Cassazione
Sezione Lavoro
Sentenza 5 novembre 2003 n. 16626
(Presidente Presidente S. Ciciretti - Relatore C. Filadoro)
Svolgimento del processo
Con ricorso al Pretore di Milano, L. S. chiedeva la condanna della
Congregazione (omissis) e V. G. al pagamento di un compenso aggiuntivo per
ogni giornata di lavoro effettuata dopo sei giorni consecutivi di lavoro
(anche se con successivo riposo compensativo), da liquidarsi in via equitativa,
ma comunque in misura non inferiore ad 1/26mo della retribuzione globale
mensile, da aggiungersi alla retribuzione già percepita.
La domanda del ricorrente non riguardava la maggiorazione per lavoro festivo,
in effetti già percepita, ma il risarcimento del danno da usura psico-fisica
per il mancato riposo nella settimana, recuperato dal lavoratore nella
settimana successiva nonché la ulteriore richiesta, formulata questa in via
subordinata, del riconoscimento di una maggiorazione del 15% o del 25% per
lavoro straordinario prestato, rispettivamente, entro le 48 ore o dopo le 48
ore settimanali.
La domanda principale proposta dallo S. era accolta dal primo giudice.
La decisione del Pretore era riformata dalla Corte d'Appello di Milano, che
rigettava tutte le domande proposte dal lavoratore.
I giudici di appello ricordavano che nel caso di specie non si discuteva
affatto della retribuzione della giornata lavorata in più, né della
maggiorazione per lavoro festivo (regolarmente pagate dalla datrice di
lavoro), ma solo del risarcimento del danno derivante dall'usura psico-fisica
subita dalla S. per effetto dello spostamento della giornata settimanale di
riposo nell'ambito della settimana immediatamente successiva.
Tale usura - nonostante una certa giurisprudenza richiamata dalla Corte
territoriale - non poteva mai dirsi presunta, dovendo invece essere dimostrata
secondo le regole generali del risarcimento del danno e della prova.
L'usura psico-fisica, per poter costituire oggetto di danno risarcibile, deve
innanzi tutto esistere e deve essere provata: ciò anche nel caso di lavoro
prestato nel settimo giorno, non rinvenendosi alla disciplina generale della
risarcibilità del danno e della prova.
Naturalmente, proseguivano i giudici di appello, in questa come in qualsiasi
altra ipotesi, è possibile ricorrere a qualsiasi mezzo previsto dalla legge,
comprese le presunzioni, relative ed il fatto notorio, come può farsi ricorso
a qualsiasi altro mezzo di prova per dimostrare il contrario.
In questa prospettiva, assume certo significato che l'ordinamento, almeno in
via di principio generale, preveda il riposo settimanale ogni sette giorni.
Neppure può escludersi che posticipare abitualmente tale cadenza settimanale
possa, a lungo andare - ma a volte anche nel medio e addirittura nel breve
termine - usurare il corpo e la mente del lavoratore.
Tale situazione, tuttavia, non si verifica quando, come appunto nel caso di
specie, il differimento avvenga solo per poche volte in un lungo arco di tempo
e spesso su richiesta dello stesso lavoratore, per far fronte a proprie
personali esigenze.
La tesi dell'usura presunta, in altre parole, non era idonea a far comprendere
tutti i risvolti del problema nella sua complessità. Secondo la Corte
d'Appello, nella soluzione di esso non poteva non tenersi conto di tutti gli
aspetti del caso.
Lo S. lavorava presso la casa di cura della Congregazione, in qualità di
addetto a lavori di semplice custodia, con mansioni che non richiedevano, per
loro natura, un rilevante impegno psico-fisico, tanto da essere, in linea
generale, escluse da limitazioni di orario giornaliero e settimanale nella
disciplina della legge e della contrattazione interconfederale.
Tra l'altro, lo S. aveva sempre recuperato il lavoro svolto nel settimo giorno
della settimana nella settimana successiva, o al massimo, e su sua richiesta,
nell'arco del mese.
In questo caso, non poteva parlarsi di prestazione in usura e neppure di
notorie
Da ultimo, i giudici di appello riferivano - come circostanza marginale - che
lo S. aveva espressamente rifiutato l'estensione di un accordo aziendale del
2000, che, con riferimento ad altre categorie di lavoratori dipendenti, aveva
regolato gli aspetti economici del lavoro prestato nel settimo giorno tino al
1999 (il ricorso introduttivo dello S. risaliva invece al novembre 1998).
