RAFFAELE SQUEGLIA

La dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 4 comma 2 della legge 27.3.2001 n. 97: brevi spunti sul tema del termine di efficacia della sospensione cautelare dal servizio del pubblico dipendente.

(note a margine di Corte Cost., sentenza 3 maggio 2002 n. 145- presente a fondo pagina )

1. La decisione della Corte Costituzionale n. 145/2002 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 comma 2 della legge 27.3.2001 n. 97, nella parte in cui dispone che la sospensione cautelare dal servizio perde efficacia decorso un periodo pari a quello di prescrizione del reato.

Condividendo la perplessità espressa dal giudice a quo, la Consulta sottolinea che è manifestamente eccessiva la durata di una misura cautelare la cui estensione temporale può essere persino ultradecennale.

Per tale ultimo motivo, essa non appare rispettosa di un corretto bilanciamento degli interessi tra l’esigenza cautelare, propria della P.A., e quella di non comprimere eccessivamente l’interesse a rendere la prestazione lavorativa da parte del dipendente.

Nel dichiarare l’illegittimità della norma de quo, con argomentazione articolata ed ineccepibile, la Corte chiarisce che l’individuazione di un termine di efficacia coincidente con quello di prescrizione del reato genera un duplice ordine di problemi.

Per un verso, pone notevoli difficoltà operative alle singole Amministrazioni, essendo sottese all’individuazione del termine prescrizionale del reato "valutazioni che solo l’autorità giudiziaria può compiere".

Per altro verso, tale meccanismo fa sì che la cessazione della misura cautelare non si ricolleghi al decorso di un determinato arco temporale (vale a dire ad un termine in senso proprio), bensì al verificarsi di un fatto (prescrizione del reato), tale da determinare il "venir meno, insieme al reato, di qualsiasi esigenza cautelare ad esso connessa."

La carenza del termine di efficacia della misura cautelare, intervenuta a seguito della sentenza della Corte Costituzionale di cui sopra, non comporta però l’illegittimità dell’ipotesi di sospensione di cui al comma 1 del medesimo art. 4. Ad essa infatti si applica il termine di durata di cui alla legge n° 19/90, art. 9 comma 2, che prevede, com'è noto, la perdita di efficacia della sospensione cautelare dal servizio a causa di procedimento penale decorso un termine massimo di cinque anni.

Tale disposizione si riferisce, secondo l’autorevole avviso già espresso nella sentenza della Corte Costituzionale n. 206/99 - con la quale fu dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.15 comma 4 septies della legge 55/90 - a tutti i provvedimenti di sospensione dal servizio a causa del procedimento penale, sia facoltativi sia obbligatori.

2. L’art. 9 comma 2 della legge 19/90 ora citato, fu sottoposto a giudizio di costituzionalità, promosso dal Consiglio di Stato nel 1994, per contrasto con gli articoli 3, 4 e 97 della Costituzione nella parte in cui dispone la revoca di diritto della sospensione (ex art. 91 D.P.R. n°3/57, nella fattispecie esaminata della Consulta) decorso il termine quinquennale.

Ad avviso del giudice rimettente, la previsione di cui al citato art. 9 comma 2 comporterebbe, tra l’altro, "un rigido automatismo (in favore del dipendente inquisito) che fa sorgere dubbi di legittimità costituzionale della norma per irragionevolezza laddove essa pone sul medesimo piano tutti i tipi di reato senza differenziarli secondo la loro gravità."

La Corte Costituzionale, con sentenza n° 447/95, dichiarò l’infondatezza della dedotta questione di legittimità. Infatti, pur "perdurando, (…) l’esigenza cautelare di non riammettere in servizio il dipendente in ragione della particolare gravità e dell’irrimediabile pregiudizio che all’attività dell’ente pubblico, datore di lavoro, deriverebbe dalla seppur condizionata riattivazione del rapporto di impiego, (…) la sopravvenuta inefficacia di diritto della sospensione cautelare adottata ex art. 91 – proprio perché si fonda su un presupposto autonomo e diverso da quello della sospensione c.d. facoltativa di cui all’art. 92 – non esclude né preclude il ricorso a quest’ultima come strumento alternativo di cautela delle ragioni dell’Amministrazione."

