SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. La Corte d'appello di Catanzaro, con sentenza 6 dicembre 2001,
confermava il giudizio di colpevolezza espresso dal Tribunale di Lamezia
Terme nei confronti di U. T. e G. C. in ordine ai delitti, commessi fino
al luglio 1999 in continuazione tra loro, di detenzione a fine di spaccio
e di cessione a terzi di sostanze stupefacenti di tipo "pesante" (capi A e
B, per il primo; capo F, con l'attenuante ex comma cinque dell'art. 73
d.P.R. 309/90, per il secondo), ma riduceva la pena inflitta ad entrambi i
prevenuti, previa concessione al solo T. delle circostanze attenuanti
generiche, entro limiti ritenuti di giustizia.
Rilevava, preliminarmente, il giudice di merito l'inutilizzabilità, per
violazione degli artt. 63 e 65 in relazione agli
artt. 191 e 350/7° c.p.p. [1],
delle prime dichiarazioni, significative per l'accusa, rese alla Guardia
di Finanza (e da questa registrate) da tale N. - indagato sentito senza
l'assistenza del difensore - e dagli "informatori" G., C. e I., i quali,
pur non essendo, all'epoca, formalmente indagati, versavano
sostanzialmente in tale condizione, che avrebbe dovuto imporre
l'osservanza delle prescritte garanzie anche per l'eventuale esercizio
dello ius tacendi; da ciò derivava, sempre secondo il giudice a quo, pure
l'inammissibilità della testimonianza de relato sul contenuto dei detti
atti viziati.
Valorizzava, tuttavia, ulteriori emergenze e in particolare: 1) le
registrazioni di altri colloqui intercorsi tra i finanzieri e i loro
informatori (con esclusione dei casi prima citati) "operate all'insaputa
di questi ultimi e in assenza di specifica autorizzazione dell'autorità
giudiziaria", precisando che la mancata verbalizzazione di tale attività,
in quanto non espressamente sanzionata, non determinava l'inutilizzabilità
dei relativi esiti narrativi; 2) alcune deposizioni testimoniali; 3) le
dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia Di Stefano e D'Elia,
imputati di reato connesso; 4) il contenuto delle sommarie informazioni
rilasciate, in sede di indagini il 13 ottobre 1999 e il 3 maggio 2000, da
I. Domenico, regolarmente verbalizzate dalla p.g. e lette in dibattimento
ex art. 512 c.p.p. Riteneva provate, sulla base di tali acquisizioni, per
il T., le cessioni di droga a F. C., Vincenzo G. e Domenico lonadi e, per
il C., quelle a Michele D. e al predetto I..
2. Avverso tale pronuncia hanno proposto ricorso per cassazione, tramite i
rispettivi difensori, gli imputati.
Il T., in particolare, ha lamentato: 1) manifesta illogicità della
motivazione, nella parte relativa alla cessione di droga al G., essendosi
fatto leva sulle dichiarazioni accusatorie di costui, ritenute, in altra
parte della sentenza, inutilizzabili; 2) violazione di norme processuali e
connesso vizio di motivazione in relazione all'illecita cessione in favore
del C.: illegittima l'utilizzazione della registrazione del colloquio tra
costui e la polizia giudiziaria, perché si era violato il dovere di
verbalizzazione ex art. 357 c.p.p., il che rendeva inammissibile, ex art.
195/4° c.p.p., anche la testimonianza de relato sul punto, e perché tale
attività, violando il diritto alla segretezza delle comunicazioni (art. 15
Costituzione), doveva qualificarsi vera e propria intercettazione
ambientale, che avrebbe richiesto il rispetto della disciplina di cui agli
artt. 266 e ss. c.p.p.; 3) violazione della legge processuale e vizio di
motivazione, per essere stata data lettura, ai sensi dell'art. 512 c.p.p.,
delle dichiarazioni accusatorie in data 13 ottobre 1999 e 3 maggio 2000
rilasciate, durante la fase delle indagini, dallo I., che si era sottratto
all'esame dibattimentale, rendendosi volontariamente irreperibile, non
essendo risultato provato che fosse stato fatto oggetto di minacce.
Il C., anche con precisazioni contenute in motivi aggiunti, ha dedotto: 1)
violazione della legge processuale, con riferimento agli artt. 526/1-bis
c.p.p. e 111 Costituzione e per le stesse ragioni enunciate dal T., circa
l'utilizzazione delle dichiarazioni procedimentali dello I.; 2) manifesta
illogicità della motivazione nel punto relativo all'illecita cessione al
D., le cui dichiarazioni non avevano trovato alcun altro riscontro, nonché
nella parte in cui aveva comunque utilizzato le dichiarazioni dello I.,
pur ritenute, in altro passaggio, non utilizzabili.
3. La sesta sezione, alla quale il ricorso era stato assegnato, rilevato
che la questione giuridica - prospettata con uno dei motivi di ricorso -
concernente l'utilizzazione delle registrazioni dei colloqui intercorsi
tra personale della p.g. e suoi informatori, effettuate all'insaputa di
questi ultimi e in assenza di autorizzazione dell'autorità giudiziaria,
presentasse profili di "delicatezza" e di "opinabilità" e fosse oggetto di
orientamenti difformi nella giurisprudenza di legittimità, con ordinanza 6
febbraio-7 marzo 2003, rimetteva la soluzione del contrasto alle Sezioni
unite.
Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni unite, fissando
per la trattazione l'odierna udienza pubblica.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso del T. è in parte fondato, va accolto nei limiti di seguito
precisati e, nel resto, va rigettato; quello del C., invece, è privo di
qualunque pregio.
La questione sottoposta all'esame delle Sezioni unite è "se la
registrazione fonografica di colloqui intercorsi tra operatori di polizia
giudiziaria e loro informatori, effettuata ad iniziativa dei primi e
all'insaputa dei secondi, richieda, ai fini dell'utilizzabilità probatoria
dei contenuti, l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria nelle forme e
nei termini previsti per le intercettazioni di conversazioni o di
comunicazioni tra presenti", essendosi delineati sul tema contrastanti
indirizzi interpretativi nella giurisprudenza di legittimità.
Tali contrasti, per la verità, non si evidenziano in maniera massiccia e
radicale, forse perché le soluzioni di volta in volta fornite non sempre
sono riconducibili ad un medesimo principio, ma risentono piuttosto del
condizionamento rinveniente dalla contingenza del singolo caso concreto.
