RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza sopra specificata, la Corte di appello di Torino,
giudicando fondata l'impugnazione proposta dal S.IN.COBAS - Sindacato
intercategoriale dei comitati di base - contro la decisione del Tribunale
della stessa sede, ha confermato il decreto in data 27 aprile 1999 del
Pretore di Torino, con il quale, ritenuta l'antisindacalità del
comportamento della (omissis) s.p.a., consistito nel rifiutare il pagamento
al sindacato, ricorrente ex art. 28 l. 300/1970, delle quote di retribuzione
cedutegli dai lavoratori aderenti, ne aveva ordinato la cessazione e la
rimozione degli effetti (mediante il pagamento dei crediti scaduti), con
affissione del dispositivo nelle bacheche per trenta giorni.
2. È stato respinto, invece, l'appello incidentale della (omissis) contro la
statuizione di primo grado, nella parte in cui aveva ritenuto la
legittimazione del S.IN.COBAS a proporre ricorso per la repressione del
comportamento antisindacale, con la motivazione che era stata fornita la
prova della dimensione nazionale del sindacato, in relazione alla presenza e
allo svolgimento di attività in gran parte del territorio, nonché della sua
natura, in base allo statuto, di associazione sindacale nazionale con
articolazioni periferiche, e non di confederazione di diverse organizzazioni
di categoria.
3. Sulle altre questioni, le argomentazioni che sostengono la decisione
sono: a) scomparso dall'ordinamento l'obbligo legale del datore di lavoro di
effettuare le trattenute dei contributi sindacali e di curarne il
versamento, l'obbligo medesimo può legittimamente derivare da fattispecie
negoziali; b) nel caso concreto era stata realizzata, con accordi tra
ciascun lavoratore e il sindacato, la cessione di una parte del credito
retributivo, e gli effetti di collaborazione del datore di lavoro derivavano
dagli artt. 1260 ss. c.c., come pure gli oneri aggiuntivi erano posti a suo
carico dal disposto dell'art. 1196 dello stesso codice, oneri, peraltro,
molto modesti, atteso che era in atto nell'azienda la procedura per
riscuotere le quote associative relative ai sindacati firmatari del
contratto collettivo di lavoro; c) il rifiuto del datore di lavoro, debitore
ceduto, di adempiere nei confronti del sindacato, incideva fortemente su di
un profilo assai rilevante dell'attività e, perciò, stante l'atipicità della
condotta antisindacale e la sua oggettiva lesività, doveva essere represso
con lo strumento apprestato dall'art. 28 l. 300/1970.
4. La cassazione della sentenza è domandata dalla (omissis) s.p.a. con
ricorso per tre motivi, ulteriormente precisati con memoria depositata in
relazione all'udienza della Sezione lavoro della Corte fissata per il 23
novembre 2004; ha resistito con controricorso il Sindacato intercategoriale
dei comitati di base.
5. Rilevato che la questione dell'antisindacalità del comportamento del
datore di lavoro, consistito nel rifiuto di pagare al sindacato le quote di
retribuzione cedute dai lavoratori, era già stata decisa in senso difforme
da sentenze della Sezione lavoro, il Primo Presidente ha disposto che la
Corte pronunci a Sezioni unite, ai sensi dell'art. 374, comma 2, c.p.c. In
relazione all'udienza fissata, la (omissis) s.p.a. ha depositato ulteriore
memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo del ricorso, denunciando violazione dell'art. 28 della
l. 300/1970, nonché erronea e insufficiente motivazione, domanda la
cassazione della sentenza nella parte in cui ha ritenuto legittimato il
sindacato a proporre ricorso per la repressione della condotta
antisindacale, cassazione che sarebbe assorbente di ogni altra questione.
1.1. Si sostiene che la Corte di Torino ha trascurato di considerare la
caratteristica, pure accertata in fatto, del raggiungimento della dimensione
nazionale solo come risultato della coalizione di più comitati di base,
relativi alle più disparate categorie di lavoratori, caratteristica che
avrebbe richiesto la verifica specifica dell'interesse concreto ad agire
della base locale, collocabile entro la dimensione nazionale, a tutela dei
lavoratori metalmeccanici; in ogni caso, se in senso stretto non si era in
presenza di una confederazione, la sostanza del fenomeno era tuttavia quella
di un'associazione di secondo livello, siccome lo statuto, esaminato dal
giudice del merito, riconosceva proprio ai comitati di base il ruolo
operativo fondamentale.