Ad avviso della Corte "è cioè possibile che, pur decorso il termine quinquennale suddetto, sussistano "gravi motivi" che, ancorché non sia esaurito il procedimento penale, giustifichino la perdurante (ma non ancora definitiva) estromissione del dipendente dal posto di lavoro, motivi che non possono consistere più nel mero dato formale dell’imputazione penale, ma possono (e debbono) riguardare la commissione dell’addebito disciplinare".

Conclude, infine, evidenziando che il descritto meccanismo, oltre a garantire le ragioni dell’amministrazione ed in particolare le sue esigenze di buon andamento, consente altresì al dipendente sospeso di impugnare eventualmente il provvedimento, sotto il profilo dell'insussistenza dei gravi motivi posti a fondamento dello stesso o di chiederne la revoca, nell'ipotesi un cui possa essere rilevata la cessazione dei gravi motivi.

3. Sembra quindi potersi desumere, dall’esame della decisione n. 447/95, che la legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2°, della legge 19/90 fosse legata al permanere, in capo all’Amministrazione, di uno strumento di tutela, qual è l’art. 92 del D.P.R. n° 3/57, che consentiva la protrazione dello stato di sospensione oltre il quinquennio.

Ferme restando le considerazioni sin qui formulate, non può però sfuggire che il quadro normativo di riferimento del pubblico impiego sia nel frattempo notevolmente mutato, incidendo in maniera significativa anche sulla materia in esame.

Di particolare rilievo, per il tema che occupa, è la disapplicazione - da parte dei contratti collettivi e dei decreti legislativi 29/93 prima e 165/01 poi - delle previgenti norme in materia di pubblico impiego, tra le quali figura l’art. 92 del D.P.R. n.  3/57.

La disapplicazione di tale ultima norma è esplicita per quanto concerne il comparto Ministeri, ex art. 43 del CCNL 94/97, nonché ai sensi dall’allegato A di cui all’art. 71 comma 1 del D.lvo 165/01.

Tale disapplicazione non è altrettanto espressa invece per quanto riguarda il comparto Regioni – Autonomie Locali, per il quale non può comunque escludersi che essa si sia verificata in via implicita.

Venuto meno, così, lo strumento giuridico offerto dall’art. 92 del D.P.R. n. 3/57 per il prolungamento della sospensione oltre il termine di cinque anni, la questione della legittimità costituzionale dell’art. 9 comma 2, nei termini di cui alla sentenza n. 447/95, sembra riacquistare particolare rilevanza.

Ciò in quanto non sembra rinvenirsi una norma di contenuto analogo al più volte citato art. 92 nella disciplina prevista dalla legge 97/2001 e dal CCNL Ministeri 1994/97 e tuttora vigente in parte qua.

Analoga riflessione, ovviamente, potrebbe formularsi per quanto concerne il comparto Regioni – Autonomie Locali, ove si addivenisse al convincimento della tacita disapplicazione, anche per quest’ultimo, dell’art. 92.

L’art. 27 del citato CCNL, infatti, prevede quattro distinte ipotesi di sospensione - facoltative ed obbligatorie - dipendenti da procedimento penale e per questo rientranti pienamente nella sfera applicativa dell’art. 9 comma 2 della legge 19/90.

Nemmeno soccorre allo scopo la previsione di cui all’art. 26, concernente un’ipotesi di sospensione cautelare in corso di procedimento disciplinare esclusivamente strumentale all’espletamento di accertamenti sui fatti addebitati al dipendente.

Per tale peculiare caratteristica, la norma in parola non è assimilabile, nella ratio, alla previsione di cui all’art. 92 del D.P.R. n° 3/57. Per di più, la sospensione ex art. 26 è limitata, nella durata massima, a soli 30 giorni e tale breve periodo trascorso in sospensione cautelare, computabile ai fini dell’anzianità di servizio, deve essere interamente retribuito al dipendente oggetto del provvedimento di allontanamento cautelativo.

