REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

N.5821/2005             Reg.Dec.

N. 9787    Reg.Ric.

ANNO 2002     

       Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello proposto da (omissis), rappresentato e difeso dagli avv.ti Girolamo Rubino e Fabrizio Paoletti ed elettivamente domiciliato presso lo studio del secondo in Roma,  Via Giunto Bazzoni, n. 3.        

contro

il Ministero dell’Interno – Dipartimento della Pubblica Sicurezza, in persona del rappresentante pro tempore, non costituitosi in giudizio.                    

per l'annullamento

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio – Sezione I ter - n. 9459 del 15 novembre 2001.    

       Visto il ricorso con i relativi allegati;

       Visti gli atti tutti della causa;

       Alla pubblica udienza del 14 giugno 2005 relatore il Consigliere Guido Salemi. Udito l’avv. Paletti. 

       Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

F A T T O e D I R I T T O

1.- Con ricorso proposto innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, Sezione I ter, il sig. (omissis), agente della Polizia di Stato, impugnava, chiedendone l’annullamento, il decreto del 7 aprile 2000, con cui gli era stata inflitta la sanzione disciplinare dal servizio ai sensi dell’art. 7, n. 1, del D.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737.

Con sentenza n. 9549 del 15 novembre 2001, il giudice adito respingeva il ricorso.

Con ricorso notificato il 12 novembre 2002, il ricorrente ha proposto appello contro la summenzionata sentenza.

Il Ministero appellato non si è costituito in giudizio.

Alla pubblica udienza del 14 giugno 2005, il ricorso è stato trattenuto in decisione.

2.- Con il primo motivo di appello, il ricorrente ripropone la censura di violazione dell’art. 19 del D.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737n. 737 e della circolare n. 333-a/9820 A.1 del Ministero dell’Interno – Dipartimento della pubblica sicurezza.

A suo avviso, contrariamente all’assunto del giudice di prime cure, il funzionario istruttore ha palesemente disatteso i principi e i criteri di cui alle summenzionate disposizioni.

In particolare, il suddetto funzionario avrebbe formulato indebitamente considerazioni personali suscettive di influenzare negativamente il Consiglio provinciale di disciplina.

Il motivo è infondato.

Come rettamente osservato dal T.A.R., la relazione del funzionario, per contenendo alcune valutazioni soggettive e dilungandosi in citazioni di dottrina e giurisprudenza, contiene una indicazione completa dei fatti, è accompagnata dai verbali integrali delle testimonianze raccolte, dal supplemento di discolpa del ricorrente e da atti che dimostrano un accurato svolgimento della fase istruttoria, volto ad acquisire elementi oggettivi, rispetto ai quali un eventuale eccesso di zelo od un velato, ma irrilevante, preconcetto nella formulazione della relazione finale perde d’importanza.

In particolare, sia in primo grado che in questa fase del giudizio, l’appellante sostiene che è falsa l’affermazione, contenuta a pag. 2, della relazione del funzionario istruttore, secondo la quale “risulta inequivocabilmente provato che il (omissis)…circolava, come dichiarato dallo stesso, con biancheria intima femminile”.

Indubbiamente è questa una espressione inappropriata rispetto agli indumenti indossati dal ricorrente (minigonna e calze femminili), ma da ciò non può desumersi che la relazione istruttoria sia stata faziosa e priva di serenità.

Quanto, poi, all’osservazione, contenuta pag. 3 della suddetta relazione, secondo cui “la reazione (del sig. (omissis)) alle situazioni di stress appare illogica, priva di consequenzialità e necessitante, a modesto parere dello scrivente, di una attenta analisi medico-specialistica”, la stessa va correlata, ai fini della sua comprensione, nella ulteriore affermazione che “illuminante al riguardo è l’affermazione del (omissis) il quale sostiene che il suo atteggiamento è derivato dalle dichiarazioni fatte dalla sua fidanzata e dalla volontà di punirsi. Se la reazione posta in essere dal (omissis) appare incomprensibile in un normale cittadino risulta intollerabile se posta in essere da un appartenente alla Polizia di Stato. Questi ultimi, infatti, in ragione del lavoro svolto, vivono frequentemente situazioni stressanti e non è tollerabile che non siano in grado di gestirle adeguatamente; tale incapacità sarebbe pericolosa non solo per lo stesso poliziotto, ma ancor più per la cittadinanza che vede nel tutore dell’ordine un punto fermo e sicuro a cui fare riferimento proprio nelle situazioni difficili della vita”.