2. Il motivo non può trovare accoglimento.
Come già avvertito, il contrasto di giurisprudenza che ha determinato
l'assegnazione della causa alle Sezioni unite non riguarda la questione
oggetto del motivo di ricorso in esame; al contrario, su tale questione gli
orientamenti espressi sono stati univoci nel senso di ritenere sussistente
la legittimazione attiva di organismi locali di sindacati non maggiormente
rappresentativi sul piano nazionale, né intercategoriali o aderenti a
confederazioni, essendo invece determinante il requisito della diffusione
del sindacato (anche monocategoriale) sul territorio nazionale, dovendosi
però intendere tale diffusione nel senso che bastino svolgimento di
effettiva azione sindacale (non su tutto ma) su gran parte del territorio
nazionale (Cassazione 10114/1990; 5765/2002; 11833/2002; 3917/2004;
10616/2004; 269/2005). Questi orientamenti meritano di essere confermati,
non risultando efficacemente contestati dalla ricorrente.
2.1. È opinione condivisa che il disposto dell'art. 28 Statuto dei
lavoratori, con l'attribuire la legittimazione ad agire in giudizio, «agli
organismi locali delle associazioni sindacali nazionali, che vi abbiano
interesse», detta un criterio di selezione basato sul necessario carattere
nazionale delle organizzazioni, escludendo la legittimazione sia dei singoli
lavoratori, sia di forme di autotutela collettiva non organizzate su base
nazionale.
Al riguardo, la Corte costituzionale, in numerose decisioni (cfr. Corte
costituzionale 54/1974, 334/1988 e 89/1995), dopo avere premesso che il
legislatore ha attribuito a soggetti qualificati uno strumento di azione
giudiziaria dotato di particolare efficacia, ha poi evidenziato come risulti
operata una scelta - degli organismi e del livello di rappresentatività -
ragionevole, perché volta a privilegiare «organizzazioni responsabili che
abbiano un'effettiva rappresentatività» (misurata sulla dimensione
nazionale), e che «possano operare consapevolmente delle scelte concrete
valutando - in vista di interessi di categorie lavorative e non limitandosi
a casi isolati e alla protezione di interessi soggettivi di singoli -
l'opportunità di ricorrere alla speciale procedura». In particolare, il
giudice delle leggi ha precisato come l'art. 28 sia espressione della
garanzia del libero sviluppo di "una normale dialettica sindacale" perché il
suo impiego presuppone una dimensione organizzativa - quella nazionale -
che, per non essere legata ad una aggregazione a livello confederale
intercategoriale, né alla stipulazione di contratti collettivi, consente
concreti spazi di operatività anche alle organizzazioni che dissentono dalle
politiche sindacali maggioritarie (si veda, in particolare Corte
costituzionale 334/1988, cit.)
L'accesso alla speciale tutela per la repressione della condotta
antisindacale, quindi, è basata su di un criterio di selezione che nulla ha
a che fare con quello operante ai fini della costituzione delle
rappresentanze sindacali aziendali (art. 19 Statuto dei lavoratori, nel
testo determinato dall'esito del referendum indetto con d.P.R. 5 aprile
1995), ovvero con la nozione di organizzazione sindacale dotata di «maggiore
rappresentatività» (cfr., al riguardo, Cassazione 10114/1990).
2.2. Sulla specifica questione della legittimazione delle organizzazioni che
non abbiano limitato ad una sola, predeterminata, categoria professionale il
fine della loro attività, e, quindi, mirino ad associare e tutelare i
lavoratori in genere, la soluzione, in linea di principio, deve essere
positiva.
