LA CORTE COSTITUZIONALE(…)
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 688, secondo
comma, del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 6 febbraio 2001
dal Tribunale di Venezia, sezione distaccata di Portogruaro, in
composizione monocratica, iscritta al n. 55 del registro ordinanze 2002 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie
speciale, dell’anno 2002.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 5 giugno 2002 il Giudice relatore
Carlo Mezzanotte.
Ritenuto in fatto
1. Nel corso di un procedimento penale a carico di un imputato del
reato di cui all’articolo 688, secondo comma, del codice penale, il
Tribunale di Venezia, sezione distaccata di Portogruaro, in composizione
monocratica, con ordinanza in data 6 febbraio 2001, ha sollevato, su
eccezione della difesa, in riferimento agli articoli 3, 25, secondo comma,
e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale del citato articolo 688, secondo comma, del codice penale,
nella parte in cui punisce con la pena dell’arresto da tre a sei mesi
chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, è colto in stato di
manifesta ubriachezza, se il fatto è commesso da chi ha già riportato una
condanna per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità
individuale.
Il remittente, individuata la ratio dell’articolo 688 del codice
penale, nella sua originaria formulazione, nella esigenza di tutelare la
sicurezza sociale attraverso la prevenzione dell’alcolismo quale causa di
disordini e reati, e rilevato che si tratta di fattispecie inquadrabile
tra i cosiddetti reati "ostativi", osserva che soggetto attivo del reato
di cui al previgente articolo 688, primo comma, cod. pen. poteva essere
chiunque si trovasse in luogo pubblico o aperto al pubblico in stato di
manifesta ubriachezza. Conseguentemente tale stato era considerato, da un
lato, elemento disturbante e in qualche modo lesivo di un interesse
pubblico e, dall’altro, sintomo di pericolosità sociale, non essendo
l’ubriaco in grado di controllare le proprie azioni. L’alcolismo, quindi,
inteso come status personale, aveva rilevanza penale sotto due aspetti, e
cioè come fattore pregiudizievole per la salute individuale e collettiva e
come fattore criminogeno, avendo l’assunzione di alcol valore scatenante e
favorendo la genesi di determinati comportamenti criminali.
Su queste premesse, secondo il giudice a quo, non avrebbe senso
ritenere che lo stato di ubriachezza, sotto l’aspetto punitivo, rilevi
soltanto per una certa categoria di soggetti, individuata peraltro in base
ad elementi meramente statistici, in quanto la probabilità che un soggetto
non compos sui (come colui che si trova in stato di ubriachezza) commetta
un reato più grave sarebbe identica tanto nel caso in cui egli sia
incensurato quanto se sia pregiudicato, tanto più in caso di condanna
molto risalente nel tempo o relativa a reato di non rilevante gravità.
Il remittente osserva che considerazioni analoghe sarebbero state fatte
da questa Corte in riferimento alla fattispecie di cui all’articolo 708
del codice penale, disposizione che puniva il possesso ingiustificato di
valori solo con riferimento ai soggetti già condannati per delitti
determinati da motivi di lucro e che è stata dichiarata costituzionalmente
illegittima con la sentenza n. 370 del 1996.
In definitiva, ad avviso del giudice a quo, avendo il legislatore
ritenuto che lo stato di ubriachezza non assuma rilevanza penale autonoma,
ma sia sufficiente la sua punibilità sotto l’aspetto amministrativo, la
disposizione di cui al secondo comma dell’articolo 688 del codice penale
non avrebbe più ragion d’essere, in quanto introdurrebbe ex novo una
fattispecie penale in cui l’elemento costitutivo fondamentale non sarebbe
più considerato fatto punibile e la punibilità deriverebbe invece da
elementi e presupposti del tutto estranei al momento e alle condizioni
concrete in cui un determinato comportamento (penalmente irrilevante) è
stato posto in essere. Sotto tale profilo sarebbe, quindi, evidente
l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata "sia per la
disparità di trattamento che introduce, sia sotto il profilo strettamente
logico-giuridico, in omaggio ai principî di legalità, offensività e
materialità della legge penale".
2. Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto
che la questione sia dichiarata non fondata.
La difesa erariale premette che argomentazioni a favore della
legittimità costituzionale della disposizione censurata possono ricavarsi
proprio dalla sentenza n. 370 del 1996, richiamata dal remittente, in
quanto se è vero che in questa decisione la Corte ha dichiarato
l’illegittimità dell’articolo 708 del codice penale, ritenendo, tra
l’altro, irragionevole la discriminazione operata dal legislatore nei
confronti di una categoria di soggetti, è anche vero che nella stessa
pronuncia è stata affermata la legittimità costituzionale dell’articolo
707 dello stesso codice, norma in cui la condotta (possesso ingiustificato
di chiavi alterate o di grimaldelli) assume rilevanza penale solo se posta
in essere da soggetto condannato per delitti determinati da motivi di
lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro
il patrimonio.