Nessuna ipotesi di sospensione per gravi motivi è individuabile nella legge 97/2001, che prevede all’art. 4 solo fattispecie riconnesse a condanna penale per determinate tipologie di reato.

Analoga riflessione può svolgersi per quanto attiene al d. lvo. 267/2000 (T.U. degli Enti Locali) che all’art. 94 prevede, per i dipendenti degli Enti Locali, casi di sospensione cautelare anch’essi riconducibili a procedimento penale.

In un contesto normativo che, come si è visto, presenta non pochi elementi di incertezza, sarebbe auspicabile, da parte del legislatore, un ulteriore intervento atto a chiarire il tema specifico del termine di efficacia della sospensione cautelare.

Di tale esigenza si rende autorevolmente interprete la stessa Corte Costituzionale nella sentenza n. 145/2002, laddove ribadisce "la possibilità che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità ed entro i limiti di ragionevolezza e proporzionalità individuati da questa Corte, disciplini nuovamente la materia, anche fissando termini massimi eventualmente differenti rispetto a quello di cui al citato art. 9 della legge n°19 del 1990 ovvero modulati in relazione alla gravità del reato ed alla fase del procedimento."

SENTENZA N.145

ANNO 2002

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Massimo VARI Presidente

- Riccardo CHIEPPA Giudice

- Gustavo ZAGREBELSKY "

- Valerio ONIDA "

- Carlo MEZZANOTTE "

- Guido NEPPI MODONA "

- Piero Alberto CAPOTOSTI "

- Annibale MARINI "

- Franco BILE "

- Giovanni Maria FLICK "

- Francesco AMIRANTE "

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), promossi con ordinanze emesse il 13 giugno 2001, il 4 luglio 2001 e l’8 agosto 2001 dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania, rispettivamente iscritte ai numeri 699, 778 e 949 del registro ordinanze 2001 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 38, 40 e 49, prima serie speciale, dell’anno 2001.

Visti gli atti di costituzione di Falvo Sergio nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e di Calabrese Francesca;

udito nell’udienza pubblica del 12 marzo 2002 il Giudice relatore Annibale Marini;

uditi gli avvocati Giovanni Di Gioia per Falvo Sergio, Luca Verrienti per Calabrese Francesca e l’avvocato dello Stato Gaetano Zotta per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1.- Con tre ordinanze, sostanzialmente identiche, emesse il 13 giugno 2001, il 4 luglio 2001 e l’8 agosto 2001, il Tribunale amministrativo regionale per la Campania ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 27, 35, 36 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1 e 2, della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche). La disposizione impugnata stabilisce che i dipendenti di amministrazioni o di enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica, i quali abbiano riportato condanna anche non definitiva per alcuno dei delitti previsti dall’articolo 3, comma 1, della precitata legge n. 97 del 2001, sono sospesi dal servizio e che la sospensione perde efficacia se per il fatto sia successivamente pronunciata sentenza di proscioglimento o di assoluzione anche non definitiva e in ogni caso decorso un periodo di tempo pari a quello di prescrizione del reato.

La questione é detta rilevante nei tre giudizi, avendo questi ad oggetto domande di annullamento di provvedimenti di sospensione cautelare dal servizio adottati dall’amministrazione di appartenenza, ai sensi della norma denunciata, a seguito di condanne non definitive inflitte ai ricorrenti per taluno dei reati indicati nella norma stessa.

Il dubbio di costituzionalità della norma di cui al comma 1 si incentra essenzialmente, ad avviso del rimettente, sulla "ragionevolezza del bilanciamento operato dal legislatore tra le esigenze di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione e la tutela dei diritti compressi dalla misura cautelare".

Il rimettente afferma di non ignorare che la Corte costituzionale si é già espressa in argomento con la sentenza n. 206 del 1999, dichiarando non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 4-septies, della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale). Si dice altresì consapevole del fatto che, con la norma denunciata, si é inteso proprio reinserire nel sistema una disposizione analoga a quella di cui al predetto art. 15 della legge n. 55 del 1990, nel frattempo abrogato dal decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali).