In tal senso depongono la mancanza di elementi normativi testuali di segno
contrario, la libertà delle associazioni sindacali di scegliere le modalità
organizzative secondo cui operare, e, infine, la circostanza che la mancanza
di un'unica categoria di riferimento non esclude che, in via presuntiva e
tendenziale, la dimensione nazionale assicuri l'operare di scelte,
nell'azione sindacale, maggiormente consapevoli e razionali e, quindi, con
maggiore probabilità, funzionali alla protezione degli interessi dei
lavoratori.
D'altra parte, nell'attuale configurazione dell'ordinamento non sussiste -
stante anche la mancata attuazione dell'art. 39, commi 2 ss., Cost. - una
predeterminazione delle singole categorie di imprese, in relazione alle
quali debbano essere stipulati i contratti collettivi (cfr. Cassazione,
Sezioni unite, 2665/1997) e, più in generale, essere intrattenute le
cosiddette relazioni industriali.
Ne consegue che il principio costituzionale consacrato dall'art. 39 Cost.
rende insindacabile l'eventuale intento di associazioni di nuova
costituzione di promuovere una rappresentanza di interessi che non segua le
linee organizzative della rappresentanza dei lavoratori conformate dalle
categorie
2.3. Né l'ipotesi del sindacato "non categoriale" o "intercategoriale", è
riconducibile al modulo della confederazione sindacale.
Quest'ultima, infatti, non solo associa organizzazioni sindacati di varie
categorie, ma si caratterizza anche per il fatto di lasciare a queste ultime
la tutela e la rappresentanza dei lavoratori nei confronti delle singole
imprese, nonché l'attività concorrenziale nei confronti delle singole
contrapposte organizzazioni di categoria. Ed è questa la ragione precipua
per cui le confederazioni sono carenti di legittimazione a ricorrere ex art.
28 Statuto dei lavoratori, non diversamente dai sindacati di una diversa
categoria: si configura, infatti, il difetto del requisito dell'interesse
alla repressione della condotta sindacale, menzionato da detta norma (cfr.
Cassazione 7368/1997, e 6058/1998, secondo cui sono privi di legittimazione
ex art. 28 gli organismi locali delle confederazioni sindacali, in quanto
non incardinati in un sindacato di categoria nazionale e privi di interesse,
non rientrando nei loro compiti istituzionali la tutela di una specifica
categoria).
2.4. Il carattere intercategoriale dell'associazione sindacale, tuttavia,
qualche specifico riflesso può avere in tema di accertamento dell'adeguata
diffusione della medesima sul territorio nazionale. Sulla base del
principio, ricavabile dalla stessa giurisprudenza costituzionale sopra
citata, secondo cui, ai fini della legittimazione al ricorso ex art. 28
Statuto dei lavoratori, è necessaria la presenza di un sindacato dotato di
un minimo di rappresentatività non limitata ad una dimensione locale, ma
diffusa nel territorio nazionale, là dove si rinviene la categoria di
riferimento del sindacato stesso (così Cassazione 7368/1997, cit.; cfr.
anche Cassazione 10114/1990, cit., che parla di requisito della diffusione
del sindacato sul territorio nazionale), in linea di principio i limiti
minimi di presenza sul territorio di un sindacato intercategoriale devono
ritenersi, in termini assoluti, più elevati di quelli richiesti a
un'associazione di categoria. Tuttavia, in sede applicativa, tale
affermazione deve essere correlata con il principio secondo cui la
rappresentatività richiesta dall'art. 28 Statuto dei lavoratori costituisce,
come si è detto, un requisito nettamente meno impegnativo di quello della
maggiore rappresentatività; e comunque, vi è stato al riguardo un
accertamento del giudice del merito non specificamente censurato.
2.5. Come già osservato, ai fini della legittimazione di un organismo
sindacale locale, è necessario che lo stesso sia effettivamente
un'articolazione di associazione nazionale.
Affinché si possa ritenere sussistente, al di là dei variabili moduli
organizzativi, un rapporto di tale genere, l'associazione nazionale deve
svolgere effettivamente un'azione sindacale per la promozione degli
interessi dei lavoratori in favore dei quali si dirige, sul piano locale,
l'azione dei singoli organismi territoriali. In altre parole, non può
rilevare qualunque associazione tra organismi sindacali meramente locali,
ancorché in qualche modo funzionale al perseguimento dei fini sindacali dei
singoli gruppi, perché in questo caso sarebbe chiaramente eluso il requisito
dell'esistenza di un'associazione sindacale adeguatamente rappresentativa in
quanto nazionale, e non si verificherebbero i presupposti per quella
selezione degli interessi garantita da un'organizzazione non meramente
locale.