Si sostiene ancora che il funzionario istruttore avrebbe disatteso, senza alcuna valida giustificazione, tutte le testimonianze rese in favore dell’appellante e avrebbe suggerito espressamente il provvedimento sanzionatorio da applicare, ma siffatte doglianze non possono essere condivise, in quanto, da un lato, non sono indicate le testimonianze alle quali dovrebbe farsi riferimento e, dall’altro, anche se la circolare, invocata dall’appellante, esclude che il funzionario istruttore esprima valutazioni sulla sanzione da applicare, il mancato rispetto di tale principio non comporta di per sé l’illegittimità del procedimento.

3.- Con il secondo motivo di appello si insiste sulla violazione, sotto altro aspetto, dell’art. 19 del citato D.P.R. n. 737/1981, evidenziandosi che il procedimento disciplinare doveva ritenersi estinto per perenzione, posto che il funzionario istruttore aveva inviato tutto il carteggio raccolto al Questore di Palermo il quale non aveva formulato le “opportune osservazioni” di cui al citato art. 19.

Il motivo è infondato.

Quanto alla prima doglianza è agevole il rilievo che è la normativa (art. 19 D.P.R. n. 737/1981) che impone la trasmissione della relazione, unitamente al carteggio raccolto, all’Autorità che ha disposto l’inchiesta, che, nella specie, era proprio il Questore di Palermo; quanto alla seconda, è corretto il rilievo del giudice di prime cure, che l’estinzione del procedimento, secondo lo spirito e la lettera della legge, non deriva dalla mancata formulazione di osservazioni da parte del Questore, ma semmai dalla mancata trasmissione degli atti al Consiglio di disciplina entro il limite temporale prescritto.

Il Questore ha il potere, ex art. 19, penultimo e ultimo comma del citato D.P.R. n. 737/1981, di disporre l’archiviazione con provvedimento motivato, se ritiene che gli addebiti non sussistano, ovvero di trasmettere “il carteggio dell’inchiesta, al Consiglio di disciplina competente..”.

E questa una regola procedimentale che non incide sulle garanzie di difesa dell’inquisito, sicché deve escludersi che la sua inosservanza sia suscettiva di determinare la nullità del procedimento o, comunque, la sua annullabilità sub specie del difetto di motivazione, poiché tale vizio emerge solo in relazione all’atto terminale del procedimento (cfr., in argomento, C.d.S., Sez. I, 27 agosto 2003 n. 2889/2003).

4.- Con il terzo motivo di appello, il ricorrente deduce la violazione degli artt. 1, 7 e 13 del D.P.R. n. 73771981, dell’art. 2106 cod. civ. della summenzionata circolare.

A suo avviso, l’Amministrazione, secondo il dettato delle norme surriferite, avrebbe dovuto valutare tutte le circostanze attenuanti, gli eventuali precedenti (nella specie inesistenti), il carattere del trasgressore, l’età, la condotta antecedente e susseguente all’infrazione presuntivamente commessa e tutte le altre eventuali attenuanti generiche non contemplate direttamente dalla legge, ma comunque desumibili dall’art. 133 c.p.

Da un attento esame della vicenda e da un’istruttoria serena sarebbe certamente emersa l’insussistenza dell’infrazione contestata, nonché che il suo travestimento era stato un episodio del tutto occasionale, anzi assolutamente unico.

L’unico addebito contestabile sarebbe stato l’anomalo abbigliamento indossato, che, peraltro, non solo non costituisce ipotesi di reato, ma di per sé – ove non strumentale a mercificazioni comportamentali – non è neppure motivo di condotta disonorevole o immorale (basterebbe riflettere che costituisce la norma dei periodi carnevaleschi).

In definitiva, l’Amministrazione avrebbe dovuto valutare i fatti in modo corretto ed adeguato, in modo da rispettare il principio della necessaria proporzionalità della sanzione da infliggere alla gravità dell’infrazione.

Le suesposte doglianze sono prive di fondamento.

Va anzitutto osservato che determinati fatti, ritenuti espressione di gravi carenze del dipendente del senso dell’onore e del senso morale, ben possono condurre alla destituzione anche nel caso in cui i fatti accertati non integrino ipotesi di reato.