Conseguentemente, ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, da un’attenta
lettura della sentenza citata non potrebbe ricavarsi un generale principio
inteso a ritenere sempre e comunque irragionevole la discriminazione
operata dal legislatore nei confronti di una categoria di soggetti ai fini
della rilevanza penale dell’ipotesi di reato.
La disposizione censurata, quindi, secondo la difesa erariale, pur
discriminando soggetti incensurati da quelli già condannati per delitto
non colposo contro la vita o l’incolumità individuale, sarebbe conforme al
canone della ragionevolezza: la contravvenzione prevista dall’articolo
688, secondo comma, del codice penale, come tutti i reati "ostativi",
sarebbe diretta a prevenire il compimento di azioni lesive e la
pericolosità del soggetto pregiudicato, quale si evince dalle precedenti
condanne riportate, caratterizzerebbe la fattispecie al punto da indurre
il legislatore a costruire su di essa il passaggio dalla tutela
amministrativa a quella penale.
Considerato in diritto
1. Il Tribunale di Venezia, sezione distaccata di Portogruaro, in
composizione monocratica, dubita della legittimità costituzionale
dell’articolo 688, secondo comma, del codice penale, nella parte in cui
punisce con la pena dell’arresto da tre a sei mesi chiunque, in un luogo
pubblico o aperto al pubblico, è colto in stato di manifesta ubriachezza,
se il fatto è commesso da chi ha già riportato una condanna per delitto
non colposo contro la vita o l’incolumità individuale.
Ad avviso del remittente, la disposizione censurata violerebbe
l’articolo 3 della Costituzione, in quanto, a seguito della
depenalizzazione del reato previsto dall’articolo 688, primo comma, del
codice penale, attuata con l’articolo 54 del decreto legislativo 30
dicembre 1999, n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del
sistema sanzionatorio, ai sensi dell’articolo 1 della legge 25 giugno
1999, n. 205), l’essere colto in stato di ubriachezza in un luogo pubblico
o aperto al pubblico assumerebbe rilevanza penale solo se l’autore abbia
riportato precedenti condanne per delitto non colposo contro la vita o
l’incolumità individuale. La norma incriminatrice sarebbe viziata da
irragionevolezza, giacché un medesimo fatto, in presenza di esigenze non
dissimili di tutela della sicurezza sociale attraverso la prevenzione
dell’alcolismo, rileverebbe sotto l’aspetto penale soltanto per una
particolare categoria di soggetti, quelli cioè che abbiano riportato una
condanna per delitto non colposo contro la vita e l’incolumità
individuale.
Inoltre la disposizione impugnata introdurrebbe una figura di reato in
cui la punibilità non riguarderebbe il fatto in sé, ma deriverebbe da
elementi a questo estranei. Ciò comporterebbe la violazione dei "principi
di legalità, offensività e materialità della legge penale", riconducibili
all’articolo 25, secondo comma, Cost., nonché del principio, affermato
dall’articolo 27, terzo comma, secondo il quale le pene devono tendere
alla rieducazione del condannato.
2. La questione è fondata.
L’articolo 688 del codice penale, nella sua formulazione originaria,
puniva con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda da lire ventimila a
quattrocentomila chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico,
fosse colto in stato di manifesta ubriachezza (comma primo). La pena era,
invece, dell’arresto da tre a sei mesi se il fatto era commesso da chi
aveva già riportato una condanna per delitto non colposo contro la vita o
l’incolumità individuale (comma secondo).
Della aggravante speciale (tale era pacificamente considerata dalla
giurisprudenza di merito e di legittimità) prevista dal secondo comma,
questa Corte ha già avuto modo di occuparsi. La figura di reato constava
di una ipotesi base e di una aggravante: non vi era pertanto alcuna
difficoltà a riconoscere la non irragionevolezza della previsione secondo
la quale colui che venisse colto in stato di manifesta ubriachezza in
luogo pubblico o aperto al pubblico e avesse già subito una condanna per
delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale dovesse
soggiacere ad una pena più elevata. La valutazione in termini di maggiore
pericolosità della condotta della persona colta in stato di manifesta
ubriachezza che avesse riportato una condanna per quei determinati delitti
non era infatti priva di fondamento giustificativo (ordinanze n. 53 del
1972; n. 185 e n. 155 del 1971).
A seguito della depenalizzazione del reato previsto dal primo comma
dell’articolo 688 del codice penale, il quadro normativo al quale quelle
pronunce si erano attenute è profondamente mutato. Quella che per
l’innanzi era una aggravante, attualmente non è più riferita ad un reato
base ed è divenuta essa medesima una autonoma fattispecie di reato:
incorre, infatti, nel reato di ubriachezza solo chi in passato abbia
riportato condanna per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità
delle persone; chi invece tale condanna non abbia subito, anche se è stato
condannato per reati di non minore gravità, risponde per quel medesimo
comportamento soltanto a titolo di illecito amministrativo.