Avverso tale decisione lo S. ha proposto ricorso per cassazione sorretto da
tre motivi, illustrati da memoria.
La Congregazione resiste con controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, il ricorrente denuncia violazione degli articoli 36,
terzo comma, della Costituzione, 2109, primo comma, codice civile,
insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della
controversia (in relazione all'art. 360 nn.3 e 5 codice di procedura civile).
I giudici di appello si sarebbero discostati senza motivazione dal consolidato
insegnamento di questa Corte secondo il quale il lavoro prestato nel settimo
giorno consecutivo dà diritto oltre che alla normale retribuzione (maggiorata
se trattasi di lavoro domenicale) anche al risarcimento del danno derivante
dall'usura psico-fisica che deve ritenersi presunto.
In tal modo, tuttavia, la Corte d'Appello avrebbe violato alcuni principi
fondamentali, stabiliti dalla Carta Costituzionale e dal codice civile: prima
di ogni altro, quello del diritto irrinunciabile del lavoratore al riposo
settimanale.
Erroneamente i giudici di appello avrebbero ritenuto compensabile la maggiore
gravosità della prestazione lavorativa effettuata nel settimo giorno con il
riposo sostitutivo effettuato nella settimana successiva.
Anche le considerazioni svolte nella sentenza impugnata a proposito della
presunzione de danno da usura si adatterebbero, secondo il ricorrente,
piuttosto al danno biologico i o come lesione della integrità psicofisica e
non potrebbero essere utilizzate per risolvere il caso di specie.
La Corte d'Appello non avrebbe neppure preso in considerazione quell'indirizzo
giurisprudenziale che riconosce comunque il diritto del lavoratore ad un
compenso ulteriore ed aggiuntivo a quello destinato a retribuire il lavoro
prestato nella giornata di domenica, nel caso di differimento del riposo
settimanale nell'ambito della settimana successiva.
In ogni caso, una volta deciso di discostarsi dal consolidato orientamento
giurisprudenziale di questa Corte, i giudici di appello avrebbero dovuto -
quanto meno -differenziare l'ipotesi del differimento lecito del riposo
(perché consentito da norme di legge o contrattuali) e differimento illecito:
posto che in questo caso, la presunzione in favore del lavoratore appare ancor
più fondata ed insuperabile, non potendo il comportamento illecito in
questione restare senza conseguenze di sorta. Il contratto collettivo
nazionale di categoria, quelle delle case di cura private, applicabile al caso
di specie, ribadisce il diritto di tutti i lavoratori al riposo settimanale e
non contiene alcuna deroga alla regola del riposo settimanale dopo sei giorni
consecutivi di lavoro.
Con il secondo motivo, il ricorrente formula analoghe censure di violazione di
legge e di vizio di motivazione, richiamando le medesime disposizioni indicate
nel primo mezzo.
In particolare, 1o S. denuncia l'errore di diritto consistito nell'aver
ritenuto che l'inadempimento in questione possa produrre il pregiudizio di un
diritto fondamentale della persona, ma che il pregiudizio sia risarcibile solo
nel caso di sua dimostrazione da parte del lavoratore.
I giudici di appello avevano preteso di esaminare le prove in punto di usura
psico-fisica, omettendo la considerazione di alcuni elementi essenziali, quali
la contrattazione collettiva di settore. Di contro, gli stessi giudici avevano
poi attinto ad elementi del tutto irrilevanti, quali la legge e la
contrattazione interconfederale, giungendo così a conclusioni immotivate, che
trasformavano il diritto del dipendente al riposo settimanale, salvo deroghe,
nel diritto dei datore di lavoro alla deroga, salvo eccezioni.
La sentenza impugnata aveva apoditticamente affermato la natura discontinua
delle mansioni e la conseguente insistenza di vincoli all'orario di lavoro, in
considerazione dell'assenza di un impegno psico-fisico di un qualche rilievo
nel lavoro affidato allo S., definito, contro il vero, di semplice attesa e
custodia.
In tal modo, tuttavia, i giudici di appello avevano finito per trascurare
completamente il dato risultante dalla contrattazione collettiva, che fissa
per tutte le figure professionali -quindi anche per il lavoro del portiere (al
quale, tra l'altro, non può essere comparata la nuova figura del centralinista
receptionist) - le limitazioni dell'orario settimanale e l'indifferibilità del
riposo settimanale.
