R  E  P  U  B  B  L  I  C  A     I  T  A  L  I  A  N  A

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

         Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la seguente

D E C I S I O N E

(Numero 5607/2004)

sul ricorso n. 8612/2003 proposto dal Ministero della Difesa, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la stessa legalmente domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

contro

L.A., non costituito in giudizio;

per l’annullamento

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, Sezione Staccata di Lecce, Sez. I, n. 1904/2003, pubblicata in data 8.4.2003, resa tra le parti, con cui è stato accolto il ricorso proposto dall’attuale appellato, concernente compenso per ore di permanenza in caserma.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore alla pubblica udienza del 30 marzo 2004 il Consigliere Giuseppe Carinci;

Udito l'Avvocato dello Stato Elena Pino, per l'Amministrazione appellante;

Ritenuto in fatto e in diritto quanto segue.

FATTO

Con ricorso dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, Sezione staccata di Lecce, L.A. dipendente della Difesa-Marina, ha chiesto l’accertamento e la condanna dell’Amministrazione della Difesa al pagamento delle somme relative alle ore di servizio prestate in caserma, su disposizione del Comando, dalla fine dell’orario di servizio fino all’inizio del turno di guardia o di comandata cui è stato destinato, ore compensate forfettariamente come un’ora di retribuzione a titolo di reperibilità.

Parte ricorrente esponeva che egli veniva assegnato per un giorno la settimana, in aggiunta all’orario di servizio fissato in 37 ore settimanali dalla legge 8 agosto 1990, n. 231, ai servizi supplementari di “guardia e diana” o di “comandata”, durante i quali era tenuto a rimanere a disposizione dell’Amministrazione per 24 ore consecutive. Ritenendo il compenso corrisposto inferiore al dovuto, ha proposto ricorso presso il predetto Tribunale, deducendo violazione dell’art. 6 del D.M. 20 settembre 1990 e dell’art. 10 del D.P.R. 31 luglio 1995, n. 394.

Il Tribunale amministrativo, ritenuto che i dati forniti nel ricorso presentavano elementi sufficienti e idonei a comprovarne l’ammissibilità, ben potendo il giudice condannare l’Amministrazione a un facere specifico, demandandole gli adempimenti concreti conseguenti, ha ritenuto fondata la richiesta del ricorrente e l’ha accolta, riconoscendo al medesimo il diritto a ottenere il pagamento delle differenze retribuitive rivendicate, nei limiti della prescrizione.

Il Ministero della Difesa non ha condiviso la decisione e l’ha impugnata con atto notificato in data 1.9.2003 e depositato il 25.9.2003. Nel gravame ha sollevato i seguenti motivi.

1) Inammissibilità del ricorso di primo grado: il ricorso era sprovvisto di qualsiasi indicazione sul periodo in cui si sarebbero verificate le presunte prestazioni lavorative e sull’ammontare delle somme oggetto del petitum. Esso, quindi, doveva essere dichiarato nullo e/o inammissibile per inesistenza o quantomeno per genericità del petitum e della causa petendi, carenze che impedivano un concreto accertamento delle pretese, da parte del giudice, e un’effettiva difesa da parte dell’Amministrazione. Il Tribunale amministrativo, peraltro, ha accolto il ricorso, uniformandosi a precedenti decisioni, con una pronuncia che si appalesa illogica e carente di motivazione. In ogni caso, in presenza di una domanda di condanna al pagamento di somme, non poteva procedersi a una decisione limitata all’an, mancando da parte dell’attore – con il consenso della resistente - una limitazione in tal senso della richiesta.

