Svolgimento del processo
Con decreto del Pm presso il Tribunale per i minorenni di Salerno del 27
gennaio 2003 fu disposto il sequestro probatorio, nei confronti di B.L.
(maggiorenne) di un personal computer e di diversi oggetti accessori
(dischetti, CD ROM, dischi Zip, dischi rigidi portatili) in relazione ai
reati
di cui agli articoli 600ter e 600quater Cp [1].
Il Tribunale per i minorenni di Salerno, quale giudice del riesame, con
ordinanza del 7 febbraio 2003, osservò:
che sulla base degli atti trasmessi dal Pm sussisteva il fumus
esclusivamente in relazione al reato di cui all’articolo 600quater Cp,
mentre non era assolutamente rinvenibile il fumus di una delle fattispecie
delittuose di cui all’articolo 600ter Cp;
che, per tale reato, non era prevista l’attività di contrasto ai sensi dell’articolo
14 della legge 269/98 [1], il quale limita tale attività al solo fine di
acquisire elementi di prova per i delitti di cui agli articoli 600bis, primo
comma, 600ter, commi 1, 2 e 3, e 600quinques Cp, e non anche per il reato di
cui all’articolo 600quater Cp, concernente la mera detenzione consapevole di
materiale pedopornografico;
che di conseguenza doveva annullarsi il decreto di sequestro impugnato ed
ordinarsi la restituzione di quanto in sequestro.
Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di
Salerno propone ricorso per cassazione deducendo:
che il procedimento nei confronti di B. è nato a seguito di un provvedimento
di stralcio emesso nel procedimento a carico di tale C.G., procedimento nel
quale era stata disposta l’attività di cui all’articolo 14 della legge
269/98. Ne consegue che non ci si trova di fronte ad un’ipotesi di
valutazione della legittimità del provvedimento del Pm che autorizza
l’attività di contrasto ai sensi del citato articolo 14 ma in quella,
diversa, di utilizzabilità in un processo di atti acquisiti in altro
procedimento.
che a quest’ultimo riguardo non è prevista nessuna specifica disposizione,
con la conseguenza che devono applicarsi le disposizioni generali
sull’utilizzabilità degli atti e sui presupposti dei provvedimenti di
perquisizione e sequestro;
che, anche se si volesse equiparare l’attività ex articolo 14 legge 269/98,
alle intercettazioni telefoniche o telematiche, non dovrebbe trovare
applicazione l’articolo
270, primo comma, Cpp [3], perché, secondo la giurisprudenza, qualora le
registrazioni di intercettazioni telefoniche rappresentino non una
conversazione relativa ad un fatto reato bensì una comunicazione che integra
essa stessa condotta del reato addebitato, la loro acquisizione al processo
va inquadrata nelle norme che regolano l’uso processuale del corpo di reato,
dovendosi tali registrazioni considerare cose sulle quali il reato è stato
commesso, con conseguente inapplicabilità delle limitazioni di cui
all’articolo 270 Cpp;
che quindi non sussiste alcun limite alla possibilità di sequestro del
materiale illegittimamente detenuto ex articolo 600quater Cp, qualunque sia
stata la fonte informativa dalla quale si abbia avuto notizia del possesso
(come nel caso in cui il materiale pedopornografico fosse stato sequestrato
a seguito di perquisizione diretta alla ricerca di armi o di droga), e ciò
per il motivo che si tratta comunque di materiale che costituisce corpo del
reato di cui al suddetto articolo 600quater Cp;
che, inoltre, dagli atti del procedimento stralciato, risulta che un
soggetto che utilizzava lo pseudonimo usato dal B. prelevò il 9 marzo 2002
ben 25 documenti di carattere pedopornografico dal F-server installato nel
corso delle indagini a carico di C.G., e tale attività di prelievo integra
la fattispecie di "scambio" di materiale pedopornografico, per cui vi sono
elementi sufficienti a ritenere il fumus del reato di cui all’articolo
600ter Cp;
che il tribunale non ha tenuto conto del secondo comma dell’articolo 240 Cp
secondo cui è sempre disposta la confisca delle cose la cui detenzione
costituisce reato, in relazione al settimo comma dell’articolo 324 Cpp,
secondo cui la revoca del decreto di sequestro non può essere disposta nei
casi indicati dall’articolo 240, secondo comma, Cp;
che sotto questo aspetto la motivazione della ordinanza impugnata è anche
manifestamente illogica perché, pur riconoscendo il fumus del reato di
detenzione di materiale pedopornografico (articolo 600quater Cp) si
autorizza a continuare tale detenzione ed a disperdere la prova del reato
stesso.