L'individuazione degli organismi locali delle associazioni nazionali
legittimati ad agire per il procedimento di repressione della condotta
antisindacale deve desumersi dagli statuti interni delle associazioni
stesse, dovendosi fare riferimento alle strutture che detti statuti
ritengono maggiormente idonei alla tutela degli interessi locali.
2.6. In base al complesso delle considerazioni svolte, non sono fondate le
critiche alla sentenza impugnata relative alla parte in cui ha riconosciuto
- a seguito della lettura dello Statuto del S.IN.COBAS e di un puntuale
accertamento di fatto in ordine alla diffusione territoriale dell'azione
sindacale - all'organizzazione ricorrente la natura di "organismo locale di
associazione sindacale nazionale", escludendo la presenza di associazione di
secondo livello rispetto ad altre associazioni (i comitati di base).
3. In ordine logico, merita esame prioritario il terzo motivo di ricorso,
con il quale si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1260
ss. c.c. e 39, comma 1, Cost., nonché insufficiente ed erronea motivazione.
3.1. La società ricorrente sostiene l'inutilizzabilità del negozio di
cessione del credito, che non richiede il concorso della volontà del
debitore ceduto, in relazione a fattispecie di cessioni generalizzate di
piccole parti di crediti futuri e con previsione di un termine di efficacia
(nel caso, triennale): a) per il notevole aggravamento degli oneri e dei
rischi del debitore, non certamente resi marginali per l'operatività in
azienda delle deleghe sindacali previste dal c.c.n.l., secondo un sistema
nettamente differenziato; b) per l'incompatibilità tra negozio traslativo
del credito e revocabilità dell'adesione e contribuzione al sindacato; c)
per la modificazione dei contenuti dell'obbligazione, diventando creditore
della retribuzione un soggetto diverso dal lavoratore e mutando il luogo
dell'adempimento; d) per la nullità derivante da frode alla legge
dell'operazione.
4. La Corte, a sezioni unite, giudica infondato questo motivo di ricorso, in
tali sensi componendo il contrasto tra le sentenze che hanno in precedenza
deciso la questione, ritenendo alcune non utilizzabile l'istituto della
cessione del credito per versare al sindacato le quote associative
(Cassazione 1968/2004: 10616/2004), fornendo altre risposta di segno
affermativo e ritenendo altresì antisindacale il rifiuto di pagamento
opposto dal datore di lavoro (Cassazione 3917/2004; 14032/2004).
4.1. Va precisato, preliminarmente, che alla fattispecie va applicato il
regime normativo vigente fino al 31 dicembre 2004, non rilevando la
modificazione del testo dell'art. 1 del d.P.R. 182/1950 (Insequestrabilità,
impignorabilità e incedibilità di stipendi, salari, pensioni ed altri
emolumenti), operata dall'art. 1, comma 137, della l. 311/2004, mediante
l'aggiunta, nel primo comma, delle parole «nonché le aziende private»,
rendendo cosi incedibili, fuori dei casi consentiti dal medesimo testo
normativo (come modificato dall'art. 13-bis del d.l. 35/2005, convertito in
l. 80/2005) anche i compensi erogati dai privati datori di lavoro ai
dipendenti.
Nel regime precedente, infatti, non si dubitava, stante la regola generale
della cedibilità dei crediti, posta dall'art. 1260 c.c., esclusi soltanto i
crediti di carattere strettamente personale e quelli il cui trasferimento è
vietato dalla legge, dell'ammissibilità della cessione dei crediti
retributivi dei lavoratori del settore privato, non trovando per essi
applicazione l'art. 1 del d.P.R. 182/1950 (vedi Cassazione 4930/2003).