2) Infondatezza nel merito: la situazione cui fa riferimento controparte non comporta alcun tipo di applicazione lavorativa e non costituisce servizio vero e proprio né lavoro straordinario, come chiaramente indicato nell’art. 6 del D.M. 25 settembre 1990, che distingue i servizi presidiari e di stabilimento da quelli di lavoro straordinario, commisurando in maniera diversa la retribuzione per gli uni e per l’altro. La reperibilità, in considerazione della limitazione che comporta alla disponibilità del tempo libero, viene compensata mediante erogazione di apposita indennità, come in effetti è stato disposto in favore dell’attuale appellato. Né è pertinente l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui solo una norma regolamentare, e non una semplice direttiva, può diversificare i compensi dovuti per servizio di presidio da quelli per lavoro straordinario, tenuto conto della disciplina specifica dell’istituto della reperibilità. La pretesa del ricorrente di ottenere diversi e maggiori benefici si scontra, peraltro, con l’evidente iniquità di voler parificare una situazione di mera disponibilità con prestazioni di effettivo servizio, soluzione alla quale si oppone anche la disciplina dettata in materia di recupero dei servizi. E’ pacifico, per giunta, che non può essere riconosciuto alcun compenso per lavoro straordinario quando manca una preventiva formale autorizzazione.

L’appellato non si è costituito in giudizio.

All'udienza del 30 marzo 2004 la causa è stata riservata in decisione.

D I R I T T O

Come esposto in narrativa, il Ministero della Difesa ha impugnato la decisione con la quale il Tribunale amministrativo per la Puglia, Sezione di Lecce, ha accolto il ricorso proposto da L.A., dipendente del Ministero della Difesa-Marina, riconoscendo al medesimo il diritto a percepire, nei limiti della prescrizione, differenze retributive dovute per ore di permanenza in caserma, “dalla fine dell’orario di servizio fino all’inizio del turno di guardia o di comandata”.

Con il primo motivo sostiene che il ricorso in primo grado doveva essere dichiarato nullo e/o inammissibile per genericità del petitum e della causa petendi.

Il motivo è fondato.

E’ pacifico, in giurisprudenza, che il ricorrente è tenuto a dare esauriente indicazione, nel ricorso, dei motivi su cui fonda la propria rivendicazione, con specificazione delle circostanze da cui possa desumersi la reale consistenza della pretesa vantata, non solo per dare modo alla parte intimata di difendersi adeguatamente, ma anche per porre il giudice nella condizione di comprendere quali siano le ragioni che egli intenda far valere (Cons. St., Sez. VI, n. 61 del 3.2.1992; n. 138 del 27.2.1992). L’esigenza è ancor più pregnante qualora l’interessato abbia proposto – come appunto nel caso in esame – un’azione di accertamento e di condanna al pagamento di somme che l’Amministrazione sarebbe tenuta a erogare per differenze retributive inerenti a ore trascorse in caserma, su disposizione del Comando. L’Azione esige che l’interessato non si limiti a formulare generiche pretese, sia pure mediante indicazione delle norme ritenute violate, ma fornisca in modo preciso e completo gli elementi di fatto costitutivi della fattispecie, tali da rendere possibile il concreto accertamento della responsabilità dedotta (Cons. St., Sez. V, n. 239 del 13.2.1995).

Senza trascurare la regola che il giudice ha il dovere di interpretare il gravame tenendo conto del testo dell’intero ricorso, non si ravvisa, nel caso sottoposto all’esame, che il ricorrente abbia assolto in modo esauriente, in primo grado, l’onere processuale richiesto. Le indicazioni contenute nel gravame si appalesano, invero, del tutto generiche, mancando qualsiasi indicazione non solo dei giorni in cui le prestazioni lavorative sarebbero state svolte, ma anche dei periodi di riferimento e delle località di servizio. Manca, altresì, la quantificazione delle ore per le quali viene richiesto il compenso e delle somme rivendicate. Né si appalesano valide, a individuare la consistenza e la portata delle doglianze, la segnalazione del sistema di calcolo delle ore di lavoro e l’indicazione delle norme giuridiche ritenute violate, che non lasciano sopperire alle carenze di ordine processuale avvertite (Cons. St., IV, n. 1279 del 14.11.1997).