In data 30 aprile 2003 il difensore dell’indagato ha depositato memoria
difensiva con la quale contrasta le argomentazioni svolte dal Pm ricorrente.
Motivi della decisione
Deve essere logicamente esaminato per primo il quinto motivo del ricorso,
con il quale si sostiene che dagli atti emergerebbero elementi in base ai
quali sarebbe configurabile il fumus del reato di cui all’articolo 600ter Cp,
e ciò perché un soggetto utilizzante lo stesso pseudonimo utilizzato dal B.
avrebbe prelevato il 9 marzo 2002 25 documenti di carattere pedopornografico,
con il che si sarebbe realizzata la fattispecie dello "scambio" di tale
materiale e quindi il reato di cui all’articolo 600ter Cp.
Il motivo è chiaramente infondato. A questo proposito (pur essendo in realtà
irrilevanti), sono del tutto esatte le osservazioni contenute nella memoria
difensiva secondo cui tali pretesi documenti non sono stati mai acquisiti al
fascicolo, con impossibilità da parte del tribunale del riesame e della
difesa di poterne controllare il contenuto, e con conseguente illegittimità
di una decisione del tribunale del riesame che si fosse basata sugli stessi.
Ed invero, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, il giudice del
riesame, ai fini del decidere e del motivare "potrà prendere in
considerazione solo gli atti effettivamente depositati, con la conseguenza
che, qualora in base ad essi, egli non sia in grado di verificare la
legittimità del provvedimento ablativo, dovrà annullarlo, esponendosi, in
caso contrario, a censura per inesistenza della motivazione, per l’ovvia
ragione che non è concepibile operazione di motivazione su dati non
esaminati" (sezione quinta, 8 febbraio 1999, Zamponi, m. 212.863). Ma, come
accennato, l’osservazione del difensore, seppur esatta, è nella specie
irrilevante. Ed invero, quand’anche il B. avesse effettivamente prelevato
dallo F-server in questione i 25 documenti pedopornografici di cui parla il
Pm e quand’anche la prova di tale prelevamento fosse stata acquisita
legittimamente e fosse quindi utilizzabile, ugualmente non sarebbe - con
tutta evidenza - configurabile nessuno dei reati di cui ai primi tre commi
dell’articolo 600ter Cp ai quali esclusivamente l’articolo 14 legge 269/98,
limita l’attività di contrasto ivi prevista. Non ovviamente quello di cui al
primo comma del detto articolo (che prevede l’ipotesi della realizzazione di
esibizioni pornografiche o della produzione di materiale pornografico
mediante lo strumento di minori degli anni diciotto), non quello di cui al
secondo comma (che prevede l’ipotesi di chi fa commercio del detto
materiale), né quello di cui al terzo comma (che prevede l’ipotesi di chi
distribuisce, divulga o pubblicizza il detto materiale pedopornografico o
distribuisce o divulga notizie o informazioni finalizzate all’adescamento o
allo sfruttamento sessuale dei minori degli anni diciotto). Ma nemmeno
sarebbe configurabile il reato di cui al quarto comma del medesimo articolo
600ter Cp (per il quale peraltro non è consentita l’attività di contrasto di
cui al citato articolo 14 legge 269/98), reato che si riferisce al caso di
chi consapevolmente cede ad altri, anche a titolo gratuito, materiale
pedopornografico. Ed infatti, secondo la ipotesi prospettata dal Pm
ricorrente - ma non risultante da nessuno degli atti messi a disposizione
del tribunale del riesame - il B. si sarebbe limitato a prelevare del
materiale pedopornografico dal sito civetta installato nel procedimento
contro tale C. G., ma non avrebbe ceduto ad altri, neppure a titolo
gratuito, il suddetto materiale. In ogni caso, quindi, non essendovi stato
nessuno "scambio" (ipotesi questa peraltro nemmeno contemplata dagli
articoli 600ter Cp e 600 quater Cp) di materiale pedopornografico in quanto
il B. si sarebbe limitato esclusivamente a prelevarlo e non a cederlo a sua
volta, neppure in cambio di quello prelevato, l’unico reato astrattamente
ipotizzabile sarebbe quello di cui all’articolo 600quater Cp, come appunto
correttamente ritenuto dal tribunale del riesame.
