CONSIGLIO DI STATO

SEZIONE IV

Sentenza 10 novembre 2003 n. 7145
 


(Pres. Riccio, Est. Carinci)

 


FATTO
 


Con ricorso dinanzi al Tribunale amministrativo del Lazio, gli attuali appellanti, tutti appartenenti alle forze di polizia, assegnati a prestare servizio nelle sezioni di polizia giudiziaria presso Procure della Repubblica, hanno rivendicato il diritto a percepire l’indennità giudiziaria prevista dalla legge 22 giugno 1988, n. 221, e hanno proposto azione di accertamento, deducendo violazione di legge ed eccesso di potere sotto diversi profili.

Il Tribunale amministrativo ha ritenuto l’indennità rivendicata priva di natura retributiva, poiché diretta a compensare soltanto la complessità e gravosità delle prestazioni richieste agli impiegati degli uffici giudiziari, e ha respinto il ricorso, osservando, altresì, che con l’art. 3, comma 60, della legge 24

dicembre 1993, n. 537, il legislatore ha precisato che le disposizioni della legge n. 221 del 1988 - così come quelle della legge 15 febbraio 1989, n. 51, recante analoga estensione in favore del personale di segreteria o cancellerie delle magistrature amministrative - “si applicano al personale in esse espressamente previsto”, ossia al personale in servizio presso le cancellerie e segreterie giudiziarie.

Gli interessati non hanno condiviso la decisione e l’hanno impugnata con atto notificato in data 15 novembre 2000.

Nel gravame, richiamate pregresse disposizioni legislative e regolamentari volte alla disciplina di compensi analoghi – che contribuirebbero a chiarire il significato secondo cui l’erogazione del beneficio in parola non potrebbe derivare dall’appartenenza a un ruolo specifico, ma dallo svolgimento di mansioni e funzioni peculiari di una determinata Amministrazione - gli

stessi sostengono, in primo luogo, che l’impugnata sentenza sia da ritenere errata laddove contiene l’affermazione che la situazione di dipendenti appartenenti alla polizia ed assegnati alle sezioni di polizia giudiziaria sia da ritenere non riconducibile alla disciplina della normativa su richiamata. Sostengono, poi, che non sarebbe logico né corretto operare distinzioni, nella complessa organizzazione dell’amministrazione, tra coloro che svolgono “attività di tipo amministrativo” e coloro che svolgono funzioni proprie della

singola amministrazione, anche se appartenenti alle sezioni di polizia giudiziaria, che partecipano all’attività giudiziaria alle dirette dipendenze del Procuratore della Repubblica. Nè potrebbe costituire ostacolo, ai fini del riconoscimento in questione, il fatto che loro percepiscono la cosiddetta indennità “d’istituto”. Hanno perciò rinnovato, in questa sede, la richiesta di accertamento disattesa dal primo giudice, con pretesa di condanna dell’Amministrazione al pagamento delle somme relative, gravate di interesse e rivalutazione.

Si sono costituite in giudizio le Amministrazioni intimate che hanno chiesto il rigetto del ricorso, osservando che le funzioni del personale di polizia assegnato alle sezioni di polizia giudiziaria attengono a compiti istituzionali previsti e disciplinati dalla legge 1° aprile 1981, n. 121, che non sono riconducibili all’attività delle cancellerie e segreterie giudiziarie. Ciò non solo perché dette funzioni vengono svolte in strutture del tutto autonome, poste alle dirette dipendenze del Procuratore della Repubblica, ma perchè consistono in attività di prevenzione e repressione dei reati certamente non assimilabile a quella svolta dal personale in servizio presso le cancellerie e

segreterie giudiziarie. Gli attuali appellanti, peraltro, nemmeno rivestono la posizione di “comandati” presso l’Amministrazione della Giustizia, e continuano, inoltre, a percepire l’indennità d’istituto di appartenenti alle forze di

polizia, sostitutiva, sotto il profilo perequativo, dell’indennità richiesta.

All'udienza del 3 giugno 2003, la causa è stata trattenuta in decisione.
 


DIRITTO
 


1 - Come esposto in narrativa, gli appellanti – tutti appartenenti a corpi di polizia ed assegnati alle sezioni di polizia giudiziaria presso diverse Procure della Repubblica - hanno impugnato la decisione con la quale il Tribunale amministrativo del Lazio ha respinto il ricorso con il quale avevano chiesto l’accertamento del diritto a percepire l’indennità di cui all’art. 2 della legge 22 giugno 1988, n. 221, prevista per il personale delle cancellerie e segreterie giudiziarie.

