Chiarita definitivamente la giurisdizione dopo un lungo contrasto | ||
Decide il Tar sul mobbing nel pubblico impiego |
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(Cassazione Sezioni Unite Civili 8438/2004) | ||
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Il dipendente pubblico che subisce il "mobbing" può chiedere i danni al proprio datore di lavoro, e sulla domanda decide il giudice amministrativo. Le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione hanno definitivamente chiarito a chi spetta la giurisdizione sui rapporti di pubblico impiego, risolvendo un lungo contrasto giurisprudenziale in materia. La Suprema Corte ha però precisato che il lavoratore danneggiato dal mobbing può rivolgersi al Tar solo se il proprio rapporto di lavoro sia sorto antecedentemente al 30 giugno 1998, e ferma restando la competenza del giudice civile per le cause di risarcimento dei danni che non derivino direttamente dal contratto di lavoro. (8 giugno 2004) | ||
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO S. B. conveniva dinanzi al Tribunale di Trento l'(omissis) e la (omissis) esponendo di aver lavorato alle dipendenze di detto Istituto dal 1981, e di essere stato collocato in ruolo come fattore dell'(omissis), con l'attribuzione di mansioni di direzione tecnica e amministrativa. Il ricorrente aveva presentato degli esposti in ordine ad illeciti rilevati a carico del direttore generale dell'Istituto, del Direttore amministrativo e dei consiglieri di amministrazione dell'ente; successivamente, a partire dal 1987, era stato oggetto di comportamenti vessatori posti in essere dai membri del Consiglio di Amministrazione, ed era stato quindi privato delle funzioni già svolte, essendo prima inquadrato come assistente agronomo e poi come collaboratore agronomo, assegnato dal 1989 a compiti meramente esecutivi, collocato in locali angusti e disagevoli, e costretto nel 1993 a lasciare l'alloggio concessogli gratuitamente dall'ente datore di lavoro. Il B. denunciava poi ulteriori comportamenti vessatori posti in essere in relazione al godimento dei periodi di congedo ordinario, affermando che in conseguenza di tale situazione era stato colpito da disturbi psicofisici, accusando una sindrome psiconeurosica ansioso depressiva. Il sig. B. deduceva di essere stato quindi vittima di un'attività di mobbing, concretatasi nella violazione degli artt. 2087 e 2103 cod. civ. [1], da cui era seguita una menomazione psicofisica, con conseguente responsabilità del datore di lavoro per danno alla capacità lavorativa, danno biologico, danno morale ed esistenziale. Chiedeva il risarcimento di tali danni e la condanna dell'ente alla reintegrazione nei posto di lavoro spettante, con l'inquadramento nell'ottava qualifica funzionale. Con decisione non definitiva il Tribunale adito dichiarava la propria giurisdizione e il difetto di legittimazione passiva della Provincia Autonoma di Trento. A seguito di gravame proposto dall'ente convenuto in primo grado, con la sentenza oggi denunciata la Corte di Appello di Trento rilevava l'inammissibilità dell'appello incidentale della Provincia Autonoma di Trento e dichiarava il proprio difetto di giurisdizione. Ad avviso del giudice dell'appello, con la domanda azionata erano stati fatti valere diritti derivanti da responsabilità contrattuale del datore di lavoro, nell'ambito di un rapporto di lavoro alle dipendenze di pubblica amministrazione, per fatti lesivi riferibili a periodo antecedente al 30 giugno 1998. La controversia era pertanto devoluta alla giurisdizione esclusiva dei giudice amministrativo. Avverso questa sentenza S. B. propone ricorso per cassazione affidato ad unico complesso motivo, illustrato da memoria. L'(omissis) resiste con controricorso e ricorso incidentale condizionato con due motivi. La Provincia Autonoma di Trento non si è costituita. MOTIVI DELLA DECISIONE La parte rileva (punto f del ricorso) che con l'atto introduttivo sono state prospettate condotte illecite poste in essere dai datore di lavoro "non con riguardo allo svolgimento del rapporto contrattuale di lavoro .... ma riguardo a condizioni relazionali e di vita che nell'ambiente di lavoro sono state appesantite da un accanimento e da atteggiamenti e condotte, anche omissive, che rappresentano vere e proprie violazioni del principio aquiliano del neminem laedere". La ricostruzione compiuta dalla Corte territoriale, che tende a far rientrare nel rapporto contrattuale ogni vicenda vessatoria subita dal dipendente, comporta che il fenomeno del mobbing "non può di necessità verificarsi in alcun ambiente di lavoro e nei confronti di alcun dipendente, poiché in simile contesto ogni condotta ricadrebbe automaticamente nel rapporto che lega il datore di lavoro con il dipendente e quindi gli eventuali danni alla salute nonché alla integrità psico fisica del lavoratore non troverebbero tutela". Nell'ipotesi del mobbing, "il rapporto di lavoro diviene solamente lo scenario di fondo (la occasione) di innumerevoli attività e condotte anche omissive che mirano all'isolamento del soggetto mobbizzato fino a provocare in lui un senso di smarrimento, di impotenza, di frustrazione psicologica ed anche fisica, di svilimento alla libertà e alla dignità della persona tale da provocare danni cronici alla salute". Secondo questo indirizzo, il riparto di giurisdizione è strettamente subordinato all'accertamento della natura giuridica dell'azione di responsabilità in concreto proposta, in quanto, se si tratta di azione contrattuale, la cognizione della domanda rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (allorché la controversia abbia per oggetto una questione relativa ad un periodo dei rapporto