Assume, peraltro, che la sentenza n. 206 del 1999 riguarderebbe esclusivamente la legittimità costituzionale della previsione di sospensione automatica dal servizio nell’ipotesi di condanna (recte: rinvio a giudizio) per reato associativo di stampo mafioso e che la motivazione della sentenza sarebbe incentrata solo sulla particolare gravità di quel reato, mentre, per ogni altro caso, la previsione di una misura cautelare automatica per il dipendente pubblico condannato con sentenza non definitiva dovrebbe ritenersi contrastante con il principio di ragionevolezza.

Aggiunge il rimettente, in via evidentemente subordinata, che la Corte "dovrà inoltre valutare se la discrezionalità del legislatore nel determinare per legge il periodo di sospensione dal servizio sia stata razionalmente esplicata nell’art. 4 della legge n. 97/2001 ove, come già notato, la sospensione si rapporta ad un periodo di tempo, pari a quello di prescrizione del reato, e perciò di durata quanto mai lunga, tanto da dubitarsi che la stessa abbia il carattere di provvedimento fondato su "esigenze cautelari"".

 

2.- Si é costituito nel primo dei tre giudizi il ricorrente Sergio Falvo, il quale ha concluso per la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma impugnata, "nella parte in cui dispone l’obbligatoria sospensione dal servizio per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche condannati con sentenza non definitiva per i delitti richiamati nella stessa norma, per contrasto con gli artt. 3, 4, 24, 27, 33, 35, 36 e 97 della Costituzione".

Assume la parte privata che la sospensione de qua costituirebbe, in realtà, non una misura cautelare, ma una sanzione anticipata, in quanto per sua natura disposta a notevole distanza di tempo dal fatto, in base al dato meramente formale della pronunzia giudiziale e senza alcuna possibilità di valutare l’effettiva ricorrenza di esigenze cautelari e la congruità, rispetto a queste, della misura stessa.

La previsione della sospensione in esame contrasterebbe perciò con i principi di ragionevolezza e proporzionalità, di cui all’art. 3 della Costituzione, nonchè – per il rigido automatismo che la caratterizza - con quelli di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, garantiti dall’art. 97 della Costituzione.

Per il suo carattere anticipatamente afflittivo essa si porrebbe, inoltre, in contrasto con la presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27, secondo comma, della Costituzione, nonchè con i diritti del lavoratore tutelati dagli artt. 4, 35 e 36 della Costituzione.

Afferma la parte privata di non ignorare che il legislatore ha la facoltà, espressamente riconosciutagli dalla sentenza di questa Corte n. 206 del 1999, di identificare ipotesi circoscritte, nelle quali l’esigenza cautelare che fonda la sospensione può essere apprezzata in via generale ed astratta dalla stessa legge. Ma, aggiunge che nella circostanza si trattava di vere e proprie misure cautelari previste in relazione a delitti di criminalità organizzata, tali cioé da far sorgere il sospetto di un inquinamento dell’apparato pubblico da parte di organizzazioni criminali e rendere perciò necessaria l’adozione di provvedimenti idonei ad escludere anche solo l’apparenza di simili infiltrazioni.

Nel caso disciplinato dalla norma censurata non sussisterebbe, invece, ragione alcuna per privare l’amministrazione del potere di valutare discrezionalmente l’esigenza di disporre la sospensione dal servizio e, pertanto, la norma stessa, comportando un ingiustificato sacrificio dei diritti del singolo, sarebbe costituzionalmente illegittima.

L’automatismo della misura cautelare contrasterebbe, sotto altro aspetto, anche con l’art. 24 Cost., in quanto priverebbe il dipendente pubblico del potere di far valere concretamente le proprie ragioni, in sede amministrativa e giurisdizionale, contro il provvedimento di sospensione dal servizio.

 

3.- E’ intervenuto nei tre giudizi, con memorie di analogo contenuto, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la declaratoria di non fondatezza della questione.

La parte pubblica, affermata la natura cautelare del provvedimento di sospensione previsto dalla norma impugnata, rileva come la legge n. 97 del 2001 rappresenti l’epilogo del processo di revisione operato in tema di responsabilità penale per fatti che ledono l’interesse dello Stato al regolare, proficuo svolgimento dell’attività della pubblica amministrazione.