Gli interessati ritengono erronea l’impugnata decisione e tornano a sostenere che l’indennità rivendicata, in quanto diretta a compensare la particolare gravosità e complessità delle prestazioni richieste a chi è impiegato negli uffici giudiziari, deve ritenersi estesa anche nei loro confronti, quali dipendenti che svolgono mansioni di collaborazione con la magistratura inquirente. Secondo la loro tesi, il beneficio non potrebbe farsi derivare, come peraltro già riconosciuto dall’indicato Tribunale, dall’appartenenza a un ruolo specifico, dovendo invece privilegiarsi il rapporto funzionale dei dipendenti nell’ambito della complessa organizzazione dell’Amministrazione.

Sarebbe, infatti, illogico, se non impossibile, distinguere tra coloro che svolgono “attività di tipo amministrativo” e addetti a funzioni proprie della singola amministrazione.

In ogni caso la loro attività sarebbe assimilabile a quella del personale delle cancellerie e segreterie giudiziarie, e non potrebbe costituire ostacolo al riconoscimento rivendicato la circostanza di essere in godimento della cosiddetta indennità “d’istituto”, erogata al personale di polizia.

2 - Le censure si appalesano infondate.

Com’è noto, la legge 22 giugno 1988, n. 221, ha esteso, a decorrere dal 1° gennaio 1988, al personale dirigente e qualifiche equiparate delle cancellerie e segreteria giudiziarie, e al personale delle qualifiche funzionali dei ruoli di detti uffici, l’indennità che l’art. 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27, aveva istituito per i soli magistrati ordinari. Il fondamento logico giuridico di tale estensione va riscontrato – come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza – nei gravosi oneri incombenti sul personale addetto allo svolgimento delle relative attività.

La prevista indennità è stata invero ritenuta diretta non a compensare le prestazioni dei dipendenti nella struttura dell’organizzazione giudiziaria, ma solo a indennizzare il personale amministrativo delle cancellerie e segreterie giudiziarie per i compiti intensi e delicati svolti presso tali specifici uffici; anche se è stato ritenuto che l’indennità compete al personale indipendentemente dall’appartenenza ai ruoli dell’Amministrazione giudiziaria, purchè lo stesso garantisca in concreto i compiti assegnati a detti uffici (Cons. St. IV, n. 6162 del 20.11.2000; n. 3284 del 14.6.2002), e, quindi, anche al personale quivi comandato, distaccato, o comunque fuori ruolo, purchè effettivamente addetto ai servizi amministrativi (Cons. St, Sez. IV, n. 705 del 10.7.1997; n. 417 del 1.4.1996).

E’ stato ritenuto, cioè, di privilegiare il rapporto funzionale rispetto a quello formale di dipendenza organica dei dipendenti interessati, purchè le prestazioni fossero esattamente quelle previste e disciplinate dalle disposizioni di legge: vale a dire dalle disposizioni contenute nella legge 22 giugno 1988, n. 221, per il personale delle cancellerie e segreterie giudiziarie, e da quelle previste dalla legge 15 febbraio 1989, n. 51, per il “personale amministrativo del Consiglio di Stato e dei Tribunali amministrativi regionali, ecc. . . “; alle quali si è poi aggiunta la legge di interpretazione autentica 24 dicembre 1993, n. 537, attraverso cui il legislatore ha ritenuto di precisare che “Le disposizioni di cui all’art. 168 della legge 11 luglio 1980, n. 312, e alle leggi 22 giugno 1988, n. 221, e 15 febbraio 1989, n. 51, si intendono nel senso che si applicano al personale in esse espressamente previsto purchè in servizio presso amministrazioni contemplate dalle norme stesse”.

Le disposizioni che disciplinano l’indennità in questione individuano, quindi, in modo specifico i suoi destinatari, ed è preclusa, soprattutto in presenza della ricordata legge d’interpretazione autentica, ogni possibilità di estendere la loro applicazione oltre i casi definiti in forma tassativa.

In relazione a tali osservazioni, non può trovare fondamento la tesi sostenuta dagli attuali appellanti, i quali sostengono – come si è visto - che la richiamata legge non distingua tra dipendenti che prestano servizio nell’ambito dell’Amministrazione giudiziaria, e sussisterebbero, quindi, tutte le condizioni per riconoscere l’esistenza del diritto da loro rivendicato.