Sta di fatto che, secondo l'orientamento assolutamente maggioritario, pur
nella variegata gamma di situazioni esaminate, le registrazioni di
conversazioni o di comunicazioni ad opera di uno degli interlocutori (a
nulla rilevando se costui appartenga alla polizia giudiziaria o agisca
d'intesa con questa) non sono riconducibili nel novero delle
intercettazioni e non soggiacciono alla disciplina per queste ultime
prevista, considerato che difetta, in tali casi, l'occulta percezione del
contenuto dichiarativo da parte di soggetti estranei alla cerchia degli
interlocutori e che si realizza soltanto la memorizzazione fonica di
notizie liberamente fornite e lecitamente apprese, con l'effetto che le
relative bobine possono essere legittimamente acquisite al processo come
documenti (cfr. Cassazione sezione prima, 22 aprile 1992, Artuso; sezione
sesta, 6 giugno 1993, De Tomasi; 8 aprile 1994, Giannola; 10 aprile 1996,
Bordon; sezione prima, 6 maggio 1996, Scali; sezione quarta, 9 luglio
1996, Cannella; sezione sesta 15 maggio 1997, Mariniello; sezione quarta
11 giugno 1998, Cabrini; sezione quinta 10 novembre 1998, Poli; sezione
prima, 2 marzo 1999, Cavinato; sezione sesta 8 aprile 1999, Sacco; sezione
sesta 18 ottobre 2000, Paviglianiti; sezione prima, 14 aprile 1999,
Iacovone; 21 marzo 2001, La Rosa; sezione terza, 12 luglio 2001, Vanacore;
sezione prima, 23 gennaio 2002, Aquino; sezione seconda, 5 novembre 2002,
Madeffino).
A fronte di tale indirizzo, ve n'è altro minoritario che, con riferimento
alla registrazione di colloqui o di comunicazioni da parte della polizia o
di suoi incaricati, ritiene trattarsi di una vera e propria
intercettazione, le cui regole, che impongono strumenti tipici, non
possono surrettiziamente essere aggirate, e ciò perché "l'intervento della
polizia giudiziaria procedimentalizza in modo atipico" la captazione
telefonica o ambientale, "deprivandola del necessario intervento del
giudice" (cfr., nel vigore del codice del '30, Cassazione sezione seconda,
5 luglio 1988, Belfiore; 18 maggio 1989, Calabrò; nel regime del nuovo
codice, sezione quinta, 1 maggio 2000, Caputo; sezione sesta, 20 novembre
2000, Finini).
Ritiene il Collegio che la scelta ermeneutica della giurisprudenza
maggioritaria sia sostanzialmente corretta, anche se va approfondita nelle
sue premesse concettuali e logico-giuridiche, nei postulati del
ragionamento che devono sorreggerla e negli effetti che da essa, in casi
particolari, conseguono sul piano processuale.
2. Primario punto di riferimento normativo dal quale partire nell'analisi
del problema non può che essere l'art. 15 della Costituzione, che sancisce
l'inviolabilità della libertà e della segretezza della corrispondenza e di
ogni altra forma di comunicazione, disponendo che la loro limitazione è
eccezionalmente consentita "soltanto per atto motivato dell'autorità
giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge".
Tale norma ha indubbia natura precettiva e mira a proteggere due distinti
interessi: "... quello inerente alla libertà e alla segretezza delle
comunicazioni, riconosciuto come connaturale ai diritti della personalità
definiti inviolabili dall'art. 2 Costituzione, e quello connesso
all'esigenza di prevenire e reprimere i reati, vale a dire ad un bene
anch'esso oggetto di protezione costituzionale" (cfr. Corte costituzionale
sentenza 34/1973). Affida, poi, il bilanciamento di tali interessi e,
quindi, la loro concreta tutela ad una duplice riserva, di legge e di
giurisdizione, demandando cioè al legislatore ordinario l'individuazione
delle "garanzie" che consentono limitazioni dei valori indicati dal
dettato costituzionale e al provvedimento motivato dell'autorità
giudiziaria la legittimazione delle predette restrizioni.
"La stretta attinenza della libertà e della segretezza della comunicazione
al nucleo essenziale dei valori della personalità - attinenza che induce a
qualificare il corrispondente diritto come parte necessaria di quello
spazio vitale che circonda la persona e senza il quale questa non può
esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana
(sentenza Corte costituzionale 366/91) - comporta un particolare vincolo
interpretativo, diretto a conferire a quella libertà, per quanto
possibile, un significato espansivo", nel senso di ricomprendervi tutto
ciò che coessenzialmente vi è legato e che contribuisce a non vanificare
il contenuto del diritto che il citato art. 15 intende assicurare al
patrimonio inviolabile di ogni persona (cfr. sentenza Corte costituzionale
81/1993; 281/98 in tema di accesso investigativo ai c.d. tabulati, che
evidenziano i "dati esteriori" delle conversazioni telefoniche).
Il presidio costituzionale del diritto alla segretezza delle comunicazioni
non si estende anche ad un autonomo diritto alla riservatezza. Quest'ultima
è tutelata costituzionalmente soltanto in via mediata, quale componente
della libertà personale, vista nel suo aspetto di libertà morale, della
libertà di domicilio, nel suo aspetto di diritto dell'individuo ad avere
una propria sfera privata spazialmente delimitata, e della libertà e
segretezza della corrispondenza e di ogni forma di comunicazione. In
sostanza, la riservatezza è costituzionalmente garantita nei limiti in cui
la stessa va ad incidere su alcuni diritti di libertà.
Immaginare che il Costituente abbia voluto imporre il silenzio
indiscriminato su ogni comunicazione interpersonale è cosa contraria alla
logica oltre che alla natura stessa degli uomini e tale realtà non poteva
sfuggire al Costituente. La riservatezza può essere una virtù, ma non è
sicuramente un obbligo assoluto, imposto addirittura da una norma
costituzionale, immediatamente precettiva.
Basti, per altro, considerare che è lo stesso ordinamento ad escludere una
tutela generalizzata del diritto alla riservatezza delle comunicazioni,
posto che sono le leggi ordinarie che assicurano, in casi specifici e
determinati, in armonia con la previsione "mediata" della Carta dei
valori, tale tutela: esemplificativamente, in tema di organizzazione
dell'impresa (art. 2105 c.c.), di segreto d'ufficio (artt. 15 Testo unico
3/1957 e 28 legge 240/90), di lavoro domestico (art. 6 legge 339/58), di
segreto professionale, scientifico e industriale (artt. 622 e 623 c.p.).
La tutela del diritto alla riservatezza, intesa nel senso innanzi
precisato, è in linea con l'interpretazione che ne è stata data dal
Giudice delle leggi (Corte costituzionale 81/1993) e da queste stesse
Sezioni unite (cfr. sentenza 23 febbraio 2000, D'Amuri) in relazione alla
diffusione da parte di terzi dei dati "esteriori" delle comunicazioni
telefoniche che, in via di principio, devono rimanere nell'esclusiva
disponibilità dei soggetti interessati.
La normativa in tema di intercettazioni dà attuazione all'esigenza
costituzionale di cui all'art. 15 della Carta fondamentale, che, pur non
sottovalutando, ma tenendo nel debito conto, l'inderogabile dovere dello
Stato di prevenire e reprimere i reati, prevede l'attuazione di tale
dovere nell'assoluto rispetto di particolari cautele dirette a tutelare
l'inviolabilità della libertà e della segretezza delle comunicazioni, bene
questo intimamente connesso alla protezione del nucleo essenziale della
dignità umana e al pieno sviluppo della personalità nelle formazioni
sociali.