Il legislatore si sarebbe mosso, nell’occasione, lungo due direttive: l’una finalizzata a potenziare la risposta punitiva dello Stato di fronte alle condotte illecite poste in essere dai soggetti rivestiti di funzioni pubbliche, nell’esercizio delle stesse; l’altra intesa a limitare l’area di sindacato discrezionale delle pubbliche amministrazioni nell’adozione di misure cautelari, limitatamente a quelle fattispecie di reato atte ad incidere sul raggiungimento degli scopi propri dell’attività amministrativa.

In tale ottica sarebbe stata dunque prevista la sospensione ope legis dal servizio, in riferimento a quei delitti per i quali la semplice sussistenza di un’accusa in capo ai pubblici impiegati fa sorgere nell’opinione pubblica il sospetto di inquinamento dell’intero apparato, così da eliminare il rischio di condizionamenti dell’Amministrazione che potrebbero alterarne le valutazioni ed evitare al tempo stesso le possibili disparità di trattamento conseguenti al diverso atteggiamento delle amministrazioni di appartenenza.

Premesso che la norma censurata – diversamente dall’art. 15, comma 4-septies, della legge n. 55 del 1990, oggetto della sentenza n. 206 del 1999 – opera non già a seguito del semplice rinvio a giudizio del dipendente, bensì solo in presenza di una pronuncia di condanna, ancorchè non definitiva, l’Avvocatura sostiene innanzitutto l’infondatezza della censura riferita all’art. 27 Cost., in quanto tutte le misure cautelari sarebbero destinate per loro natura ad operare prima dell’accertamento definitivo di colpevolezza.

La norma impugnata non contrasterebbe, sotto altro aspetto, con il canone di ragionevolezza, in quanto un accertamento di responsabilità penale del pubblico dipendente, anche se non definitivo, sarebbe senz’altro idoneo ad incrinare il rapporto di fiducia che dovrebbe esistere tra lo Stato ed i cittadini. Nè d’altro canto potrebbe ravvisarsi sproporzione tra la situazione tutelata e la misura cautelare della sospensione dal servizio, prevista dalla norma stessa.

Privo di pregio – ad avviso ancora della parte pubblica - sarebbe poi il riferimento all’art. 24 Cost., in quanto il diritto di difesa, costituzionalmente garantito, riguarderebbe la possibilità effettiva di far valere in giudizio le proprie situazioni giuridicamente protette ma non l’esistenza ed il contenuto di queste ultime, cosicchè non potrebbe essere invocato quando manchi la situazione di diritto sostanziale che si vorrebbe tutelare.

L’esclusione di qualsiasi discrezionalità in capo all’amministrazione nell’adozione del provvedimento non comporterebbe poi alcuna lesione del principio di buon andamento dell’amministrazione, tutelato dall’art. 97 dela Costituzione. Assume infatti l’Avvocatura che non potrebbe negarsi al legislatore, nell’esercizio di una non irragionevole discrezionalità, la facoltà di identificare ipotesi circoscritte nelle quali l’esigenza cautelare che fonda la sospensione é apprezzata in via generale ed astratta dalla stessa legge unitamente all’opportunità di far prevalere l’esigenza cautelare su altri eventuali interessi della stessa amministrazione.

I parametri evocati dal rimettente non risulterebbero, infine, lesi dalla norma impugnata nemmeno nella parte in cui questa fissa la durata massima della sospensione fino al termine della prescrizione del reato. La disposizione censurata, infatti, risulterebbe in linea con quella previgente, che, nello stabilire la cessazione di efficacia dei provvedimenti di sospensione cautelare alla scadenza del quinquennio, non avrebbe comportato l’automatica riassunzione in servizio del dipendente non essendo esclusa nè preclusa l’adozione del distinto provvedimento di sospensione cautelare facoltativa previsto dalla legge n. 833 del 1961, concernente lo stato giuridico dei finanzieri.

 

4.- Con atto depositato il 28 febbraio 2002 é intervenuta nel giudizio Francesca Calabrese "in adesione all’atto di costituzione [...] di Falvo Sergio del 19 ottobre 2001".