La circostanza che il contratto collettivo non avesse ritenuto di dover
prevedere deroghe al principio generale del riposo dopo sei giorni consecutivi
di lavoro non era stata presa nella dovuta considerazione dalla Corte
territoriale, che aveva finito in qualche modo per capovolgere il dettato
normativo, trasformando in principio generale la differibilità del riposo, la
quale poi troverebbe un limite solo in presenza di specifiche circostanze da
provarsi da parte del lavoratore.
Con il terzo motivo, il ricorrente denuncia nuovamente omessa motivazione,
sotto altro profilo, della sentenza impugnata, circa un punto decisivo della
controversia, in relazione all'art. 360 n. 5 codice di procedura civile.
Una volta negato il risarcimento del danno, la sentenza impugnata aveva poi
affermato che ogni altra questione doveva considerarsi assorbita.
Tale considerazione doveva considerarsi evidentemente erronea, perché il
ricorrente aveva proposto, seppure in via subordinata, una domanda di
pagamento per le ore di lavoro prestate nel settimo giorno consecutivo della
maggiorazione per il lavoro supplementare e straordinario, indicata nel
contratto, rispettivamente, nella misura del 15% e del 20%.
Poiché il ricorrente aveva di fatto lavorato tutti i giorni della settimana
per sei ore consecutive, doveva considerarsi come lavoro supplementare solo
quello prestato oltre le 36 settimanali, e straordinario invece quello svolto
oltre le 48.
Le norme richiamate dalla Corte, ad avviso del ricorrente, sarebbero
addirittura state abrogate dalla legge successiva (art. 2107 codice civile) e
comunque dovrebbero ritenersi oramai illegittime, derivando il loro fondamento
dall'art. 6 del regolamento 10 settembre 1923 n.1955 cioè da un atto non
avente forza di legge, in contrasto con la riserva di legge in punto di durata
massima della prestazione, stabilita dall'art. 36 della Costituzione.
Il carattere discontinuo della prestazione resa dallo S. avrebbe dovuto,
pertanto, essere verificata concretamente in sede giudiziale, con onere
probatorio a carico del datore di lavoro, che, viceversa, non aveva neppure
offerto di assolverlo.
I tre motivi, da esaminare congiuntamente in quanto connessi tra di loro, non
sono fondati. E' bene premettere che le norme indicate nella rubrica del primo
mezzo di gravame sanciscono il diritto del lavoratore al riposo settimanale,
la cui applicazione non è stata messa in alcun modo in discussione dalla
decisione impugnata.
La Corte territoriale ha affermato un principio di carattere generale, senza
necessità di invocare o applicare l'indiscusso principio della
irrinunciabilità del riposo settimanale, contenuto nella norma codicistica e
nella Carta Costituzionale.
I giudici di appello hanno affrontato la questione sottoposta al loro esame
dichiarando espressamente di non condividere l'orientamento che ritiene
l'usura psico-fisica "in re ipsa" in ogni caso di lavoro prestato nel settimo
giorno.
La sentenza d'appello dedica la sua motivazione alla dimostrazione della
propria tesi, secondo la quale "l'usura psico-fisica, per costituire oggetto
di danno risarcibile, deve esistere. Conseguentemente, essa va provata da chi
la fa valere anche nel caso di lavoro effettuato nel settimo giorno, non
essendovi, appunto, in materia deroghe alla disciplina generale della
risarcibilità del danno e della prova".
Le conclusioni cui è pervenuta la Corte d'Appello sono, ad avviso del
Collegio, interamente da condividere, ed anticipano le linee tracciate dalla
sentenza di questa Corte n. 9009 del 3 luglio 2001.
Del resto, nel caso, in tutto simile a quello esaminato in questa sede, del
risarcimento del danno da demansionamento, questa Corte ha già avuto occasione
di affermare il seguente principio: "il prestatore di lavoro che chieda la
condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua
eventuale componente di danno alla vita di relazione e di danno biologico)
subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione
lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, lesione idonea a
determinare una dequalificazione del dipendente stesso, deve fornire la prova
dell'esistenza di tale danno, la quale costituisce presupposto indispensabile
per una sua valutazione equitativa. Tale danno non si pone infatti quale
conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella
sopra indicata categoria, onde non è sufficiente dimostrare la mera
potenzialità lesiva della condotta datoriale, facendo carico al lavoratore che
denunzi il danno subito, fornirne la prova in base alla regola generale di cui
all'art. 2697 codice civile" (Cass. 11 agosto 1998 n. 7905, cfr. anche Cass.
n. 8835 del 1991 per un caso di dirigente lasciato per lungo tempo inattivo).