Non ha, poi, pregio la censura riguardante l’estraneità del fatto al rapporto di servizio, né la supposta sproporzione tra gravità dei fatti e sanzione irrogata.

La sanzione destitutoria ex art. 7, secondo comma, punto 1), del citato D.P.R. n. 737/1981 (analoga a quella prevista dall’art. 84, lett. a) T.U. imp. Civ. St.), è stabilita per reprimere tutti quei comportamenti del pubblico dipendente che arrechino pregiudizio alla dignità delle funzioni esercitate e possano far temere che queste ultime non siano state espletate correttamente, tali essendo anche quelli che, seppure estranei al servizio, si dimostrino in qualche modo lesivi del prestigio e del decoro della Pubblica Amministrazione (cfr. C.d.S.., Sez. V, 13 gennaio 1999, n. 24).

Con riguardo alla proporzione, trattasi di principio generale dell’ordinamento: esso implica che la Pubblica amministrazione debba adottare la soluzione idonea ed adeguata, comportante il minor sacrificio possibile per gli interessi compresenti e, in materia sanzionatoria, costituisce principio generale di giustizia sostanziale, come dimostra l’art. 2106 codice civile, in ambito della disciplina del rapporto di lavoro, che fa riferimento alla gravità dell’infrazione.

In sede di irrogazione di sanzioni disciplinari, deve sempre sussistere una proporzione tra il fatto contestato e la misura della sanzione (Corte costituzionale, 18 gennaio 1991, n. 16; C.d.S., Sez. IV, 22 giugno 2000, n. 3541).

Ciò posto, giova, peraltro, ribadire che la determinazione relativa all’entità della sanzione disciplinare è espressione di una tipica valutazione discrezionale della Pubblica amministrazione datrice di lavoro, di per sé insindacabile dal giudice amministrativo, tranne nei casi in cui appaia manifestamente anomala o sproporzionata o particolarmente severa in quanto determinata nel massimo consentito, e che il giudice non può sostituire la propria valutazione a quella dell’Amministrazione, ma può soltanto verificare che l’atto sia sorretta da adeguata motivazione e basata su fatti manifestamente gravi e tali da indurla a considerarli incompatibili con la prosecuzione del rapporto di lavoro (cfr., di recente, C.d.S., Sez. IV, 5 ottobre 2004, n., 6490).

Tali essendo i limiti del potere giurisdizionale, è corretta l’affermazione del primo giudice secondo il quale “non sembra che l’unicità dell’episodio o le modalità del suo svolgimento siano elementi sufficienti ad evidenziare una mancanza di ragionevolezza nella sanzione, effettivamente grave, poiché le ragioni della determinazione espulsiva sono state individuate non solo e non tanto nell’episodio in sé del travestimento, quanto nel complessivo comportamento tenuto dal ricorrente e nel giudizio di irreparabile disvalore dedotto dalla mancanza di senso di lealtà e del rispetto per sé stesso”.

5.- Le considerazioni che precedono impongono il rigetto dell’appello, con conseguente conferma della sentenza di primo grado.

Non v’è luogo ad una pronuncia sulle spese, non essendosi costituita in giudizio l’Amministrazione appellata.

P. Q. M.

       Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, respinge il ricorso in appello indicato in epigrafe.

       Nulla per le spese di giudizio.

       Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

       Così deciso in Roma, il 14 giugno 2002 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale - Sez.VI -, riunito in Camera di Consiglio, con l'intervento dei Signori:

Claudio VARRONE     Presidente

Giuseppe ROMEO      Consigliere

Luciano BARRA CARACCIOLO   Consigliere

Giuseppe MINICONE    Consigliere

Guido SALEMI           Consigliere, estensore 
 

Presidente

CLAUDIO VARRONE

      Consigliere Estensore                                              Segretario

GUIDO SALEMI     GLAUCO SIMONINI 
 
 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA 
 

il..17/10/2005.

(Art. 55, L.27/4/1982, n.186)

Il Direttore della Sezione

MARIA RITA OLIVA 
 
 

CONSIGLIO DI STATO

In Sede Giurisdizionale (Sezione Sesta) 
 

Addì.........................copia conforme alla presente è stata trasmessa  
 

al Ministero.............................................................................................. 
 

a norma dell'art. 87 del Regolamento di Procedura 17 agosto 1907 n.642 
 
 

                                                                        Il Direttore della Segreteria 
 
 
 

 
 

Reg.ric.n. 9787/2002


 

A.L.