L’operazione compiuta dal legislatore del 1999, in breve, era intesa a
rendere più lieve la posizione della persona colta in stato di manifesta
ubriachezza in luogo pubblico o aperto al pubblico. Nella relazione
governativa al decreto legislativo n. 507 del 1999 la ratio della
disciplina emerge con inequivoca chiarezza: trasformare in illeciti
amministrativi una serie di reati eterogenei quanto ad oggettività
giuridica e modalità di condotta, "il cui unico comune denominatore è
rappresentato dall’esiguo spessore sanzionatorio". Nel trasporre sul piano
amministrativo la risposta sanzionatoria in modo da ridurre l’area del
diritto penale e sollevare così gli uffici giudiziari da oneri impropri,
si intendeva altresì "evitare di "rivitalizzare" talune fattispecie che a
causa del loro evidente anacronismo trovano oggi una applicazione assai
limitata".
Se questo era il fine perseguito dal legislatore del 1999, con
riferimento al reato di ubriachezza, emerge una intrinseca irrazionalità
della disciplina censurata in quanto il risultato non è stato unicamente
la depenalizzazione del reato base, ma anche l’eventuale trattamento
sanzionatorio più severo a carico di chi abbia riportato condanne per
delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale.
Infatti, nella prospettiva dell’aggravante speciale, entro la quale si
manteneva la vecchia previsione del secondo comma dell’articolo 688, il
giudice ben avrebbe potuto, in applicazione dell’articolo 69 del codice
penale, bilanciare tale aggravante con eventuali circostanze attenuanti
rinvenibili nel concreto atteggiarsi della fattispecie e, una volta
rimossa l’aggravante e reso così applicabile il reato base di cui al primo
comma, irrogare nelle ipotesi più lievi la sola ammenda, prevista come
pena alternativa. Nel sistema attuale la possibilità di commisurare la
pena all’effettivo disvalore del fatto è fortemente limitata: in effetti,
il secondo comma dell’art. 688 del codice penale non costituisce più una
circostanza aggravante, ma configura un reato autonomo, sicché non può più
parlarsi di bilanciamento con eventuali circostanze attenuanti, le quali,
ove ravvisabili, possono determinare un abbattimento del minimo edittale,
ma non esimere il giudice dall’applicare comunque la pena dell’arresto.
3. Oltre ad avere trasformato una semplice circostanza aggravante in
elemento costitutivo del reato, ciò che comporta, nel caso
dell’ubriachezza, la rilevata incongruenza, la disposizione censurata è
affetta dagli ulteriori vizi, anch’essi denunciati dal remittente,
derivanti dalla violazione dei principî costituzionali di legalità della
pena e di orientamento della pena stessa all’emenda del condannato, ai
quali, in base agli articoli 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della
Costituzione, deve attenersi la legislazione penale.
L’avere riportato una precedente condanna per delitto non colposo
contro la vita o l’incolumità individuale, pur essendo evenienza del tutto
estranea al fatto-reato, rende punibile una condotta che, se posta in
essere da qualsiasi altro soggetto, non assume alcun disvalore sul piano
penale. Divenuta elemento costitutivo del reato di ubriachezza, la
precedente condanna assume le fattezze di un marchio, che nulla il
condannato potrebbe fare per cancellare e che vale a qualificare una
condotta che, ove posta in essere da ogni altra persona, non
configurerebbe illecito penale. Il fatto poi che il precedente penale che
qui viene in rilievo sia privo di una correlazione necessaria con lo stato
di ubriachezza rende chiaro che la norma incriminatrice, al di là
dell’intento del legislatore, finisce col punire non tanto l’ubriachezza
in sé, quanto una qualità personale del soggetto che dovesse incorrere
nella contravvenzione di cui all’articolo 688 del codice penale. Una
contravvenzione che assumerebbe, quindi, i tratti di una sorta di reato
d’autore, in aperta violazione del principio di offensività del reato, che
nella sua accezione astratta costituisce un limite alla discrezionalità
legislativa in materia penale posto sotto il presidio di questa Corte
(sentenze n. 263 del 2000 e n. 360 del 1995). Tale limite, desumibile
dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione, nel suo legame
sistematico con l’insieme dei valori connessi alla dignità umana, opera in
questo caso nel senso di impedire che la qualità di condannato per
determinati delitti possa trasformare in reato fatti che per la generalità
dei soggetti non costituiscono illecito penale.
Sotto un concorrente profilo, infine, la disposizione censurata, nel
trasformare irragionevolmente in elementi costitutivi del reato di
ubriachezza fatti per i quali è già intervenuta una condanna irrevocabile,
vanifica la finalità rieducativa che l’articolo 27, terzo comma, della
Costituzione assegna alla pena.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 688, secondo
comma, del codice penale.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo
della Consulta, il 10 luglio 2002.
F.to:
Cesare RUPERTO, Presidente
Carlo MEZZANOTTE, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 17 luglio 2002.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA