Sentenza. Presidente G. Sciarelli - Relatore
M. De Luca
Svolgimento del processo
Con la sentenza ora
denunciata, il Tribunale di Palermo - in riforma della sentenza del
Pretore della stessa sede in data 18 febbraio 1993 - rigettava la
domanda proposta da G. C. contro la omissis S.p.a. (già omissis S.p.a.)
- dalla quale dipendeva, con qualifica di impiegato di livello B2 - e
diretta ad ottenere, per quel che ancora interessa, l'annullamento
oppure, in subordine, la riduzione - in quanto, asseritamente,
ingiustificata - della sanzione disciplinare (sospensione dal lavoro e
dalla retribuzione per tre giorni) - che gli era stata inflitta per
essersi rifiutato di dattiloscrivere, siccome gli era stato richiesto
da superiore gerarchico (capo vendita), una nota (da sottoporre alla
firma del capo area), relativa ad una "pratica errore" (avente ad
oggetto contestazioni mosse da un cliente), che riguardava "una
pratica affidata ad un agente a lui assegnato e rientrante nelle
proprie competenze per gli aspetti commerciali" - in base al rilievo
che quel rifiuto doveva ritenersi ingiustificato, come tale in
violazione dell'obbligo di diligenza (imposto dall'art. 2104, primo
comma, c.c.), in quanto riguardava un "compito accessorio rispetto
alle mansioni di competenza" dello stesso lavoratore..
Avverso la sentenza d'appello, G. C. propone
ricorso per cassazione, affidato ad un motivo.
L'intimata resiste con controricorso.
Entrambe le parti hanno presentato memoria.
Motivi della decisione
1. Con l'unico motivo di ricorso
- denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto
(art. 360, n. 3, c.p.c.) - G. C. censura la sentenza impugnata per
avere ritenuto ingiustificato il proprio rifiuto di svolgere compiti
di dattiloscrittura - che non rientravano fra le mansioni proprie
della qualifica di appartenenza, né contribuivano ad affinare la
propria professionalità - sebbene gli fossero stati affidati in
conformità di prassi aziendale.
Il ricorso non é fondato.
2. Nel rispetto delle disposizioni di legge in
materia (art. 2103 c.c.) - come integrate dalla (eventuale) disciplina
collettiva, in senso (necessariamente) più garantistico a favore del
lavoratore (vedi Cass. n. 1563-94, 11339-94) l'esercizio dello ius
variandi rientra nella discrezionalità del datore di lavoro, che non è
di per sè sottratta - in linea generale - all'osservanza dei doveri di
correttezza e buona fede e, per il caso di violazione, al rimedio del
risarcimento dei danni (vedi, per tutte, Cass., sez. unite, 10178-90,
494-2000, sez. semplici 6763/2002, 682-2001, 11291, 8468-2000).
Tuttavia le clausole generali di correttezza e
buona fede - che operano p nell'ambito sia dei singoli rapporti
obbligatori (art. 1175 c.c.), sia del complessivo assetto di interessi
sotteso all'esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.) - non
introducono nei rapporti giuridici diritti ed obblighi, diversi da
quelli legislativamente o contrattualmente previsti, ma sono destinate
ad operare all'interno dei rapporti medesimi, in funzione integrativa
di altre fonti, con la conseguenza che rilevano - secondo la
giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n.4570-96
delle sezioni unite, anche in motivazione, e n. 3775-94, 9867-98,
15517-2000 delle sezioni semplici) - soltanto come modalità di
comportamento della parti, ai fini della concreta realizzazione delle
rispettive posizioni di diritto o di obbligo, ed - in quanto attengono
alle modalità comportamentali ed esecutive del contratto, quale a esso
è stato stipulato dalle parti - si pongono nel sistema - come limite
interno di ogni situazione giuridica soggettiva, attiva o passiva,
contrattualmente assunta o legislativamente imposta, appunto - così
concorrendo, da un lato, alla relativa conformazione, in senso
(eventualmente) ampliativo o restrittivo rispetto alla fisionomia
apparente, e, dall'altro, consentendo al giudice di verificarne la
coerenza con i valori espressi nel rapporto.
Ne risulta garantita, per tale via, l'apertura
del sistema giuridico ad un rapporto dialettico costante con il
contesto socio - economico e culturale di riferimento.
Nella dedotta fattispecie, tuttavia, il
comportamento dei lavoratore risulta in contrasto con le disposizioni
di legge in materia (art. 2103 c.c.), senza che sia all'uopo
necessario scrutinare circa la configurabilità della violazione di
clausole generali e, segnatamente, dei doveri di correttezza e buona
fede (sul punto, vedi, per tutte, Cass. 2948/81, 10187/2002), nonché
circa i rimedi apprestati dall'ordinamento per tale violazione.
3. Infatti l'esercizio dello ius variandi ,
affidato alla discrezionalità del datore di lavoro, risulta nella
specie rispettoso delle regole di fonte legale - che lo governano - e,
segnatamente, della riconducibilità o, comunque, della equivalenza
della mansione (di dattiloscrittura) - di cui si contesta
l'assegnazione - rispetto alle mansioni proprie della qualifica di
appartenenza dello stesso lavoratore.
Una volta che l'attività prevalente ed
assorbente del lavoratore rientri fra le mansioni corrispondenti alla
qualifica di appartenenza, non viola i limiti esterni dello ius
variandi - né frustra la funzione di tutela della professionalità, che
ne risulta perseguita - l'adibizione del lavoratore stesso a mansioni
inferiori, purché si tratti di mansioni che - oltre ad essere
marginali ed accessorie, rispetto a quelle di competenza (in tal
senso, vedi, per tutte, Cass. n. 7821 /2001, 2045/98, 6464/93,
3845/92) - non rientrino nella competenza specifica di altri
lavoratori di professionalità meno elevata (vedi Cass. n. 3845/92, cit.).
Tanto basta per ritenere ingiustificato il
rifiuto di svolgere quelle mansioni inferiori e, di conseguenza,
sorretta da giustificazione la sanzione che venga inflitta per il
rifiuto.
Non rileva in contrario, infatti, la
circostanza che il prospettato comportamento datoriale - pienamente
legittimo, per quanto si é detto - non abbia carattere meramente
straordinario, ma corrisponda ad una diffusa prassi aziendale.
La sentenza impugnata non si discosta dai
principi di diritto enunciati e non merita, quindi, le censure che le
vengono mosse dal ricorrente.
4. Infatti non é in discussione, nella specie,
l'adibizione - prevalente ed assorbente, in una parola normale - del
lavoratore a mansioni corrispondenti alla qualifica di appartenenza.
Coerentemente, le mansioni inferiori (di
dattiloscrittura) - delle quali si contesta l'assegnazione - risultano
meramente marginali.
Inoltre non é stato investito dal ricorso -
sotto l'unico profilo, deducibile in sede di legittimità, del vizio di
motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.) - l'accertamento di fatto che il
rifiuto del lavoratore (di dattilografare) concerneva un "compito
accessorio rispetto alle mansioni di competenza", in quanto relativo
ad una una nota (da sottoporre alla firma dei capo area), attinente ad
una "pratica errore" (avente ad oggetto contestazioni mosse da un
cliente), che riguardava, appunto, "una pratica affidata ad un agente
a lui assegnato e rientrante nelle proprie competenze per gli aspetti
commerciali".
In altri termini, la nota non può non rientrare
nelle "mansioni di competenza" dei lavoratore - in quanto attinente ad
"una pratica affidata ad un agente a lui assegnato e rientrante nelle
proprie competenze per gli aspetti commerciali" - e la forma di
scrittura relativa (dattiloscrittura, appunto) risulta - secondo
l'accertamento di fatto del Tribunale - meramente accessoria rispetto
alle stesse mansioni.
Peraltro non risulta neanche prospettato che,
nella specie, la dattiloscrittura rientrasse nella competenza
specifica di altri dipendenti: in altri termini, il lavoratore, di cui
si discute, non disponeva - a quanto consta - di un servizio di
dattiloscrittura, affidato ad altri lavoratori.
Tanto basta per ritenere legittima la sanzione
disciplinare irrogata (sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per
tre giorni). Né risulta in alcun modo motivata l'asserita eccessività
della sanzione medesima, della quale si chiede, in subordine, la
riduzione.
5. Il ricorso, pertanto, va rigettato.
Sussistono, tuttavia, giusti motivi per
compensare integralmente fra le parti le spese del giudizio di
cassazione (art. 92 c.p.c.).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; Compensa
integralmente fra le parti le spese del giudizio di cassazione. |