Gli art. 266 e ss. c.p.p., infatti, fissano i limiti in cui è ammessa la
ricerca della prova per mezzo dello strumento captativo, che ha notevole
capacità intrusiva, stabiliscono i presupposti e le forme dei
provvedimenti autorizzativi delle intercettazioni, disciplinano lo
svolgimento delle operazioni, i modi di acquisizione e conservazione della
relativa documentazione, l'utilizzabilità dei risultati in altri
procedimenti e prevedono, infine, sanzioni processuali per la violazione
delle regole.
È necessario, quindi, individuare i contenuti della nozione di
intercettazione, allo scopo di delimitare l'ambito operativo della
normativa in questione e verificare, poi, se possano essere introdotti nel
processo, con modalità di acquisizione diverse, elementi probatori
comunque inerenti a conversazioni o comunicazioni.
3. Il codice non offre una definizione dell'intercettazione, ma dal
complesso normativo, che ne prevede l'autorizzazione e ne regola i
presupposti, lo svolgimento delle operazioni e l'utilizzabilità dei
risultati, si evince che l'intercettazione "rituale" consiste
nell'apprensione occulta, in tempo reale, del contenuto di una
conversazione o di una comunicazione in corso tra due o più persone da
parte di altri soggetti, estranei al colloquio. Questa caratterizzazione
in senso restrittivo del concetto d'intercettazione, astrattamente
suscettibile di interpretazioni più estensive, è l'unica in sintonia con
la disciplina legale di cui al capo IV, titolo III, libro III del c.p.p. (cfr.,
nello stesso senso, Corte costituzionale sentenza 81/1993; Sezioni unite,
23 febbraio 2000, D'Amuri).
L'intercettazione di comunicazioni interprivate richiede, quindi, perché
sia qualificata tale, una serie di requisiti: a) i soggetti devono
comunicare tra loro col preciso intento di escludere estranei dal
contenuto della comunicazione e secondo modalità tali da tenere quest'ultima
segreta: una espressione del pensiero che, pur rivolta ad un soggetto
determinato, venga effettuata in modo poco discreto sì da renderla
percepibile a terzi (ad esempio, parlando ad alta voce in pubblico,
servendosi di onde radio liberamente captabili), non integra il concetto
di "corrispondenza" o di "comunicazione", bensì quello di
"manifestazione", con l'effetto che si rimane al di fuori del fenomeno in
esame e viene in considerazione l'art. 21 e non l'art. 15 della
Costituzione, d'altra parte, la volontaria scelta di modalità comunicative
che rendano accessibili a terzi i corrispondenti dati di conoscenza pone
la cognizione di questi ultimi fuori della garanzia assicurata dall'art.
15 Costituzione; b) è necessario l'uso di strumenti tecnici di percezione
(elettro-meccanici o elettronici) particolarmente invasivi ed insidiosi,
idonei a superare le cautele elementari che dovrebbero garantire la
libertà e segretezza del colloquio e a captarne i contenuti: tanto è
desumibile dalla lettera della norma (art. 268 c.p.p.) che impone di
effettuare - di regola - le operazioni di intercettazione "per mezzo degli
impianti installati nella Procura della Repubblica" ed, eccezionalmente,
"mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia
giudiziaria"; non v'è, pertanto, intercettazione "rituale" se l'operatore
non si avvale dei detti strumenti e se la cognizione non avviene mediante
la predisposizione di un apparato tecnico capace di captare la
comunicazione mentre si svolge (particolare è il caso, riconducibile anche
nel concetto d'intercettazione, pur discostandosene dallo schema tipico,
del terzo che provveda a nascondere - per poi ovviamente recuperarlo - un
apparecchio magnetofonico in funzione nella stanza destinata ad ospitare
una conversazione tra altre persone, con ascolto "in differita" della
riproduzione); c) l'assoluta estraneità al colloquio del soggetto captante
che, in modo clandestino, consenta la violazione della segretezza della
conversazione.
3a. Ciò posto, deve escludersi che possa essere ricondotta nel concetto
d'intercettazione la registrazione di un colloquio, svoltosi a viva voce o
per mezzo di uno strumento di trasmissione, ad opera di una delle persone
che vi partecipi attivamente o che sia comunque ammessa ad assistervi.
Difettano, in questa ipotesi, la compromissione del diritto alla
segretezza della comunicazione, il cui contenuto viene legittimamente
appreso soltanto da chi palesemente vi partecipa o vi assiste, e la "terzietà"
del captante. La comunicazione, una volta che si è liberamente e
legittimamente esaurita, senza alcuna intrusione da parte di soggetti ad
essa estranei, entra a fare parte del patrimonio di conoscenza degli
interlocutori e di chi vi ha non occultamente assistito, con l'effetto che
ognuno di essi ne può disporre, a meno che, per la particolare qualità
rivestita o per lo specifico oggetto della conversazione, non vi siano
specifici divieti alla divulgazione (es.: segreto d'ufficio).
Ciascuno di tali soggetti è pienamente libero di adottare cautele ed
accorgimenti, e tale può essere considerata la registrazione, per
acquisire, nella forma più opportuna, documentazione e quindi prova di ciò
che, nel corso di una conversazione, direttamente pone in essere o che è
posto in essere nei suoi confronti; in altre parole, con la registrazione,
il soggetto interessato non fa altro che memorizzare fonicamente le
notizie lecitamente apprese dall'altro o dagli altri interlocutori.
L'acquisizione al processo della registrazione del colloquio può
legittimamente avvenire attraverso il meccanismo di cui all'art. 234/1°
c.p.p., che qualifica "documento" tutto ciò che rappresenta "fatti,
persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o
qualsiasi altro mezzo"; il nastro contenente la registrazione non è altro
che la documentazione fonografica del colloquio, la quale può integrare
quella prova che diversamente potrebbe non essere raggiunta e può
rappresentare (si pensi alla vittima di un'estorsione) una forma di
autotutela e garanzia per la propria difesa, con l'effetto che una simile
pratica finisce coi ricevere una legittimazione costituzionale.
Una parte della dottrina ha negato il carattere di prova documentale al
nastro registrato e ha, pertanto, escluso che lo stesso, in quanto
rappresentativo di dichiarazioni e non di "fatti, persone o cose", possa
essere introdotto nel processo.
È agevole replicare che il codice identifica e definisce il documento "in
ragione della sua attitudine a rappresentare" (relazione al prog. prel.
del nuovo codice), senza discriminare tra i differenti mezzi di
rappresentazione e le differenti realtà rappresentate e senza operare
alcuna distinzione tra rappresentazione di fatti e rappresentazione di
dichiarazioni (cfr: Corte costituzionale, sentenza 142/92). La
dichiarazione, per altro, considerata nella sua globalità, integra un
"fatto" e la relativa registrazione documenta non soltanto la circostanza
che un determinato soggetto ha parlato in un certo contesto
spazio-temporale, ma anche che ha pronunciato quelle parole che risultano
incise sul nastro, salva ovviamente ogni valutazione circa la genuinità
del documento, la fedeltà della riproduzione e la veridicità delle
dichiarazioni di scienza così come registrate.