I primi tre motivi del ricorso del Pm sono manifestamente infondati.
Va preliminarmente rilevato che tali motivi si fondano, in gran parte, su un
assunto palesemente erroneo, ossia quello di una pretesa assimilabilità
della disciplina relativa alla attività di contrasto prevista e
rigorosamente disciplinata dall’articolo 14 della legge 269/98, con la
disciplina relativa all’utilizzabilità, anche in procedimenti diversi da
quello in cui sono state disposte, delle intercettazioni telefoniche e
telematiche. Si tratta invece di attività investigative del tutto diverse,
aventi diverse caratteristiche e ben diverse potenzialità di incisione su
beni costituzionalmente tutelati, ed assoggettate pertanto a diversi
presupposti, di modo che non è possibile nessuna estensione analogica della
disciplina relativa alle intercettazioni telefoniche alla attività di
contrasto di cui al citato articolo 14.
La ragione è di tutta evidenza. Con l’attività di intercettazione di
comunicazioni telefoniche o telematiche la polizia giudiziaria si limita,
appunto, ad intercettare le comunicazioni che avvengono tra soggetti terzi
senza svolgere alcun ruolo attivo e tanto meno un ruolo di provocazione. Con
l’attività di contrasto di cui all’articolo 14 legge 269/98, invece, in
vista della gravità e dell’allarme sociale di alcuni ben specifici e
determinati reati, la polizia giudiziaria è autorizzata, limitatamente ai
reati stessi, a svolgere, in via del tutto eccezionale rispetto alle norme e
ai principi fondamentali del nostro ordinamento processuale in tema di
acquisizione delle prove, un vero e proprio ruolo di agente provocatore.
Orbene è evidente che una tale attività in tanto può ritenersi consentita e
non in contrasto con norme costituzionali in quanto sia appunto strettamente
limitata a casi eccezionali e soggetta ad una rigida disciplina che ne
stabilisca rigorosamente i limiti e le procedure.
Ne consegue, innanzitutto, che qualsiasi applicazione analogica di tale
disciplina eccezionale a casi diversi da quelli tassativamente previsti
dall’articolo 14 citato, deve ritenersi assolutamente vietata ai sensi
dell’articolo 14 delle preleggi.
Del resto è proprio la eccezionalità di questa disciplina e la sua deroga
dai principi fondamentali, anche di valore primario - deroga razionalmente
giustificata dalla particolare gravità ed odiosità dei reati che con essa si
intendono contrastare - che ha indotto il legislatore a dettare dei limiti
ben precisi e rigorosi, al di fuori dei quali l’attività in questione deve
ritenersi non solo irregolare o illegittima, ma addirittura illecita, con
conseguente inutilizzabilità, rilevabile d’ufficio in qualsiasi stato e
grado del processo, ai sensi dell’articolo 191 Cpp, di qualsiasi prova
attraverso la medesima acquisita (cfr. sezione terza, 3 dicembre 2001,
D’Amelio).
In particolare, con l’articolo in questione, il legislatore ha previsto due
diverse ipotesi di attività di contrasto. La prima è quella indicata dal
primo comma del detto articolo 14, per la cui legittimità occorre la
presenza del seguenti presupposti: a) che l’attività investigativa sia
svolta nell’ambito di operazioni disposte dal questore o dal responsabile di
polizia di livello almeno provinciale; b) che l’attività sia svolta da
ufficiali di polizia giudiziaria (e non quindi da semplici agenti); c) che i
detti ufficiali di polizia giudiziaria appartengano alle strutture
specializzate ivi indicate; d) che vi sia l’autorizzazione dell’autorità
giudiziaria per poter procedere all’acquisto simulato di materiale
pornografico, alle relative attività di intermediazione e alla
partecipazione ad iniziative turistiche; e) che la detta attività sia
diretta al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti di
cui agli articoli 600bis, primo comma, 600ter, commi primo, secondo e terzo,
e 600quinquies Cp. La seconda ipotesi è quella prevista dal secondo comma
del detto articolo 14, e per la sua legittimità occorre la presenza dei
seguenti presupposti: a) che le indagini siano svolte nell’ambito di compiti
di polizia delle telecomunicazioni, definiti con apposito decreto
ministeriale, dall’apposito organo del ministero dell’interno per la
sicurezza e la regolarità dei servizi di telecomunicazione; b) che
l’attività sia svolta su richiesta della autorità giudiziaria, motivata a
pena di nullità; c) che l’attività sia finalizzata esclusivamente a
contrastare i delitti di cui agli articoli 600bis, primo comma, 600ter,
commi primo, secondo e terzo, e 600quinquies Cp commessi mediante l’impiego
di strumenti informatici o mezzi di comunicazione telematica ovvero
utilizzando reti di telecomunicazione disponibili al pubblico, d) che,
sempre esclusivamente a tal fine, il personale addetto può utilizzare
indicazioni di copertura, anche per attivare siti nelle reti, realizzare o
gestire aree di comunicazione o scambio su reti o sistemi telematici, ovvero
per partecipare ad esse.
Orbene, va osservato in via preliminare, che, come esattamente rileva il
difensore nella sua memoria, nel caso di specie la stessa legittimità e
regolarità della attività di contrasto (condizione indispensabile per la
utilizzabilità degli elementi di prova attraverso essa acquisiti: cfr.
sezione terzaI, 3 dicembre 2001, D’Amelio, già ricordata) effettuata nel
procedimento ordinario da cui è scaturito, per stralcio, quello a carico del
B., è una mera petizione di principio, in quanto non sono mai stati
trasmessi al tribunale gli atti a sostegno di tale asserzione. Esattamente,
quindi, il difensore rileva che così operando il decreto di sequestro, da
mezzo di ricerca della prova, rispetto alla notitia criminis che dovrebbe
essere già acquisita rispetto al B., si è in realtà trasformato in strumento
di acquisizione della notitia criminis.
Né potrebbe ritenersi, come sembra invece opinare il ricorrente, che la
regolarità e legittimità della procedura di autorizzazione e di espletamento
dell’attività di contrasto rileverebbe soltanto nel procedimento originario
e non in quello stralciato, e ciò in applicazione analogica della disciplina
in materia di intercettazioni telefoniche. Ed infatti, a prescindere da ogni
altra considerazione, si è già osservato come l’attività di contrasto in
esame sia regolata da una disciplina del tutto eccezionale e che in ordine
ad essa non possono trovare applicazione analogica norme e principi
giurisprudenziali valevoli per la diversa fattispecie delle intercettazioni
telefoniche, che riguarda ipotesi del tutto diverse e differenziate dalla
vera e propria attività di agente provocatore che la polizia giudiziaria è
autorizzata a svolgere dall’articolo 14 legge 269/98, nei soli casi e limiti
da esso espressamente previsti.
Nella specie, oltretutto, l’acquisizione e la valutazione dei provvedimenti
idonei a dimostrare la sussistenza dei presupposti giustificativi
dell’attività di contrasto in esame nonché le modalità con le quali
l’attività di provocazione si era concretamente espletata, erano tanto più
necessari in quanto la difesa aveva esplicitamente sostenuto, per mezzo
della consulenza tecnica di parte, che l’inchiesta aveva preso avvio da un
programma civetta appositamente predisposto dalla società Uniplan Software
srl di Salerno su richiesta del Pm, sistema automatico "approntato non tanto
per monitorare, quanto per provocare attivamente e - potenzialmente -
confondere gli utenti che si collegavano ad alcuni sospetti canali mIRC". Il
sistema della Uniplan, secondo la difesa, inoltrava ogni 50 secondi
un’offerta pubblicitaria in inglese e senza alcun riferimento a
pedopornografia ed il messaggio civetta aveva il carattere di "assoluta
genericità" essendo "in grado di allettare e confondere pressoché la
totalità degli utenti internet italiani non interessati a materiale
pedopornografico". Rileva altresì la consulenza tecnica di parte che i 25
file civetta che sarebbero stati scaricati dal B. avevano "nomi comunissimi,
assolutamente generici, tutt’altro che inequivocabili e - comunque - in
nessun modo riconducibili a pedopornografia".