Sia per quanto il danno alla professionalità sia per quello biologico, il
lavoratore ha l'onere di provare l'esistenza e l'entità del danno, nonché del
nesso di causalità con l'inadempimento del datore di lavoro, dimostrazione
senza la quale non è possibile procedere ad una valutazione equitativa, posto
che la mera potenzialità lesiva della condotta del datore di lavoro non è
sufficiente, richiedendosi invece sempre la prova del danno (Cass, 4 giugno
2003 n. 8904; cfr. Cass. n. 6992 del 2002, 1026 del 1997, 3686 del 1996).
La giurisprudenza di questa Corte, ora richiamata, pur riconoscendo la
potenzialità dannosa della violazione dell'art. 2103 codice civile, richiede
che l'eventuale danno venga opportunamente provato nei singoli casi concreti.
In altre parole, la violazione di un dovere non equivale a danno, che non può
essere dedotto automaticamente dalla violazione del dovere.
Secondo i principi generali (art. 2697 e 1223 codice civile) occorre
l'individuazione di un effetto della violazione su di un determinato bene
perché poi possa procedersi alla liquidazione del danno (eventualmente anche
in via equitativa). La stessa Corte Costituzionale ha del resto chiarito
(Cass. n. 372 del 1994) che il danno biologico non è presunto, perché se è
indiscutibile che la prova della lesione costituisce anche prova
dell'esistenza del danno, occorre tuttavia la prova ulteriore dell'esistenza
dell'entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una
perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 codice civile,
costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non
patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere commisurato.
Un analogo ragionamento - ampio e del tutto immune da vizi logici - ha svolto
la sentenza impugnata, la quale, pur riconoscendo la potenzialità dannosa del
lavoro svolto nel settimo giorno, richiede al lavoratore di provare, anche
nell' an, il danno da usura psicofisica, per violazione dell'art. 36, comma
terzo, della Costituzione e 2109 codice civile.
Analoghe considerazioni, con riferimento al divieto di protrazione del lavoro
per più di sei giorni consecutivi, sono contenute nella decisione di questa
Corte già richiamata (3 luglio 2001 n. 9009), secondo la quale "il pregiudizio
di un diritto inviolabile della personalità deve essere da colui che lo invoca
allegato e provato (sia pure con ampio ricorso alle presunzioni, allorché non
si versi nell'ambito del pregiudizio della salute in senso stretto, in
relazione al quale l'alterazione fisica o psichica è oggettivamente
accertabile), nei suoi caratteri naturalistici (incidenza su di una concreta
attività, pur non reddituale, e non mero patema d'animo interiore) e nel nesso
di causalità dalla violazione dei diritti patrimoniali di cui all'art. 36
Costituzione" (cfr. Cass. 2004 del 1996).
Solo una volta accertato, secondo le regole generali, il danno-evento, cioè il
pregiudizio del diritto fondamentale (nel caso di specie, l'usura psico-fisica
derivata dal lavoro nel settimo giorno) sarà poi possibile procedere alla
valutazione del danno-conseguenza, cioè dell'entità del sacrificio sofferto,
eventualmente con una liquidazione equitativa di esso.
In alcune decisioni riguardanti altri tipi di inadempimento del datore di
lavoro, assunti come incidenti sulla salute del lavoratore, si è richiesto, in
applicazione dell'art. 2697 codice civile, che il cosiddetto danno biologico,
o comunque la lesione di altro diritto fondamentale della persona, venga
provato nella sua esistenza e nel nesso di causalità con l'inadempimento,
poiché esso non si pone come conseguenza automatica di ogni comportamento
illegittimo del datore di lavoro (Cass. 143 del 2000 con riguardo a molestie
sessuali sul luogo di lavoro, 1307 del 2000 con riguardo alla lesione
dell'integrità psico-fisica derivante dalla mancata fruizione di ferie).
Sulla base delle considerazioni già svolte, i giudici di appello hanno
sottolineato che sicuramente è circostanza di un notevole significato che, in
via generale, l'ordinamento preveda il riposo settimanale ed hanno dato per
scontato che il posticipare tale riposo possa anche a breve termine usurare il
corpo e la mente del lavoratore.
Ciò tuttavia non deve darsi sempre per scontato. Perché può anche non esservi
alcuna usura se la posticipazione avvenga per poche volte in un considerevole
arco di tempo.