D'altra parte, la legittimità - in tesi - di una tale prova documentale
non può essere posta seriamente in dubbio, ove si consideri che essa ha
per oggetto fatti in ordine al quali nessuno dubita della praticabilità
della testimonianza de relato, espressamente disciplinata dall'art. 195
c.p.p. Alla testimonianza dell'ascoltatore, quindi, si affianca, come
tipico mezzo di prova del fatto "dichiarazione stragiudiziale", la
riproduzione fonografica dell'atto dichiarativo. Se quest'ultima viene
offerta al giudice come prova anziché il resoconto testimoniale, la vox
mortua proveniente dall'incisione fonografica finisce con l'assolvere
"l'identica funzione della vox viva del teste, considerato che riferisce,
come riferirebbe un testimone, le parole di chi ha emesso la
dichiarazione".
Sulla generica ammissibilità della cosiddetta "prova magnetofonica", sia
pure intesa come "prova innominata", si concordava in dottrina e
giurisprudenza già nel vigore del codice di rito abrogato, che pure nulla
disponeva al riguardo. Il nuovo codice rende superflua ogni discussione in
argomento, considerato che l'art. 234 non soltanto fuga ogni possibile
dubbio circa l'ammissibilità della prova fonografica, ma offre una
definizione normativa di prova documentale che, nel suo più ampio
significato, ricomprende anche quella in discussione.
È ovvio che non deve trattarsi della riproduzione meccanica di atti
processuali e, pertanto, vanno escluse dal novero di prove documentali le
riproduzioni fonografiche di cui agli art. 134/3°-4°, 139, 141bis, 214/3°,
219/2°, 398/5° bis c.p.p.
La prova documentale in senso stretto è caratterizzata da una genesi
"strutturalmente e funzionalmente autonoma rispetto alla vicenda
processuale" e si forma fuori dell'ambito processuale, nel quale deve
essere introdotta per acquistare rilevanza.
Al nastro magnetico, dunque, non va negata, in linea generale, un'autonoma
efficacia rappresentativa, che prescinde dalla testimonianza dell'autore
della registrazione.
3b. Né può fondatamente sostenersi che la divulgazione del contenuto del
colloquio da parte di chi lo ha registrato sarebbe inibita dall'art. 15
Costituzione, posto che il diritto alla riservatezza, non atteggiandosi,
in questo caso, come componente essenziale del diritto alla libertà e
segretezza delle comunicazioni, non si pone come valore costituzionalmente
protetto e, ove non risulti neppure assicurato da specifiche previsioni
della legge ordinaria, cede di fronte all'esigenza di formazione e di
conservazione di un mezzo di prova. Il diritto alla riservatezza - come si
è detto - non vive nell'ordinamento sulla base di una previsione
generalizzata, ma è il legislatore che di volta in volta ne dispone la
genesi e la tutela. Il Costituente si è semplicemente preoccupato di
garantire gli interlocutori dalla arbitraria e fraudolenta intrusione di
terzi. Esauritosi il rapporto tra il comunicante ed il destinatario,
residua solo un fenomeno di diffusione della notizia da parte di chi
legittimamente l'ha acquisita, il quale potrà, salvo che una specifica
norma dell'ordinamento gliene faccia divieto, comunicare a terzi la
notizia ricevuta e, più specificamente, nell'ambito del processo, potrà
deporre come testimone su quanto gli è stato riferito e/o consegnare il
nastro registrato.
Il divieto di divulgazione di notizie legittimamente apprese, quale
espressione del diritto di riservatezza del comunicante, non ha carattere
assoluto neppure alla luce della Convenzione europea dei diritti dell'uomo
(Cedu), resa esecutiva in Italia con legge 848/55.
È vero che, nella genericità della formula normativa adottata dal
legislatore pattizio nell'art. 8 della Convenzione, è ricompressa la
salvaguardia dell'interesse alla riservatezza, anche nel suo aspetto più
"evoluto" di interesse al controllo sulla gestione delle informazioni
fornite a terzi, ma non può sottacersi che il 2° comma del richiamato art.
pone l'accento, in particolare, su condotte di "introduzione,
intromissione interferenza" e non anche su condotte divulgative e che il
successivo art. 10, al comma 1°, riconosce il diritto alla libertà di
espressione e quindi alla... "libertà di ricevere o di comunicare
informazioni" di cui si è venuti legittimamente in possesso e, al secondo
comma, prevede che l'esercizio di tale diritto può "essere subordinato a
determinate formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni", anche "per
impedire la diffusione di informazioni riservate", il che significa che la
concreta tutela della riservatezza rimane affidata ad espresse previsioni
della legge ordinaria di ogni singolo Stato aderente alla Convenzione.
4. Ritenuta, pertanto, l'ammissibilità della prova documentale, integrata
dalla registrazione fonografica di una comunicazione tra presenti (o anche
tra persone che si servono di uno strumento di trasmissione) ad opera di
uno degli interlocutori o di persona ammessa ad assistervi, va affrontato
il tema della concreta utilizzabilità, nel processo, di una simile prova.
4a. Non pone problemi particolari il caso in cui la registrazione sia
effettuata da un privato e il documento fonografico venga, quindi, ad
esistenza al di fuori dell'ambito processuale e di ogni attività
investigativa e assuma una propria autonomia strutturale rispetto a
questi. Non v'è dubbio che, in tale ipotesi, la prova rappresentativa,
formatasi presumibilmente in maniera spontanea e libera, essendo
"precostituita", ben può essere acquisita al processo ed utilizzata dal
giudice ai fini della decisione, perché, data la sua genesi, è insensibile
a qualunque verifica circa il rispetto delle regole in materia di
assunzione della prova, regole di cui il privato non è destinatario e che
non operano oltre i confini processuali o, quanto alle indagini, oltre
quelli procedimentali.
4b. Ben più delicato è il caso in cui il documento fonografico sia formato
per iniziativa di un operatore della polizia giudiziaria, che occultamente
registra il contenuto di una conversazione alla quale partecipa.
Emerge immediatamente, in questa ipotesi, una problematica che,
prescindendo dalla "teorica" ammissibilità delle registrazioni clandestine
a cura del partecipe al colloquio, si focalizza specificamente sulla
particolare qualità del medesimo partecipe; non assumono cioè rilevanza il
tema della registrazione quale prova documentale e quello connesso della
disciplina costituzionale e processuale sulla riservatezza delle
comunicazioni; l'attenzione, invece, va concentrata sulla legittimità
dell'atto compiuto dalla polizia giudiziaria: assume, in sostanza,
importanza secondaria il fatto che le informazioni siano state stabilmente
impresse su nastro magnetico; il documento fonico, di per sé, per la sola
ragione che è - in tesi - legittimato dall'art. 234 c.p.p., non rende
valida ed utilizzabile un'acquisizione invalida, perché in violazione di
altri divieti stabiliti, nel caso specifico, dalla legge.