Trattasi ovviamente di osservazioni di merito che non rilevano in questa
sede di legittimità e che, tuttavia, si è ritenuto opportuno riportare
perché essi appaiono portare un sostegno all’impressione, che chiaramente
seppure implicitamente traspare dalla motivazione della ordinanza impugnata,
che si sia trattato nel suo complesso di una operazione investigativa poco
rispettosa delle norme di legge e dei diritti fondamentali del cittadino.
Quel che però importa rilevare è che, qualora fosse corrispondente al vero
l’affermazione che sembra essere stata fatta dalla difesa secondo cui
l’attività di contrasto fu effettuata, sia pure a seguito di specifico
incarico del Pm, ad una società privata, quale la Uniplan Software srl di
Salerno, e non invece da agenti o ufficiali di polizia giudiziaria
appartenenti all’organo del Ministero dell’interno per la sicurezza e la
regolarità dei servizi di telecomunicazione, così come espressamente
richiesto dall’articolo 14, secondo comma, legge 269/98, ne deriverebbe la
illegittimità (anzi: illiceità) di tutta la suddetta attività nel suo
complesso e la totale inutilizzabilità, in ogni stato e grado del giudizio,
di qualsiasi elemento di prova acquisito per mezzo della stessa, non solo
nel procedimento in esame ma anche in quello originario ed anche in
relazione agli specifici reati previsti dal suddetto articolo 14.
Il tribunale del riesame, peraltro, giustamente non ha affrontato questi
problemi in quanto ha rilevato un’altra causa preliminare ed assorbente di
inutilizzabilità degli elementi di prova acquisiti. Tali elementi di prova,
infatti, sono stati acquisiti attraverso una attività di contrasto espletata
ai sensi dell’articolo 14 legge 269/98, il quale però limita la liceità di
una tale attività solo al fine di contrastare i delitti di cui agli articoli
600bis, primo comma, 600ter, commi primo, secondo e terzo, e 600quinquies Cp.
Ne consegue che, poiché nel caso di specie l’unico reato ipotizzabile a
carico dell’indagato è quello dell’articolo 600quater Cp, la suddetta
attività di contrasto - quand’anche fossero sussistenti tutti gli altri
presupposti richiesti dalla legge per la sua legittimità - non poteva
comunque essere utilizzata per scoprire i delitti in questione. In altre
parole l’attività di contrasto non poteva in nessun modo essere diretta a
scoprire comportamenti di quei soggetti che si limitavano esclusivamente a
procurarsi o a detenere materiale pedopornografico così come non poteva
essere assolutamente utilizzata per scoprire i comportamenti di quei
soggetti che si limitavano, anche consapevolmente, a cedere ad altri, anche
a titolo gratuito materiale pedopornografico (articolo 600ter, comma quarto,
Cp), ossia si limitavano ad una singola cessione di immagini o di filmati
pedopornografici, dovendo invece essere diretta esclusivamente alla scoperta
dei comportamenti consistenti nella "distribuzione" o "divulgazione" o "pubblicizzazione"
ad un numero indeterminato di persone del detto materiale (ovvero a scoprire
i comportamenti integranti un altro dei reati espressamente indicati dalla
disposizione in esame). Poiché pertanto gli elementi di prova a carico
dell’indagato per il reato di cui all’articolo 600quater Cp, sono stati
acquisiti mediante un’attività che, avendo oltrepassato i limiti
rigorosamente fissati dal suddetto articolo 14, è da considerarsi non solo
irregolare o illegittima, ma addirittura illecita (in quanto l’attività
dell’agente provocatore, di per se illecita, non trova più giustificazione e
fondamento in una norma di legge) ne consegue che del tutto esattamente il
tribunale del riesame ha ritenuto i suddetti elementi di prova assolutamente
inutilizzabili, ai sensi dell’articolo 191 Cpp, in ogni stato e grado del
procedimento.
Le contrarie osservazioni svolte in proposito dal ricorrente sono del tutto
inconferenti e comunque prive del benché minimo fondamento. Basterebbe
osservare che, come giustamente rileva la difesa dell’indagato, qualora si
desse credito a siffatte argomentazioni si finirebbe per avvalorare una
prassi abnorme, quella cioè di sanare eventuali irregolarità o illiceità
procedimentali da parte della polizia postale (o anche di qualsiasi soggetto
al quale per caso il Pm avesse illegittimamente delegato l’attività)
nell’azione di contrasto al fenomeno della pedopornografia attraverso una
semplice operazione di stralcio a totale discrezione (se non arbitrio) del
Pm procedente. D’altra parte l’argomento del ricorrente - secondo cui il
fatto che il procedimento contro il B. ha tratto origine da un provvedimento
di stralcio emesso in diverso procedimento nel quale fu disposta l’attività
di contrasto di cui all’articolo 14, dovrebbe comportare la conseguenza che
nel presente procedimento non si potrebbe più valutare la legittimità della
attività di contrasto ma solo la utilizzabilità in un processo di atti
acquisiti in un altro processo - è, più che manifestamente illogico, del
tutto abnorme ed assurdo. Ed invero - a parte la circostanza che non è dato
sapere se nell'originario procedimento contro tale C. G. si procedesse per
uno dei reati previsti dall’articolo 14 della legge 269/98, ovvero si
procedesse anche in esso per il reato di cui all’articolo 600quater Cp o
all’articolo 600ter, comma quarto, Cp (nel qual caso l’attività di contrasto
sarebbe stata illecita anche nel procedimento originario con conseguente
inutilizzabilità anche in esso degli elementi probatori acquisiti) - sta di
fatto che non può certamente sostenersi che la eventuale legittimità della
procedura seguita nel diverso procedimento riverserebbe automaticamente i
suoi "effetti virtuosi" in quello nuovo e diverso. L’articolo 14 della legge
269/98, non consente che l’attività di contrasto attraverso l’agente
provocatore sia svolta per accertare elementi di prova in ordine al reato di
cui all’articolo 600quater Cp, per cui la totale inutilizzabilità degli
elementi di prova relativi a tale reato eventualmente raccolti in relazione
a tale reato resta ferma in ogni caso a prescindere dalle origini e dalle
vicende procedimentali e non può ovviamente venire meno solo per il fatto -
del tutto casuale e irrilevante - che il procedimento per il reato di cui
all’articolo 600quater Cp prenda origine da uno stralcio effettuato in un
diverso procedimento. D’altra parte l’illogicità dell’assunto del ricorrente
risulta anche da un’altra considerazione: se per ipotesi nel processo
originario a carico del C. si procedesse per il solo reato di cui
all’articolo 600quater Cp e conseguentemente gli elementi di prova
illegalmente acquisiti per mezzo della attività di contrasto di cui
all’articolo 14 citato fossero in tale procedimento inutilizzabili, si
determinerebbe l’assurda conseguenza che i medesimi elementi probatori
diverrebbero - del tutto ingiustificatamente - utilizzabili in un altro
procedimento sol perché quest’ultimo ha preso origini da uno stralcio del
procedimento originario.
Quanto alle argomentazioni del ricorrente basate su una presunta
equiparazione della attività di contrasto in questione con quella delle
intercettazioni telefoniche e telematiche e su una pretesa applicazione
analogica alla prima delle norme e dei principi giurisprudenziali relativi a
quest’ultima, si è già ampiamente rilevato come nessuna equiparazione tra le
due attività è possibile (dato che nella prima, a differenza che nella
seconda, si è in presenza di una vera e propria attività di agente
provocatore) e come sarebbe del tutto illegittima ed arbitraria una tale
estensione analogica, se non altro perché trattasi di norme che fanno
eccezione a regole generali e che quindi non possono essere applicate in via
analogica al di là dei casi tassativamente previsti dalla legge.