Non va trascurato che il ricorrente aveva messo in atto un’azione volta all’accertamento di diritti patrimoniali, di cui era indubbiamente tenuto a fornire gli elementi idonei a determinarne la precisa consistenza. Né valgono i richiami giurisprudenziali e i rilievi svolti dal Tribunale amministrativo che, in presenza della generica richiesta del ricorrente intesa a ottenere il pagamento di differenze retributive per prestazioni straordinarie, ha accolto il ricorso, demandando all’Amministrazione gli adempimenti concreti conseguenti alla sentenza di condanna, senza procedere ad alcun accertamento, reso impossibile, appunto, dalla mancanza di riscontri concreti di determinazione. Nemmeno è dato ravvisare l’esistenza di prove eventualmente da completare in sede istruttoria, mancando gli elementi base cui fare riferimento. Si rivelano perciò pertinenti e validi i rilievi svolti dall’appellante, che ha sollevato un vizio di intrinseca illogicità della decisione, eccependo l’inammissibilità della pronuncia in quanto riferita solo all’an.

In effetti, insieme alla domanda di accertamento, il ricorrente ha formulato un’esplicita richiesta di condanna dell’Amministrazione al pagamento dei compensi rivendicati. Il giudice di primo grado si è limitato a una condanna generica dell’Amministrazione della Difesa sull’an debeatur, salva e impregiudicata la verifica sui presupposti di fatto. Così facendo, ha dichiarato semplicemente il diritto del dipendente a percepire le conseguenti somme, nei limiti della prescrizione eccepita, operando una conversione della domanda del ricorrente senza il consenso delle parti. A fronte di tale soluzione, risulta perciò pertinente osservare – come ha ricordato l’attuale appellante – che la Corte di Cassazione ritiene non corretta, in presenza di una domanda di condanna al pagamento di somme, una pronuncia limitata all’an, se l’attore non abbia limitato, con il consenso del convenuto, l’iniziale richiesta (Cass. Civ., II, n. 4487 del 10.4.2000).

Le esposte argomentazioni stanno quindi a indicare che il ricorso in primo grado doveva essere dichiarato inammissibile, donde l’accoglimento dell’appello, con assorbimento delle ulteriori censure.

Per completezza della trattazione, tuttavia, il Collegio ritiene di procedere all’esame anche del secondo motivo.

Con le censure quivi esposte l’Amministrazione sostiene che il tipo di applicazione lavorativa durante le ore di permanenza in caserma non può considerarsi vero e proprio servizio, in quanto al dipendente viene richiesta solo la presenza nel presidio, senza alcun altro onere se non quello della limitazione del tempo libero. Il che starebbe a dimostrare che nel caso di specie l’interessato sia stato validamente compensato con il sistema retributivo della “reperibilità” e, nel contempo, che non vi sia stata alcuna disapplicazione delle norme che disciplinano la retribuzione del lavoro straordinario.

I rilievi si appalesano fondati.

Nel ricorso l’attuale appellato aveva precisato che egli veniva destinato a servizi supplementari di “guardia diana” o “comandata” una volta la settimana, e che alla fine dell’orario di servizio ordinario doveva restare obbligatoriamente in caserma, a disposizione dell’Amministrazione. Il complesso delle circostanze avrebbe concretizzato, di volta in volta, un servizio continuativo di 24 ore, e non di sola disponibilità, da cui deriverebbe il diritto a ottenere il compenso pari a una giornata lavorativa, con due ore di riposo compensativo, più la retribuzione di due ore. Il Tribunale amministrativo ha osservato che le prestazioni svolte nelle indicate condizioni si caratterizzano come prestazioni lavorative di attesa sul luogo di lavoro e differiscono qualitativamente dalla “reperibilità”, comportando una più marcata restrizione della libertà. Ha perciò accolto il ricorso, riconoscendo al dipendente il diritto alla retribuzione rivendicata, in relazione alla effettiva attività prestata.