La pratica investigativa di ricorrere alla registrazione occulta di
colloqui che la polizia giudiziaria intrattiene con confidenti, persone
informate dei fatti, indagati o indagabili va decisamente scoraggiata,
perché, stenta, innanzi tutto, a conciliarsi con il disposto degli art.
188 e 189 c.p.p., per il naturale sospetto della presenza di insidie di
natura fraudolenta che possono incidere sulla libertà morale della persona
interessata, e perché soprattutto deve rapportarsi, per ricevere
legittimazione, alle altre regole che presidiano determinati mezzi di
prova.
La "deformalizzazione" del contesto nel quale determinate dichiarazioni
vengono percepite dal funzionario di polizia non deve costituire un
espediente per assicurare comunque al processo contributi informativi che
non "sarebbe stato possibile ottenere ricorrendo alle forme ortodosse di
sondaggio delle conoscenze del dichiarante".
Non può legittimarsi, sulla scia di una cultura inquisitoria che, in
quanto estranea al vigente codice, deve essere definitivamente
abbandonata, l'apertura di varchi preoccupanti nella tassatività e nella
legalità del sistema probatorio, proponendosi "veicoli di convincimento...
affidati interamente alle scelte dell'investigatore". Va superata ogni
forma di distonia tra prassi delle indagini, condizionata ancora da
atteggiamenti inquisitori, e concezione codificata della prova, qual è
strutturata nel vigente sistema accusatorio. Va vinta qualunque tentazione
di forzare le regole processuali in nome di astratte esigenze di ricerca
della verità reale, considerato che le dette regole non incorporano
soltanto una neutra disciplina della sequenza procedimentale, ma
costituiscono una garanzia per i diritti delle parti e per la stessa
affidabilità della conoscenza acquisita.
5. In sostanza, il problema delle violazioni eventualmente commesse
nell'uso investigativo del registratore va risolto alla luce dell'art. 191
c.p.p., che rappresenta la consacrazione e l'estensione delle affermazioni
contenute nella nota sentenza 34/1973 della Corte costituzionale (tanto
che nella relazione ministeriale alla detta norma si evoca proprio tale
importante pronuncia). Il richiamato art., infatti, ancora, in via
generale, la sanzione dell'inutilizzabilità alla violazione dei divieti
stabiliti dalla "legge", superando così l'antica tesi che si basava su di
una sorta di "autonomia" del diritto processuale penale in relazione ai
vizi della prova, che quindi possono trovare la loro fonte in tutto il
corpus normativo a livello di legge ordinaria o superiore (già queste
Sezioni unite hanno ritenuto l'inutilizzabilità di prove cosiddette
incostituzionali: 25 marzo 1998, Manno; 13 luglio 1998, Gallieri; 23
febbraio 2000, D'Amuri).
Di fronte ad una previsione normativa così perentoria e radicale, è
evidente che la palese violazione dello schema legale rende l'atto
investigativo, che si pone al di fuori di tale schema, infruttuoso sul
piano probatorio, per violazione della legge processuale.
Né vanno sottaciute specifiche norme processuali, correlate alla detta
prescrizione generale, che prevedono divieti probatori sanzionati
dall'inutilizzabilità (artt. 62, 63, 141-bis, 195, 203 c.p.p.).
L'atto documentato in forma differente da quella prescritta, sebbene non
possa ritenersi, come pure si è affermato (cfr. Cassazione sezione prima,
12 ottobre 1994, Savignano), inesistente o nullo in sé (patologia
statica), sintetizza certamente un'attività di indagine illegittimamente
svolta e non può assumere, pertanto, valore di prova (cosiddetta patologia
dinamica).
5a. Ciò posto, la registrazione effettuata dalla p.g. di dichiarazioni,
conversazioni, colloqui non è utilizzabile processualmente tutte le volte
che viola il divieto di testimonianza posto dagli artt. 62 e 195/4° c.p.p.,
quello della ricezione di dichiarazioni indizianti rese, senza il rispetto
delle garanzie difensive, dalla persona sottoposta ad indagini o
dall'imputato (art. 63 c.p.p.), nonché quello concernente le dichiarazioni
dei cosiddetti "confidenti" della polizia e dei servizi di sicurezza (art.
203 c.p.p.).
Come si è sopra accennato, la spendibilità processuale delle registrazioni
clandestine si gioca sulla pertinenza del documento fonico alla
rappresentazione di notizie (aventi ad oggetto il contenuto del colloquio)
che ben possono essere introdotte nel processo attraverso la testimonianza
del partecipe implicato nella registrazione.
Il regime di ammissibilità della particolare prova documentale costituita
dalla registrazione ad opera della p.g. non può che essere conformato
proprio alle regole di preclusione della testimonianza sulle dichiarazioni
di terzi.
Il riferimento immediato va al divieto di deposizione de relato per gli
organi di polizia che abbiano acquisito, nell'espletamento della propria
funzione investigativa, atti dichiarativi.
Va, inoltre, sottolineata la diversità di regolamentazione prevista per la
deposizione indiretta di fonte "comune", che non è deputata ad attività
investigative, rispetto a quella "qualificata" proveniente dalla polizia
giudiziaria, e ciò proprio al fine di evitare che abbiano ingresso nel
processo atti investigativi non ammissibili e non utilizzabili.
L'art. 195/4° c.p.p., nella vigente formulazione, vieta la testimonianza
del funzionario di polizia "sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da
testimoni con le modalità di cui agli art. 351 e 357/2° lettera a) e b)".
Il divieto, quindi, ha per oggetto: a) le sommarie informazioni assunte
dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle
indagini, per le quali l'art. 357/2° lettera c) c.p.p. prescrive la
redazione di apposito verbale; b) le informazioni assunte, anch'esse da
verbalizzare, dalle persone imputate in un procedimento connesso o
collegato; c) le sommarie informazioni rese e le spontanee dichiarazioni
ricevute da soggetti indagati, per le quali pure è prescritta la redazione
del verbale (art. 357/2° lettera b), anche se la superfluità di tale
specifica previsione è insita nella preclusione testimoniale già
perentoriamente espressa dall'art. 62 c.p.p. per le dichiarazioni comunque
rese dall'imputato o dall'indagato nel corso del procedimento; d) il
contenuto narrativo delle denunce, querele e istanze presentate oralmente
e soggette a verbalizzazione, atti che comunque, ove contengano sommarie
informazioni testimoniali, sono riconducibili nella previsione degli art.
351 e 357/2° lettera c) c.p.p.
Si è voluto così circoscrivere il ripristinato divieto della testimonianza
indiretta, in attuazione della nuova formulazione dell'art. 111
Costituzione e a superamento della sentenza 24/1992 della Corte
costituzionale (che lo aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo),
soltanto agli atti tipici di contenuto dichiarativo compiuti dalla p.g., i
quali devono essere documentati mediante la redazione di un apposito
verbale.