4.2. Neppure si è posto in dubbio che un ostacolo alla cessione della
retribuzione potesse derivare dal carattere parziale e futuro del credito
ceduto. La cessione può certamente avere ad oggetto solo una parte del
credito, come si argomenta dal secondo comma dell'art. 1262 c.c., ed anche
crediti futuri, com'è pacifico in giurisprudenza (Cassazione 8497/1994,
5947/1999, 7162/2002).
4.3. Va senz'altro disattesa la tesi del negozio in frode alla legge, come
hanno ritenuto, del resto, tutte le sentenze che si sono occupate della
questione.
Si è correttamente osservato che l'abrogazione referendaria dell'art. 26,
commi 2 e 3, Statuto dei lavoratori, non ha certo determinato un "vuoto"
nella regolamentazione della materia, ma - come precisato dalla Corte
costituzionale in relazione all'intento dei promotori (sentenza 13/1995), ha
"restituito" all'autonomia contrattuale la materia già disciplinata dalla
legge in termini di prestazione imposta al datore di lavoro, cosicché resta
ammissibile, senza limitazioni, il ricorso a tutti i possibili strumenti
negoziali che consentono di realizzare lo scopo di versare ai sindacati la
quota associativa mediante ritenuta sulla retribuzione, altrimenti si
attribuirebbero all'istituto del referendum non i soli effetti abrogativi
che gli sono propri, ma anche effetti propositivi. Ed è in effetti questa,
nella sostanza, la tesi della società ricorrente: l'esito referendario
avrebbe introdotto nell'ordinamento una regola nuova, in base alla quale, lo
scopo del versamento diretto al sindacato delle quote associative potrebbe
essere realizzato esclusivamente mediante istituti che richiedano il
consenso del datore di lavoro. La tesi, come già posto in evidenza, è in
contrasto con l'essenza esclusivamente abrogativa dell'istituto e con il
risultato perseguito con l'indizione del referendum, da individuare
esclusivamente dell'eliminazione dell'obbligo ex lege a carico del datore di
lavoro.
4.4. Venendo all'oggetto specifico del contrasto di giurisprudenza,
l'istituto della "cessione del credito" è stato ritenuto non praticabile per
raggiungere il suddetto scopo fondamentalmente per due ragioni.
La prima, contenuta nella sentenza della Sezione lavoro 1968/2004, è che la
cessione del credito, in generale, non costituisce un autonomo tipo
negoziale, coincidendo con lo schema negoziale di volta in volta idoneo ad
operare e a giustificare il trasferimento; l'ostacolo ad impiegare
l'istituto per il pagamento della quota associativa al sindacato sarebbe da
ravvisare nell'incompatibilità strutturale tra l'impossibilità di una revoca
immediata senza il consenso del sindacato beneficiario (propria
dell'istituto della cessione del credito, conformemente alla sua natura che
la connota come una forma di alienazione di diritti) e la revocabilità
immediata dell'atto volontario di contribuzione sindacale obbligatoriamente
discendente dal principio di libertà sindacale ex art. 39 Cost.
4.4.1. Le Sezioni unite ritengono l'argomentazione non condivisibile.
La specifica disciplina relativa alla cessione detta si uno schema unitario,
che viene ad applicarsi a tutte le fattispecie traslative del credito, ma
senz'altro incompleto: essa si pone quale correttivo e/o integrazione
predisposti, in contemplazione del particolare oggetto, nei confronti dei
singoli negozi causali traslativi. Nel caso in esame, lo schema si applica
ad una cessione per pagamento (solvendi causa), ed infatti il cedente
(lavoratore), in luogo di corrispondere al suo creditore (associazione
sindacale) la prestazione dovuta (quota sindacale), gli cede in pagamento
parte del credito (futuro) che egli ha nei confronti del debitore ceduto
(datore di lavoro).
Ne discende che la causa del contratto di cessione si determina mediante il
collegamento con il negozio al quale è funzionalmente preordinata,
assumendo, quindi, nel caso, una funzione di assolvimento degli obblighi
nascenti dal rapporto di durata originato dall'adesione associativa. Di
conseguenza, se viene meno il rapporto sottostante, ciò provoca la
caducazione della funzione del negozio di cessione, determinandone
l'inefficacia.