di lavoro antecedente al 30 giugno 1998); se si tratta invece di azione extracontrattuale, la giurisdizione appartiene al giudice ordinario. Al fine di tale accertamento, si deve ritenere proposta la seconda tutte le volte che non emerga una precisa scelta del danneggiato in favore dell'azione contrattuale, e quindi allorché, per esempio, il danneggiato invochi la responsabilità aquiliana ovvero chieda genericamente il risarcimento dei danno senza dedurre una specifica obbligazione contrattuale, e dovendosi, invece, ritenere proposta l'azione di responsabilità contrattuale quando la domanda di risarcimento sia espressamente fondata sull'inosservanza, da parte del datore di lavoro, degli obblighi inerenti al rapporto di impiego (Cass. Sez.Un. 4 novembre 1996 n.9522, 28 luglio 1998 n.7394, 14 dicembre 1999 n.900, 12 marzo 2001 n.99, 11 luglio 2001 n.9385, 29 gennaio 2002 n.1147, 25 luglio 2002 n.10956, 5 agosto 2002 n.11756, 23 gennaio 2004 n.1248). I comportamenti illeciti denunciati consistono, secondo l'esposizione della parte nel mutamento, dopo il "reinquadramento" nella qualifica di assistente agronomo, delle mansioni già svolte,. con il trasferimento, nell'aprile del 1989, ad altra unità con compiti puramente esecutivi di inserimento di dati in un computer, nella successiva attribuzione, dal luglio 1990, della qualifica di collaboratore agronomo VII livello funzionale, destinato all'Ufficio Contabilità Agraria con mansioni esecutive, mantenute per tutto il periodo successivo; nell'assegnazione, nella stessa epoca e fino al 1998, di un posto di lavoro in locale angusto, scarsamente illuminato e insalubre; nella privazione, nel 1993, dell'alloggio prima concessogli a titolo gratuito nell'ambito della struttura dell'Istituto; nell'ingiusto comportamento che aveva impedito al B. di godere di periodi di riposo, ed anche di accedere alla relativa documentazione personale. Le altre allegazioni della parte riguardano, oltre che comportamenti vessatori posti in essere nei confronti della moglie dei B., dipendente dello stesso Istituto, le circostanze relative all'insorgere di fenomeni patologici, ed in particolare di una "sindrome psiconeurosica ansioso depressiva" diagnosticata nell'anno 2000. Si tratta pertanto di atti di gestione dei rapporto di lavoro che, indipendentemente da una concreta correlazione con un disegno di persecuzione reiterata, trovano un diretto referente normativo nella disciplina della regolamentazione del rapporto e ricevono da questa la loro sanzione di illiceità. La fattispecie di responsabilità va così ricondotta alla violazione degli obblighi contrattuali stabiliti da tali norme, indipendentemente dalla natura dei danni subiti dei quali si chiede il ristoro e dai riflessi su situazioni soggettive (quale il diritto alla salute) che trovano la loro tutela specifica nell' ambito dei rapporto obbligatorio. E' poi del tutto infondata l'affermazione secondo cui la tutela risarcitoria (in tutte le sue componenti) fondata sulla responsabilità contrattuale dell'ente datore di lavoro non potrebbe essere fatta valere dinanzi al giudice del rapporto, al quale spetta la cognizione della controversia. Nel caso in esame viene in rilievo, per quanto si è già osservato, una serie di specifici atti di gestione del rapporto di lavoro, con i quali si è realizzata compiutamente una fattispecie di inadempimento contrattuale, lesiva delle posizioni soggettive tutelate, ancorché l'esistenza dell'evento dannoso si sia protratta autonomamente. Si prospetta quindi, in relazione ai fatti dedotti, un'ipotesi di illeciti istantanei con effetti permanenti, dovendosi far riferimento a tal fine (come è stato precisato dalla giurisprudenza in tema di illecito extracontrattuale: v. Cass. I febbraio 1995 n. I i 56, 20 dicembre 2000 n.16009) non al danno ma al rapporto eziologico tra questo e il comportamento contra ius dell'agente. Nella vicenda descritta i singoli atti lesivi dei diritti del dipendente risultano tutti riferiti ad epoca antecedente al 30 giugno 1998: la controversia riguarda quindi questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore alla data fissata come discrimine temporale dalla richiamata norma transitoria, interpretata secondo un criterio ermeneutico inteso ad evitare frazionamenti della tutela processuale fra giurisdizioni diverse. D'altro canto non assume alcuna rilevanza, a tal fine, l'epoca della manifestazione delle patologie denunciate dal ricorrente. Anche questa censura è infondata. Il superamento della data del 15 settembre 2000, indicata dall'art.45 comma 17 dei d.lgs. n.80/1998 (ed oggi dall'art.69 settimo comma del d.lgs. n.165 del 2001) non rileva ai fini della decisione sulla giurisdizione: secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (v. tra molte Cass. Sez.Un. 27 marzo 2001 n.139, 30 gennaio 2003 n.1511) detto termine è fissato non quale limite alla persistenza (relativamente alle questioni caratterizzate dagli indicati requisiti temporali) della giurisdizione del giudice amministrativo, ma quale termine di decadenza sostanziale per proponibilità della domanda giudiziale, con conseguente attinenza di ogni questione ai limiti interni della giurisdizione. Resta conseguentemente assorbito l'esame dei due motivi del ricorso
incidentale proposto in via condizionata dall'(omissis), con i
quali si ripropongono le questioni, ritenute assorbite in appello, della
giurisdizione del giudice amministrativo per alcune delle pretese
risarcitorie azionate e della decadenza dell'attore dall'impugnazione
dell'ordine di servizio del 4 aprile 1989, in relazione alla prospettata
assegnazione di mansioni inferiori. Depositata in Cancelleria il 4 maggio 2004. |