Il riferimento alle modalità di cui agli art. 351 e 357 contenuto
nell'art. 195/4° c.p.p. non può essere interpretato nel senso di rendere
legittima la testimonianza di secondo grado del funzionario di polizia in
caso di mancata verbalizzazione (pur sussistendone l'obbligo) dell'atto di
acquisizione delle informazioni ricevute. Così interpretata, la norma
finirebbe per tradire il suo scopo fondamentale, che è quello di evitare
l'introduzione nel dibattimento, a fini probatori, di dichiarazioni
acquisite in un contesto procedimentale non correttamente formalizzato, di
salvaguardare il principio di formazione della prova nel contraddittorio
del dibattimento e di sanzionare, quindi, l'obbligo di documentazione
dell'attività investigativa tipica della p.g., osservando le particolari
modalità prescritte dal codice di rito, che non consente di surrogare la
redazione del verbale (che costituisce una formalizzazione in funzione
documentativa comunque irrinunciabile) con la registrazione.
L'interpretazione rigorosa e coerente del quarto comma dell'art. 195
c.p.p., strutturato in termini di complementarità con le modalità di
documentazione del contenuto delle dichiarazioni acquisite in sede di
indagini e con il meccanismo di lettura dibattimentale dell'atto divenuto
irripetibile, non può che essere nel senso che esso vieti non soltanto la
testimonianza indiretta sulle dichiarazioni regolarmente acquisite in sede
di sommarie informazioni, ma anche quella sulle dichiarazioni che "si
sarebbero dovute acquisire con le modalità di cui all'art. 351 c.p.p.".
L'indirizzo giurisprudenziale, secondo cui la mancata verbalizzazione di
determinati atti tipici non sarebbe di ostacolo alla testimonianza di
secondo grado (Cassazione 30 giugno 1999, Santoro; 29 novembre 1999,
Lanzillotta; 4 marzo 1998, Bodilli), non è più in linea col nuovo sistema,
il quale ha voluto evitare elusioni in forma surrettizia del principio del
contraddittorio.
Gli "altri casi" per i quali l'art. 195/4° legittima la testimonianza de
auditu del funzionario di polizia si riducono alle sole ipotesi in cui
dichiarazioni di contenuto narrativo siano state rese da terzi e percepite
dal funzionario "al di fuori di uno specifico contesto procedimentale di
acquisizione delle medesime", in una situazione operativa eccezionale o di
straordinaria urgenza e, quindi, al di fuori di un "dialogo tra teste e
ufficiale o agente di p.g., ciascuno nella propria qualità".
Esemplificativamente, si pensi alle frasi pronunciate dalla persona offesa
o da altri soggetti presenti al fatto, nell'immediatezza dell'episodio
criminoso; alle dichiarazioni percepite nel corso di attività
investigative tipiche - quali perquisizioni, accertamenti su luoghi - o
atipiche in tali casi, è acquisibile ed utilizzabile, come quali
appostamenti, pedinamenti ecc. documento, anche l'eventuale registrazione
su nastro magnetico delle comunicazioni percepite.
Tale interpretazione, che appare l'unica ragionevole e costituzionalmente
corretta, trova indiretto conforto nei recenti interventi della Consulta (cfr.
sentenza 32/2002 e ordinanza 36/2002), che ha rimarcato il senso del
principio del contraddittorio nella formazione della prova, previsto
dall'art. 111 Costituzione: "...da questo principio con il quale il
legislatore ha dato formale riconoscimento al contraddittorio come metodo
di conoscenza dei fatti oggetto di giudizio, deriva quale corollario il
divieto di attribuire valore di prova alle dichiarazioni raccolte
unilateralmente dagli organi investigativi" (sentenza 32/2002); l'art. 111
Costituzione [ha] espressamente attribuito risalto costituzionale al
principio del contraddittorio, anche nella prospettiva della
impermeabilità del processo, quanto alla formazione della prova, rispetto
al materiale raccolto in assenza della dialettica tra le parti; ... "alla
stregua di tale opzione appare del tutto coerente la previsione di
istituti che mirino a preservare la fase del dibattimento... da
contaminazioni probatorie fondate su atti unilateralmente raccolti nel
corso delle indagini preliminari" (ordinanza 36/2002).
L'esposta disciplina sul divieto di testimonianza indiretta degli
ufficiali ed agenti della p.g. non appare irragionevole e discriminatoria
neppure nel raffronto con quella relativa all'incompatibilità a
testimoniare (art. 197/1° lettera d) c.p.p.) del "difensore che abbia
svolto attività di investigazione difensiva" e di "coloro che hanno
formato la documentazione delle dichiarazioni e delle informazioni assunte
ai sensi dell'art. 391-ter" c.p.p. Tale incompatibilità, anzi, se
correttamente interpretata in armonia con l'art. 111/4° Costituzione, non
lascia alcuno spazio all'aggiramento delle regole di esclusione probatoria
(cfr. sentenza 32/2002 Corte costituzionale). Né la possibilità offerta al
difensore e agli investigatori privati, ex art. 391-bis c.p.p., di
procedere a colloqui informali e non documentati determina una disparità
di trattamento tra le parti processuali, atteso che detti colloqui,
proprio perché non documentati e funzionali all'eventuale attività
investigativa della difesa, risultano, di per sé, insuscettibili
d'impiego, ai sensi dell'art. 391-decies c.p.p. La possibile deposizione
testimoniale, salvo ad opporre il segreto professionale ex art. 200 c.p.p.,
dell'investigatore privato, non destinatario della previsione
d'incompatibilità di cui all'art. 197/1° lettera d) c.p.p., sui colloqui
informali intrattenuti, pur apparendo una scelta non felice, finisce col
ricadere nella disciplina di cui all'art. 195/1°-2°-3° c.p.p., il che non
determina alcuno squilibrio del sistema, che, in questo specifico caso,
non impone alcuna regola "tipica" per la spendibilità processuale del
contenuto di tali "colloqui" (al di là di ogni considerazione sulla
rilevanza del contenuto degli stessi, se non seguiti da "dichiarazione
scritta" o "informazioni" documentate dei soggetti sentiti).
5b. Conclusivamente, per quello che qui interessa, non possono essere
acquisiti al processo e non possono essere utilizzati, come materiale
probatorio, documenti fonografici rappresentativi di sommarie informazioni
rese alla p.g. (e da questa clandestinamente registrate) da persone a
conoscenza di circostanze utili ai fini delle indagini, perché, in tale
maniera, si renderebbe il processo permeabile da apporti probatori
unilaterali degli organi investigativi e soprattutto si aggirerebbero le
regole sulla formazione della prova testimoniale nel contraddittorio
dibattimentale.
Non diversa deve essere la conclusione per il dictum formalmente
extraprocedimentale dell'indiziato (o di chi deve ritenersi
sostanzialmente tale ovvero dell'indagato o dell'imputato di reato
connesso o collegato) che, però, si collochi in un contesto di ricerca
investigativa preordinato alla sua acquisizione e che sia oggetto di
memorizzazione fonica. L'acquisizione del relativo documento magnetico
consentirebbe, in questo caso, un facile aggiramento del disposto
dell'art. 63/2° c.p.p., che proibisce l'utilizzo di qualsiasi
dichiarazione resa dall'indagato alla p.g., in mancanza delle prescritte
garanzie difensive.