In conclusione, la cessione ha funzione di pagamento della quota sindacale e
il pagamento è dovuto dal lavoratore soltanto finché ed in quanto aderisce
al sindacato, in forza di un contratto dal quale il recesso ad nutum è
garantito dai principi inderogabili di tutela della libertà sindacale del
singolo lavoratore. I pagamenti eventualmente eseguiti dal datore di lavoro
successivamente alla "revoca della delega" (che non è revoca della cessione,
come tale inconcepibile, ma cessazione della sua causa per sopravvenuta
inesistenza nel collegamento con il negozio di base) sono effettuati a
soggetto diverso dal creditore ed avranno effetto liberatorio soltanto se il
debitore non ha avuto conoscenza della cosiddetta "revoca" (art. 1189 c.c.).
4.4.2. La sentenza 1968/2004 si fonda altresì sull'impossibilità di
utilizzare lo strumento della cessione del credito perché produrrebbe un
aggravamento della posizione del debitore. L'argomento è ripreso e
sviluppato dalla sentenza 10616/2004, la quale, anche mediante il richiamo
del principio di correttezza e buona fede, in apparenza lo eleva ad unica
ratio decidendi. Si diceva in apparenza, perché il complesso delle
considerazioni svolte nella motivazione suscita l'impressione che rilievo
precipuo sia conferito all'esito referendario, insistendosi nell'osservare
che ammettere l'istituto della cessione del credito finirebbe, da una parte,
per vanificare l'effetto della soppressione dell'obbligo ex lege a carico
del datore di lavoro, dall'altra, per annullare ogni differenza tra la
condizione dei sindacati firmatari dei contratti collettivi e gli altri non
firmatari.
Ma si è già osservato (n. 4.1) che questi argomenti non possono influenzare
il tema della validità ed efficacia del contratto di cessione del credito
retributivo al sindacato, per adempiere agli obblighi associativi, se non
ipotizzandone la nullità per frode alla legge, e, quindi, che l'esito
referendario abbia introdotto nell'ordinamento il principio inderogabile del
divieto di realizzare il risultato di imporre al datore di lavoro, senza il
suo consenso, di versare al sindacato quote della retribuzione. Si è già
detto, nella sede richiamata, come sia del tutto arbitrario desumere un tale
principio dall'effetto abrogativo del referendum, limitato alla soppressione
di un obbligo ex lege, senza interferire minimamente sull'apparato degli
strumenti negoziali a disposizione di tutti i soggetti dell'ordinamento.
4.4.3. Sgomberato il campo da ogni indebito condizionamento dell'indagine,
si deve ricordare come si ammetta comunemente che, in caso di cessione del
credito, l'obbligazione del debitore possa subire alcune modifiche (tra
queste quella, non certo marginale, del luogo di adempimento). Ma il limite
della non esigibilità di una modificazione eccessivamente gravosa, da
identificare in concreto con l'applicazione del precetto di buona fede e
correttezza (art. 1175 c.c.), non riguarda la validità e l'efficacia del
contratto di cessione del credito, ma soltanto il piano dell'adempimento,
del pagamento. Ne segue che l'eccessiva gravosità può giustificare
l'inadempimento, fino a quando il creditore non collabori a modificarne in
modo adeguato le modalità, onde realizzare un giusto contemperamento degli
interessi. Ovviamente, a norma dell'art. 1218 c.c., è il debitore che deve
provare la giustificatezza dell'inadempimento.
Nel caso concreto, anche prescindendo dagli accertamenti compiuti dal
giudice del merito, le censure mosse sul punto alla sentenza impugnata si
mantengono su livelli di totale genericità. In sostanza, ci si limita ad
affermare che l'organizzazione in atto per riscuotere le quote sindacali
sulla base delle clausole del contratto collettivo applicato in azienda non
era idonea ad essere impiegata anche per dare esecuzione alle cessioni, ma
senza alcuna specificazione delle differenze. In ogni caso, il giudizio di
merito circa il "modesto" aggravamento della posizione debitoria non è
validamente contestato, siccome non sono dedotti fatti che, sottoposti al
vaglio della Corte di Torino, non sono stati valutati, o valutati
insufficientemente, ovvero in modo illogico.