La Calabrese, premesso di essere stata a sua volta colpita da provvedimento di sospensione dal servizio ai sensi della norma impugnata, ritiene di essere titolare di un interesse diretto ed individualizzato tale da giustificare il suo intervento nel presente giudizio, pur non essendo parte in nessuno dei giudizi a quibus.

 

5.- Con ordinanza emessa all’udienza pubblica del 12 marzo 2002 é stata dichiarata l’inammissibilità dell’intervento spiegato dalla Calabrese.

 

Considerato in diritto

 

1.- Il Tribunale amministrativo regionale per la Campania, con tre distinte ordinanze, dubita, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 27, 35, 36 e 97 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), secondo cui i dipendenti pubblici, in caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti previsti dagli artt. 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter e 320 del codice penale e dall’art. 3 della legge 9 dicembre 1941, n. 1383, sono sospesi dal servizio e la sospensione perde efficacia se per il fatto é successivamente pronunciata sentenza di proscioglimento o di assoluzione anche non definitiva ed in ogni caso decorso un periodo di tempo pari a quello di prescrizione del reato.

Il rimettente solleva in effetti due distinte questioni.

La censura formulata in via principale si riferisce al comma 1 della norma impugnata e – nonostante i numerosi parametri evocati – riguarda in realtà l’esclusivo profilo rappresentato dal non ragionevole bilanciamento che la disposizione, per il suo rigido automatismo, opererebbe tra le esigenze di buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione e la tutela dei diritti del dipendente, compressi dalla misura cautelare.

In via subordinata, il rimettente solleva invece questione di legittimità costituzionale del comma 2 della stessa norma, nella parte in cui prevede una durata della sospensione pari al decorso del termine di prescrizione del reato e, perciò, eccessivamente lunga.

Attesa l’identità delle questioni sollevate, i giudizi vanno preliminarmente riuniti per essere decisi con unica sentenza.

 

2.- La questione sollevata in via principale non é fondata.

 

2.1.- Questa Corte ha già avuto modo di affermare che, pur dovendo essere, in via ordinaria, la stessa amministrazione a valutare l’opportunità di disporre la misura cautelare della sospensione dal servizio, non si può, tuttavia, "negare al legislatore, nell’esercizio di una non irragionevole discrezionalità, la facoltà di identificare ipotesi circoscritte nelle quali l’esigenza cautelare che fonda la sospensione é apprezzata in via generale ed astratta dalla stessa legge (compiendosi dunque per legge quella valutazione della particolare gravità della "natura del reato" che normalmente é affidata all’amministrazione in sede di adozione del provvedimento di sospensione ai sensi dell’art. 91, comma 1, d.P.R. n. 3 del 1957)" (sentenza n. 206 del 1999).

Contrariamente a quanto ritenuto dalle ordinanze di rimessione, deve, pertanto, escludersi che l’ambito delle misure cautelari automatiche sia stato da questa Corte circoscritto al solo delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso, essendo, invece, nella citata sentenza esplicito l’assunto secondo cui l’individuazione delle pur limitate ipotesi alle quali ricollegare la sospensione obbligatoria dal servizio rientra nella discrezionalità del legislatore. Fermo sempre restando il controllo di ragionevolezza sull’esercizio della discrezionalità legislativa.

 

2.2.- Passando all’esame di tale ultimo profilo va, anzitutto, osservato che sia l’interesse generale al buon andamento della pubblica amministrazione che il rapporto di fiducia dei cittadini verso quest’ultima possono risultare gravemente compromessi dalla permanenza in servizio di un dipendente condannato – sia pure in via non definitiva – per taluno dei delitti riguardati dalla norma impugnata. E ciò in considerazione della particolare gravità dei delitti stessi, comportanti la violazione dei fondamentali obblighi di fedeltà del pubblico dipendente.