Cosi come può anche non esservi alcun pregiudizio se vi è recupero in tempi
brevi, tanto più se si tratta di un lavoro che non dispiace, con impegno
fisico non eccessivo, e se il differimento avviene non per imposizione
unilaterale del datore di lavoro, ma con il proprio consenso (nel caso di
specie la resistente ha precisato che molti dei rari differimenti del riposo
furono attuati su specifica richiesta dello S. in occasione del "cambio turno"
in modo da poter raggruppare i riposi compensativi con quelli settimanali).
Nello stesso senso la sentenza di questa Corte (n. 9009 del 2001) ha
sottolineato che il consenso del lavoratore a rendere la prestazione nel
giorno di riposo - seppur non rilevante per ridurre l'ambito
dell'inadempimento del datore di lavoro (stante l'indisponibilità del diritto
al riposo) - può nondimeno offrire elementi indiziari per la verifica della
sussistenza in concreto della lesione, anche, di un diritto di natura non
patrimoniale.
Sfugge a qualsiasi censura la conclusione cui sono pervenuti i giudici di
appello, secondo i quali, nel quadro delle specifiche mansioni svolte dallo S.
non si poteva porre alcuna presunzione di usura o di notorietà dell'usura.
Tali osservazioni appaiono del tutto logiche e ampiamente motivate.
La Corte d'Appello ha infatti ricordato che lo S. svolgeva un semplice lavoro
di attesa, implicante impegno fisico assai modesto, tanto da essere - almeno
in linea generale escluso dalle limitazioni d'orario giornaliero e settimanale
nella regolamentazione data dalle leggi e dalla contrattazione collettiva
anche a livello interconfederale -
La stessa Corte non ha mancato di sottolineare che il ricorrente aveva
comunque e sempre recuperato nella settimana successiva il lavoro svolto nel
settimo giorno, svolto con il suo consenso ed a volte proprio su sua specifica
richiesta.
Con accertamento che sfugge a qualsiasi censura, perché esente da vizi logici
ed errori giuridici, i giudici di appello hanno concluso che nel caso di
specie le presunzioni - che devono essere gravi, precise e concordanti - ed il
fatto notorio non potevano in alcun modo provare l'usura derivante dal lavoro
del settimo giorno.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato, ribadendosi il seguente principio:
"nel caso di lavoro prestato oltre il sesto giorno consecutivo, con riposo
compensativo ricadente nella settimana successiva, ove il lavoratore richieda,
in relazione alle indicate modalità della prestazione (oltre al compenso per
lavoro festivo nel caso di prestazione coincidente con la giornata di
domenica) anche il risarcimento del danno non patrimoniale, per usura
psicofisica, ovvero per la lesione del diritto alla salute o del diritto alla
libera esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana, è tenuto
ad allegare e provare il pregiudizio del suo diritto fondamentale, nei suoi
caratteri naturalistici e nella sua dipendenza causale, dalla violazione dei
diritti patrimoniali di cui all'art. 36 Costituzione, potendo assumere
adeguata rilevanza, nell'ambito specifico di detta prova (che può essere data
in qualsiasi modo, quindi anche attraverso presunzioni relative ed il fatto
notorio), il consenso dello stesso lavoratore a rendere la prestazione nel
giorno di riposo ed anzi la sua richiesta di prestare attività lavorativa
proprio in tale giorno".
Per quanto riguarda le censure formulate nel terzo motivo di ricorso, è
sufficiente rilevare che la contrattazione collettiva, segnalata dalla
resistente, prevede espressamente la possibilità di compensare il lavoro
straordinario con un riposo compensativo: quindi senza maggiorazioni o
compensi economici aggiuntivi.
Nel caso di specie costituisce circostanza incontestata tra le parti che lo S.
abbia sempre goduto di riposo compensativo nella settimana successiva a quella
del mancato riposo settimanale.
Non è stato dimostrato, pertanto, il diritto del ricorrente ad un compenso
(economico) ulteriore, sulla base della contrattazione collettiva applicabile.
Rimane assorbita l'ulteriore argomentazione, formulata dalla controricorrente,
circa il mancato assolvimento, da parte dello S., dell'onere di provare
l'effettivo superamento del limite settimanale di lavoro ordinario: ad avviso
della Congregazione il concreto svolgimento di lavoro straordinario non
potrebbe ritenersi solo per il fatto di aver prestato attività lavorativa per
più di sei giorni, dovendo invece essere dimostrato concretamente, settimana
per settimana, in funzione di una settimana di calendario ordinario.
Correttamente, pertanto, i giudici di appello hanno ritenuto assorbita ogni
altra questione proposta dalle parti.
Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato.
Sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di questo
giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese del giudizio.