5. Va ora esaminato il secondo motivo del ricorso, con il quale è denunciata
violazione e falsa applicazione dell'art. 28 della l. 300/1970, erronea
motivazione circa l'estraneità della controversia rispetto alla nozione di
condotta antisindacale.
Si sostiene che, anche ammessa l'esistenza di una fattispecie di
inadempimento imputabile all'azienda, non era tuttavia configurabile
comportamento antisindacale, perché la titolarità da parte del sindacato dei
crediti ceduti era estranea alla sfera di libertà e di attività tutelate
dall'art. 28 Statuto dei lavoratori, un'estraneità direttamente derivante
dall'esito referendario.
5.1. Anche questo motivo non può essere accolto.
Il rifiuto ingiustificato del datore di lavoro di eseguire i pagamenti
configura un inadempimento che, oltre a rilevare sotto il profilo
civilistico, costituisce anche condotta antisindacale, in quanto
oggettivamente idonea a limitare l'esercizio dell'attività e dell'iniziativa
sindacale. L'effetto del rifiuto è quello di privare i sindacati che non
hanno stipulato i contratti collettivi della possibilità di percepire con
regolarità la fonte primaria di sostentamento per lo svolgimento della loro
attività e posti in una situazione di debolezza, non solo nei confronti del
datore di lavoro, ma anche delle altre organizzazione sindacali con cui sono
in concorrenza.
5.2. A ben vedere, la ricorrente non contesta tanto la presenza di un
inadempimento qualificato dall'idoneità ad incidere in modo recessivo
sull'attività del sindacato, quanto la possibilità giuridica di ritenere che
il diritto di riscuotere quote associative nella qualità di creditore
cessionario del credito retributivo possa ascriversi all'attività sindacale
tutelata dall'art. 28 Statuto dei lavoratori. Ciò sarebbe precluso, ad
avviso della ricorrente, dall'esito referendario, che, sopprimendo l'obbligo
di collaborazione del datore di lavoro, non consente di tutelare il diritto
acquistato con altri strumenti dal sindacato, in assenza del consenso del
datore di lavoro, quale attività sindacale ai sensi e per gli effetti
dell'art. 28 Statuto dei lavoratori.
5.3. Osserva la Corte che un tale ordine di argomentazioni ripete,
sostanzialmente immutata, la tesi già disattesa nell'esame del terzo motivo.
Ed infatti, si pretende di desumere dall'esito referendario il precetto
secondo il quale è antisindacale soltanto l'inadempimento di obblighi
assunti volontariamente dal datore di lavoro nei confronti dei soggetti
sindacali, non anche l'inadempimento di obblighi derivanti da fonti
negoziali che non ne contemplano il consenso.
Non resta, quindi, che rinviare alle considerazioni già svolte per escludere
che lo strumento della cessione del credito per riscuotere quote sindacali
possa reputarsi nulla per frode alla legge; si ribadisce che, scomparso
l'obbligo legale, tutti gli strumenti negoziali possono essere impiegati per
realizzare risultati, non certo identici o analoghi, ma, al più,
equivalenti. E ciò stabilito, l'inadempimento del datore di lavoro che
incide sull'attività sindacale in senso proprio concreta in tutti i casi
condotta antisindacale, senza che possa in alcun modo rilevare la fonte
dell'obbligo medesimo.
Una considerazione conclusiva si impone: il referendum ha lasciato in vigore
il primo comma dell'art. 26 Statuto dei lavoratori, che protegge i diritti
individuali dei lavoratori concernenti l'attività sindacale per quanto
attiene, in particolare, alla raccolta dei contributi: stipulare con il
sindacato i contratti di cessione di quote della retribuzione costituisce
una modalità di esercizio dei detti diritti; il rifiuto del datore di lavoro
di darvi corso, lungi dal concretare un mero illecito civilistico, opera una
compressione dei diritti individuali e di quelli del sindacato.
6. Per le ragioni esposte il ricorso va rigettato, Sussistono, evidenti,
giusti motivi per compensare le spese del giudizio.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni unite, rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione.