non puo' essere spiato

Roma, 14 giu. (Adnkronos) - I cittadini non possono essere spiati nemmeno in garage. Il divieto di 'controllo' e' esteso anche all'ingresso di casa e al pianerottolo. A stilare l'elenco dei luoghi off limits al 'grande fratello' e' la Corte di Cassazione. Lo fa con la sentenza 25666 con la quale ha respinto il ricorso di Alfredo A., un signore di Forli' condannato a quattro mesi di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale, per interferenze illecite nella vita privata per aver ripreso con una videocamera le attivita' svolte da Ida Z. nel garage dove erano custodite le macchine. Per la Suprema Corte queste riprese ledono ''il diritto alla riservatezza della vita individuale dalle interferenze illecite altrui''. Il caso analizzato dai giudici di Piazza Cavour e' servito loro per fissare i confini entro i quali i cittadini devono attenersi se non vogliono avere guai con la giustizia. Ebbene, secondo la Suprema Corte la privacy di una persona viene lesa non solo ''nei luoghi di privata dimora'', ma anche ''nelle appartenenze di essi''. Compie pertanto il reato di interferenza illecita nella vita privata (art. 615 bis c.p.) chi sorveglia il cittadino in un garage, anche se aperto al pubblico, sul pianerottolo o davanti all'ingresso di casa. Insomma, specifica la Cassazione nel suo elenco, il divieto di 'sorveglianza' deve esere applicato su ''tutte le cose che siano legate con l'abitazione o con altro luogo di privata dimora da stretto rapporto pertinenziale ai sensi dell'art. 817 c.c., come ad esempio, gli ingressi, anche se prospicienti sulla pubblica via, non potendosi confondere - mettono in chiaro i giudici con l'Ermellino - il diritto civilistico di veduta con la facolta' (soggetta a restrizioni penalmente garantite) di documentare fatti della vita privata altrui''.