Anche le notizie provenienti dagli "informatori" della p.g. e da questa
impresse su nastro magnetico non possono essere veicolate nel processo,
attraverso l'acquisizione e l'utilizzazione del documento fonografico (o
attraverso la sola testimonianza indiretta). Ciò urta contro il divieto
probatorio di cui all'art. 203 c.p.p., a sua volta correlato alla generale
prescrizione dell'art. 191 c.p.p.
Secondo il disposto del citato art. 203/1°, le informazioni fornite dai
confidenti non possono essere acquisite e utilizzate se i predetti non
sono esaminati come testimoni (l'operatività della norma è stata, in
maniera espressa, estesa - mediante l'aggiunta del comma 1-bis ad opera
dell'art. 7 della legge 63/2001 - alle fasi diverse dal dibattimento). Il
legislatore, nell'optare per la drastica sanzione dell'inutilizzabilità,
ha inteso sottolineare che, in tale ipotesi, ci si trova di fronte a
materia indisponibile, in cui gli effetti dell'atto assunto in violazione
del precetto normativo sono determinati dallo stesso legislatore, senza
possibilità per le parti di farvi acquiescenza. La previsione
dell'inutilizzabilità, per altro, è prevista in via generale anche
dall'art. 195/1° c.p.p., laddove è stabilito che "non può essere
utilizzata la testimonianza di chi si rifiuta o non è in grado di indicare
la persona o la fonte da cui ha appreso la notizia dei fatti oggetto
dell'esame". Il materiale probatorio proveniente dai confidenti di
polizia, infatti, in quanto di norma assunto nel segmento dell'attività
investigativa più lontano e refrattario al controllo giurisdizionale, è
oggettivamente pericoloso e inaffidabile, tanto più quando venga acquisito
in forma mediata; da qui l'obbligatorietà della diretta escussione del
confidente, se ne vengano indicate le generalità. Competerà, poi, al
giudice, come in ogni altro caso, la valutazione di attendibilità della
notizia confidenziale e della testimonianza diretta, ove i relativi
contenuti divergano.
5c. Le considerazioni sin qui svolte consentono di enunciare i seguenti
principi di diritto:
La registrazione fonografica di una conversazione o di una comunicazione
ad opera di uno degli interlocutori, anche se operatore di polizia
giudiziaria, e all'insaputa dell'altro (o degli altri) non costituisce
intercettazione, difettandone il requisito fondamentale, vale a dire la
terzietà del captante, che dall'esterno s'intromette in ambito privato non
violabile.
"La registrazione del colloquio, in quanto rappresentativa di un fatto,
integra la prova documentale disciplinata dall'art. 234/1° c.p.p.".
"Il documento fonografico è pienamente utilizzabile se non viola
specifiche regole di acquisizione della prova".
"Non è utilizzabile come prova la registrazione fonografica effettuata
clandestinamente da personale della polizia giudiziaria e rappresentativa
di colloqui intercorsi tra lo stesso ed i suoi confidenti o persone
informate dei fatti o indagati, perché urta contro i divieti di cui agli
art. 63/2°, 191, 195/4° e 203 c.p.p.".
6. Altro problema dedotto con i motivi di ricorso attiene ai limiti di
operatività dell'art. 512 c.p.p.
Tale norma prevede una forma di irripetibilità sopravvenuta ed estrinseca
di atti assunti in sede di indagini preliminari e, quindi, la possibilità
di "ripescaggio" di tale materiale probatorio, di cui imprevedibilmente ne
sia divenuta impossibile la ripetizione.
Due, quindi, sono le condizioni necessarie per l'operatività della norma
in questione, che costituisce un'eccezione al principio dell'oralità del
processo: a) sopravvenienza di una situazione imprevedibile nel momento in
cui l'atto è stato assunto; b) non reiterabilità dell'atto per effetto di
una situazione non ordinariamente superabile.
La valutazione circa la ricorrenza di tali condizioni è demandata in via
esclusiva al giudice di merito, il quale, in ordine alla prima, deve
formulare una prognosi postuma, sorretta da motivazione adeguata e
conforme alle regole della logica, e, in ordine alla seconda, deve
accertare la natura oggettiva dell'impossibilità di formazione della prova
in contraddittorio, apprezzando tale evenienza liberamente non in termini
di "assolutezza", ma di realistica impossibilità (non di "mera
difficoltà") di dare corso, nel dibattimento, all'assunzione della
medesima prova.
Anche dopo la modifica dell'art. 111 Costituzione con l'introduzione dei
principi del cosiddetto "giusto processo", possono essere lette ed
acquisite al fascicolo del dibattimento, ex art. 512 c.p.p., le
dichiarazioni rese da un teste nella fase delle indagini, qualora lo
stesso, per cause imprevedibili al momento del suo esame, risulti
irreperibile, atteso che tale situazione, la cui verifica non deve essere
meramente "burocratica e routinaria" (cfr. sezione sesta, 19 febbraio
2003, Bianchi; 8 gennaio 2003 Pantini), configura una delle ipotesi di
oggettiva e concreta impossibilità di formazione della prova in
contraddittorio previste dal precetto costituzionale (art. 111/5°
Costituzione: "la legge regola i casi in cui la formazione della prova non
ha luogo in contraddittorio... per accertata impossibilità di natura
oggettiva...").
La situazione di accertata "irreperibilità" non può essere "tout court"
equiparata alla volontaria sottrazione all'esame di cui all'art. 526/1-bis
c.p.p., che presuppone, comunque, la potenziale attuabilità
dell'audizione.
In sostanza, il sistema, pur muovendosi, in coerenza col dettato
costituzionale, nella prospettiva di privilegiare la forza confutatrice
del confronto tra accusato e accusatore, non trascura di considerare il
caso in cui tale confronto diventi oggettivamente impossibile, onde
recuperare, in linea con la deroga pure prevista dalla Costituzione (art.
111/5°), il precedente narrativo.
Ne consegue che va affermato l'ulteriore principio di diritto:
"La disposizione di cui all'art. 512 c.p.p., secondo la quale può darsi
lettura degli atti assunti dalla polizia giudiziaria, dal Pm, dai
difensori e dal giudice nel corso dell'udienza preliminare quando, per
fatti o circostanze imprevedibili, ne è divenuta impossibile la
ripetizione, è applicabile anche in caso di irreperibilità del
dichiarante, considerato che tale situazione, da accertarsi con rigore,
configura una ipotesi di oggettiva impossibilità di formazione della prova
in contraddittorio e non può essere equiparata alla volontaria scelta di
sottrarsi all'esame di cui all'art. 526/1-bis c.p.p., che presuppone
comunque la potenziale attuabilità, in dibattimento, dell'audizione".
7. Passando, quindi, ad analizzare i singoli motivi di ricorso, va
riassuntivamente osservato quanto segue.
7a. Non sussiste, innanzi tutto, il dedotto vizio di manifesta illogicità
della motivazione della gravata pronuncia, nella parte in cui - per un
verso - ritiene inutilizzabili le dichiarazioni (registrate) fatte alla
Gdf da G. e da I. e - per altro verso - utilizzerebbe proprio tali
dichiarazioni, quale prova delle cessioni di droga ai predetti.