E’ utile ricordare, a tal proposito, che l’orario di servizio normale del personale delle Forze Armate, secondo quanto stabilito dall’art. 10 della legge 8 agosto 1990, n. 231, è fissato in 36 ore settimanali, più due ore obbligatorie a decorrere dal 1° dicembre 1995 (ridotte a un’ora a iniziare dal 1° gennaio 1997). In attuazione di tale disposizione, il D.M. 25 settembre 1990 ha stabilito che le ore di effettiva attività lavorativa, eccedenti quelle normali, sono di regola compensate con attività di recupero. Diversamente devono essere adeguatamente compensate, come avviene di norma per il lavoro festivo, che viene retribuito con l’attribuzione di nove ore di lavoro straordinario.

Le citate disposizioni, nel determinare in trentasei ore l’orario normale delle attività giornaliere del personale delle Forze Armate, non hanno mai escluso la possibilità di impieghi comportanti maggiori disponibilità, ivi compresi eventuali periodi di restrizione in caserma, che derivano direttamente dallo status di militare. In relazione al principio della “totale disponibilità al servizio”, è stato perciò ritenuto che il protrarsi della permanenza in caserma del dipendente oltre il limite dell’orario settimanale, tra la cessazione di un servizio e l’inizio di un altro, non costituisce attività di lavoro, ma condizione di mera disponibilità, per nulla assimilabile alle situazioni che comportano prestazioni reali. In effetti, l’impegno richiesto al dipendente all’interno degli stabilimenti militari, nelle indicate condizioni, anche se oltre i limiti del normale orario, non implica lo svolgimento di specifiche attività, ma solo compiti di minore specificità non fungibili con l’attività svolta e le responsabilità connesse alle normali condizioni di lavoro (Cons. St. IV, n. 671 del 27.4.1998).

La restrizione in argomento non è stata trascurata sotto il profilo retributivo dall’Amministrazione, la quale ha corrisposto al dipendente, a ristoro della limitazione del tempo libero per le ore di permanenza in caserma, un compenso stabilito secondo il sistema retributivo previsto per la pronta disponibilità. Tale soluzione non presenta, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale amministrativo, alcun errore, tenuto conto che il minor impegno e la minore responsabilità ben possono giustificare, nel rispetto del principio della proporzionalità, un criterio di retribuzione avente configurazione diversa da quello stabilito per la retribuzione delle prestazioni reali di lavoro (Cons. St., Sez., IV, n. 671 del 27.4.1998).

Anche ragioni riferite al merito della rivendicazione porterebbero a escludere che il ricorrente abbia diritto a conseguire le differenze retributive rivendicate.

Per le esposte considerazioni, l’appello si appalesa quindi fondato e va accolto.

Le spese dell’intero giudizio vanno poste a carico del ricorrente e si liquidano nel dispositivo.

P. Q. M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione quarta, definitivamente pronunciando sull’appello specificato in epigrafe, lo accoglie. Per l’effetto, dichiara inammissibile il ricorso di primo grado e annulla l’impugnata sentenza.

Condanna l’appellato a pagare in favore del Ministero della Difesa le spese dei due gradi di giudizio che, tenuto conto della ripetitività di numerosi ricorsi proposti, liquida complessivamente in € 2.000,00 (quattromila/00).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma il 30 marzo 2004, dalla IV Sezione del Consiglio  di  Stato,  riunita  in camera di consiglio con l'inter-


 

vento dei seguenti signori:

Stenio RICCIO                                      Presidente

Dedi RULLI                                          Consigliere

Giuseppe CARINCI                       Consigliere estensore

Carlo DEODATO                                    Consigliere

Sergio DE FELICE                        Consigliere

         L'ESTENSORE                             IL PRESIDENTE

Giuseppe Carinci                                          Stenio riccio   

IL SEGRETARIO
Maria Grazia Nusca

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 27/08/2004