E’ utile ricordare che il personale appartenente alle sezioni di polizia giudiziaria trova concreta disciplina nel D. Lgs. 28 luglio 1989, n. 271, il quale con l’art. 5, comma 1, così statuisce: “Le sezioni di polizia giudiziaria sono composte dagli ufficiali e dagli agenti di Polizia giudiziaria della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri e del Corpo della Guardia di Finanza”. Tale stesso decreto ha altresì disciplinato lo stato giuridico e di carriera di detto personale, ed emerge, dalle sue disposizioni, che gli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria vengono assegnati alle sezioni di polizia giudiziaria istituite ai sensi dell’art. 58 del cod. proc. pen., esclusivamente per compiere la propria istituzionale attività di polizia giudiziaria, che consiste, secondo quanto previsto dall’art. 55 dello stesso codice, “nel prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale” (Cons. St., Sez. IV, n. 3738 del 5.7.2000).

Questa Sezione ha ripetutamente affermato, in casi analoghi, che tale peculiare attività, in quanto finalizzata a rendere possibile il promovimento dell’azione penale da parte del Pubblico Ministero, presuppone un’indispensabile collaborazione col magistrato inquirente, ma non è per nulla assimilabile all’attività svolta dal personale amministrativo delle cancellerie e segreterie giudiziarie (Cons. St., Sez. IV, n. 1412 del 20.2.2001; n. 4561 del 28.8.2001). In effetti, mentre quest’ultima rivela una valenza esclusivamente amministrativa, del tutto esterna ed estranea alla funzione giurisdizionale propriamente detta, l’attività investigativa e di ricerca delle prove, propria della polizia giudiziaria, è invece un’attività immediatamente propedeutica all’esercizio dell’azione penale (Cons. St., Sez. IV, n. 3738 del 5.7.2000).

E’ quindi evidente che l’attività delle Sezioni di polizia giudiziaria riguarda in modo diretto e immediato l’esercizio dell’azione penale, e non influenza il funzionamento dell’apparato amministrativo della giustizia, cui attende il personale amministrativo delle cancellerie e delle segreterie giudiziarie.

Le due attività hanno funzione e natura del tutto diverse e non sono per nulla assimilabili tra loro.

Ne consegue che l’indennità prevista dalla legge 22 giugno 1988, n. 221, non può ritenersi riferita anche agli agenti e agli ufficiali di polizia giudiziaria assegnati presso le sezioni di polizia giudiziaria, alla cui soluzione si oppongono, peraltro, le precisazioni che il legislatore ha inteso dettare con la legge d’interpretazione autentica 24 dicembre 1993, n. 537.

3 - Le ulteriori censure sollevate dagli appellanti restano assorbite nelle osservazioni già svolte. Per una completa trattazione delle questioni esposte nel gravame, merita, tuttavia, di essere considerato anche il rilievo secondo cui la cosiddetta indennità “d’istituto” - di cui i medesimi sono in godimento - non sarebbe d’ostacolo all’attribuzione dell’indennità in questione, da un canto perché questa sarebbe superiore all’indennità goduta dagli altri dipendenti pubblici, dall’altro perché d’importo esattamente commisurato alla somma del compenso incentivante e dell’indennità giudiziaria.

Anche tali rilievi sono infondati.

Le osservazioni in precedenza evidenziate già dimostrano le intrinseche ragioni d’incompatibilità tra le indennità di cui trattasi, che poggiano su presupposti diversi e hanno la loro

fonte in disposizioni che rivelano una diversa ratio. Ragione per cui, se l’attività svolta da un dipendente trova ristoro nell’attribuzione di una determinata indennità, automaticamente ne consegue l’esclusione dell’altra. La questione, in ogni caso, trova definitiva soluzione con l’art. 3, comma 63, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, che ha esplicitamente previsto il divieto di cumulo delle indennità erogate ai pubblici dipendenti a far data dal 1° gennaio 1994. E’ indubbio, quindi, che spetta a ciascun dipendente soltanto l’indennità pertinente all’attività accessoria legata alla specifica prestazione di lavoro in concreto svolta, con impossibilità di cumulo di diverse indennità (Cons. St., Sez. IV, n. 5511 del 17.10.2000).

Per le considerazioni su esposte, l’appello si appalesa infondato e merita di essere respinto.

Le spese seguono la regola della soccombenza e si liquidano nel dispositivo.
 


P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione quarta, definitivamente pronunciando sul ricorso specificato in epigrafe, respinge l’appello.

Condanna gli appellanti a pagare in favore delle Amministrazioni intimate le spese del giudizio, che liquida complessivamente in € 3.000,00 (tremila/00).
 


Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma il 3 giugno 2003, dalla IV Sezione del Consiglio di Stato, riunita in camera di consiglio con l’intervento dei seguenti signori:

Stenio RICCIO Presidente
Dedi RULLI Consigliere
Aldo SCOLA Consigliere
Giuseppe CARINCI Consigliere, estensore
Vito POLI Consigliere

L’ESTENSORE
IL PRESIDENTE

Depositata in segreteria in data 10 novembre 2003.