La doglianza - comune ai due ricorrenti - riposa su un equivoco di fondo.
Non v'è, infatti, coincidenza tra gli atti investigativi ritenuti
inutilizzabili dalla Corte di merito e gli elementi probatori posti a base
della decisione adottata sul punto.
Le dichiarazioni del G. prese in considerazione, invero, sono quelle rese,
con le prescritte garanzie difensive e nel rispetto del contraddittorio,
all'udienza dibattimentale del 24 ottobre 2000 e non già il precedente
narrato confidenziale di cui furono destinatari, tra l'agosto '98 ed il
maggio '99, i finanzieri Margiotta e Trovato, anche se a tale precedente
il dichiarante ha fatto riferimento per relationem.
Le dichiarazioni dello I. ritenute rilevanti sono le informazioni,
regolarmente verbalizzate, in data 13 ottobre 1999 e 3 maggio 2000, le
quali non coincidono con quelle precedentemente registrate dell'11 marzo
1999 e del 18 maggio 1999 e ritenute inutilizzabili.
7b. Sussiste la denunciata violazione della legge processuale, con
riferimento all'acquisizione ed utilizzazione della registrazione
fonografica che documenta il colloquio "confidenziale" intercorso, il 29
maggio 1999, tra F. C. ed il sottufficiale della Gdf Margiotta.
Se il C., come sembra evincersi da alcuni passaggi espositivi delle
sentenze di merito, svolse il ruolo di "confidente" della polizia
giudiziaria, le sue informazioni non possono trovare ingresso nel processo
e non possono essere utilizzate come prova, perché, per quanto sopra
esposto, si viola così il disposto dell'art. 203 c.p.p., che impone
l'esame diretto del confidente-testimone. A tale esame diretto non si fa
alcun cenno nella decisione oggetto di verifica e neppure in quella di
primo grado.
Non può, tuttavia, la Corte ignorare che dal testo di entrambe le sentenze
di merito non emerge, con chiarezza, la sicura identificazione della
situazione con la fattispecie dell'art. 203 c.p.p., anche perché la
persona chiamata a fornire le informazioni sui fatti oggetto del
procedimento non può, a causa delle sole modalità irregolari di
assunzione, qualificarsi come fonte informativa della polizia. Il tratto
distintivo del "confidente" è semmai nella volontà, nel consenso del
soggetto ad offrire notizie, con l'assicurazione, garantita dalla legge
processuale, di restare in incognito: nel rapporto confidente-polizia non
c'è inganno; esso si regge sulla fiducia; la polizia protegge la fonte
informativa e la esclude - per quanto possibile - da ripercussioni
processuali. Tutto questo non si ricava, in modo univoco, dal testo della
sentenza impugnata, sicché non può escludersi che il C. sia stato sentito
dalla Gdf, al di là della qualificazione nominalistica attribuitagli, come
persona informata dei fatti ex art. 351 c.p.p.
Anche in quest'ultima ipotesi, il documento fonico non può essere
utilizzato, perché - come precisato - viola il modello legale previsto per
la prova testimoniale, da assumersi nella dialettica processuale delle
parti, ed altera il delicato equilibrio che deve contemperare poteri
investigativi e garanzie.
È pur vero che la gravata sentenza, in ordine alla cessione di droga al
C., fa riferimento anche alla testimonianza del m.llo Baldoni ed alle
informazioni de relato fornite da I. Domenico, ma tali ulteriori elementi
vengono apprezzati come meri "riscontri" al contenuto della registrazione,
la quale riveste un ruolo centrale e decisivo nel percorso motivazionale
seguito, che, deprivato di tale importante emergenza non utilizzabile,
perde ogni consistenza.
Su questo specifico punto, che riguarda la sola posizione del T., la
sentenza impugnata va, pertanto, annullata con rinvio ad altra sezione
della Corte d'appello di Catanzaro, che dovrà, in piena libertà di
giudizio ma adeguandosi ai principi di diritto sopra enunciati, rivalutare
questa parte della contestazione accusatoria alla luce dell'eventuale
deposizione dibattimentale del C. (anche attivando, se del caso, lo
strumento di cui all'art. 603/3° c.p.p.) e di ogni altro elemento di
giudizio legittimamente acquisito.
7c. Non censurabile in questa sede è il giudizio di responsabilità del T.
in ordine alla cessione di droga al G., giudizio fondato essenzialmente
sulle dichiarazioni dibattimentali di quest'ultimo ritenute pienamente
attendibili, esenti da sospetti inquinanti e riscontrate, quanto
all'abituale attività di spaccio praticata dal prevenuto, dal dictum dei
collaboratori di giustizia Di Stefano Massimo e D'Elia Pasqualino.
7d. Analoghe considerazioni vanno fatte quanto alla cessione di droga dal
T. allo I., ritenuta provata dalle sommarie informazioni da quest'ultimo
rese in sede di indagini e lette in dibattimento ex art. 512 c.p.p.
Il giudice di merito, in ordine alla legittimità di tale lettura, ha
offerto congrua e logica motivazione.
Nel momento in cui I. rese, in data 13 ottobre 1999 e 3 maggio 2000, in
uno spirito di piena collaborazione con gli inquirenti, le sommarie
informazioni che qui rilevano, non era prevedibile il suo futuro
comportamento e non era esigibile da parte degli inquirenti un'attenzione
maggiore di quella adottata, difettando elementi che consigliassero - per
esempio - l'attivazione dell'incidente probatorio di cui agli art. 392 e
ss. c.p.p.
L'accertamento della sopravvenuta irreperibilità dello I., come oggettiva
impossibilità di procurarsene la presenza in dibattimento e verificarne la
scelta comportamentale, non è stato meramente burocratico e formale, ma
sufficientemente approfondito, essendosi evidenziata tutta la scrupolosa
attività posta in essere per garantire l'assunzione delle dichiarazioni
del predetto nella cornice del contraddittorio processuale.
7e. Sorretta da corretta, adeguata e logica motivazione è la dichiarazione
di colpevolezza del C..
In ordine al primo motivo di ricorso da costui articolato, vanno
richiamate le considerazioni svolte in tema d'interpretazione dell'art.
512 c.p.p. e quelle di cui al punto precedente.
Quanto al dedotto vizio di motivazione circa la cessione di droga al D.,
l'iter argomentativo della sentenza, fondato sulla precisa deposizione
testimoniale del predetto, resiste alla censura, perché espressione di una
valutazione in fatto immune da vizi di manifesta illogicità.
Al rigetto del ricorso del C. consegue, di diritto, la condanna di costui
al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Annulla l'impugnata sentenza nei confronti di T.U., limitatamente alla
cessione di sostanza stupefacente a C.F., e rinvia per nuovo esame ad
altra sezione della Corte d'appello di Catanzaro. Rigetta nel resto il
ricorso del T., nonché il ricorso di C.G., che condanna al pagamento delle
spese processuali.
Depositata in Cancelleria il 24 settembre 2003.