Parimenti del tutto inconferente e manifestamente infondato è il paragone,
che il ricorrente pretenderebbe di fare, con l’ipotesi in cui il materiale
pedopornografico venisse ritrovato a seguito di perquisizione diretta alla
ricerca di armi o di sostanze stupefacenti. Anche in questo caso il
ricorrente dimentica che nella ipotesi in questione non si tratta di una
normale attività investigativa della polizia giudiziaria diretta
all’accertamento di un qualche reato, nel corso della quale venga per caso
scoperta l’esistenza di un differente reato, bensì siamo di fronte ad una
attività di un agente provocatore, che è autorizzata e resa lecita
esclusivamente negli stretti limiti e per l’accertamento dei limitati reati
per i quali è consentita. Ne consegue che è del tutto ovvio e corrispondente
ai principi - ed anzi una contraria interpretazione sarebbe in contrasto con
fondamentali principi costituzionali e dovrebbe quindi essere comunque
disattesa per evitare possibili censure di illegittimità costituzionale -
che qualora attraverso tale attività di agente provocatore si vengano per
caso a scoprire reati diversi da quelli alla cui scoperta tale attività era
esclusivamente indirizzata, gli elementi probatori relativi a tali reati non
possano comunque essere in nessun caso utilizzati. Nella specie, la
detenzione da parte dell’indagato, di materiale pedopornografico non è stata
scoperta nel corso di una normale perquisizione diretta alla scoperta di
armi o di sostanze stupefacenti (nel qual caso gli elementi probatori
rinvenuti sarebbero stati chiaramente utilizzabili ed il materiale
certamente sequestrabile) bensì a seguito di una attività di agente
provocatore che è divenuta illecita (con conseguente inutilizzabilità degli
elementi probatori acquisiti) nel momento in cui è stata utilizzata per
l’accertamento di reati diversi da quelli tassativamente previsti dalla
legge.
Parimenti irrilevante e manifestamente infondato è poi il richiamo
all’articolo 240, secondo comma, Cp, ed all’articolo 324 Cpp. Innanzitutto,
invero, tale disposizione presuppone pur sempre che il sequestro degli
oggetti sia stato legittimamente eseguito, mentre nella specie si tratta di
un sequestro palesemente illegittimo perché operato sulla base di
un’attività di agente provocatore avente i caratteri della illiceità e su
elementi probatori totalmente inutilizzabili. In secondo luogo, a tutto
voler concedere, ossia anche a voler ritenere in ipotesi applicabile
l’articolo 324, settimo comma, pure nelle ipotesi di sequestro disposto in
base a prove assolutamente inutilizzabili, perché acquisite per mezzo di una
attività illecita e pure nelle ipotesi in cui, come nella specie - proprio
per la totale inutilizzabilità delle prove - non è configurabile il fumus di
alcun reato e presumibilmente non si potrà mai giungere ad una pronuncia di
condanna, il divieto di restituzione potrebbe tutt’al più riguardare le sole
cose la cui detenzione costituisce reato, ossia i dischetti, CD ROM, o altri
supporti magnetici che concretamente contengono immagini o filmanti
pedopornografici ma non anche tutto il restante materiale illegittimamente
sequestrato all’indagato.
Né potrebbe ritenersi che il sequestro possa trovare giustificazione in base
alla considerazione che si tratta di corpo del reato. E ciò, a prescindere
da ogni altra considerazione, perché, come esattamente rilevato
dall’ordinanza impugnata, non essendo assolutamente utilizzabili i risultati
delle indagini illegittimamente svolte, nella specie non è ravvisabile il
fumus di alcun reato e quindi nemmeno la presenza di alcun corpo del reato.
Il ricorso deve pertanto essere respinto.
P.Q.M.
La Corte suprema di cassazione rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma l'8 maggio 2003.
Depositata in cancelleria il 21 ottobre 2003.