Emerge, d’altro canto, con chiarezza, dai lavori preparatori, che l’intervento del legislatore, a tutela dei suddetti interessi, si é reso necessario per ovviare ad una situazione di diffusa inerzia della pubblica amministrazione nell’esercizio del suo potere di sospensione facoltativa dal servizio del dipendente sottoposto a procedimento penale per reati di notevole gravità e, sotto altro aspetto, per ristabilire in materia il principio di pari trattamento per tutti i pubblici dipendenti.

 

2.3.- La totale assenza di motivazione riguardo agli ulteriori parametri evocati nelle ordinanze di rimessione risulta, poi, preclusiva di qualsiasi valutazione al riguardo.

 

3.- In via subordinata il rimettente dubita della legittimità costituzionale della norma impugnata nella parte in cui prevede che la misura perda efficacia "decorso un periodo di tempo pari a quello di prescrizione del reato", trattandosi – a suo avviso - di un termine eccessivamente lungo, in relazione alla finalità cautelare della misura stessa.

La censura é fondata, nei sensi di seguito precisati.

 

3.1.- La norma impugnata prevede, al comma 2, che la misura cautelare perde efficacia in due diversi casi: se per il fatto é successivamente pronunciata sentenza di proscioglimento o di assoluzione anche non definitiva ovvero dopo il decorso di un periodo di tempo pari a quello di prescrizione del reato.

Quanto alla prima delle due ipotesi, la sospensione resta in questo caso caducata in quanto la sentenza di proscioglimento o di assoluzione determina il venir meno del presupposto stesso della misura, rappresentato appunto dall’esistenza di una sentenza di condanna.

Sicchè, deve escludersi che, nella specie, ricorra la previsione di un mero termine di durata della misura cautelare.

Conclusivamente, l’unico termine di durata previsto dalla norma é quello, fissato dal legislatore per relationem, rappresentato dal decorso di un periodo di tempo pari al termine di prescrizione dello specifico reato cui la condanna non definitiva si riferisce.

 

3.2.- Nella sentenza n. 206 del 1999 si afferma che "una misura cautelare, proprio perchè tale, e cioé tendente a proteggere un interesse nell’attesa di un successivo accertamento (nella specie giudiziale), deve per sua natura essere contenuta nei limiti di durata strettamente indispensabili per la protezione di quell’interesse, e non deve essere tale da gravare eccessivamente sui diritti che essa provvisoriamente comprime", in ossequio al criterio di proporzionalità della misura cautelare, riconducibile all’art. 3 della Costituzione.

Tale principio risulta violato dalla disposizione in esame.

Va considerato infatti che, in relazione ad alcuni fra i delitti indicati dalla norma, il termine di prescrizione può raggiungere una durata ultradecennale tenuto conto anche degli effetti interruttivi della sentenza di condanna ai sensi dell’art. 160, ultimo comma, del codice penale.

Un siffatto periodo di tempo, se assunto quale termine di durata di una misura cautelare, non può che ritenersi manifestamente eccessivo, comportando, nel bilanciamento dei contrapposti interessi, una evidente quanto irragionevole compressione dei diritti del singolo.

A ciò si aggiunga che il termine in tal modo individuato viene evidentemente a coincidere – almeno astrattamente - con il compimento di una causa di estinzione del reato, cosicchè la durata massima della misura risulta in sostanza ricollegata non tanto (o non solo) al decorso di un determinato periodo di tempo quanto piuttosto al (simultaneo) verificarsi di un fatto tale da determinare in realtà il venir meno, insieme al reato, di qualsiasi esigenza cautelare ad esso connessa. Con ulteriore, intrinseca violazione del principio di proporzionalità e ragionevolezza della misura cautelare.

Si consideri, da ultimo, che la norma, prevedendo – accanto alla sentenza di proscioglimento - quale autonoma causa di cessazione di efficacia della misura cautelare, il decorso di un periodo di tempo pari a quello della durata della prescrizione, comporta valutazioni, precluse alla pubblica amministrazione, che solo l’autorità giudiziaria può compiere: si pensi all’incidenza sul decorso della prescrizione delle circostanze aggravanti e attenuanti del reato. Con la conseguenza che la suddetta causa di cessazione di efficacia della misura cautelare viene necessariamente a coincidere con quella rappresentata dalla sentenza di proscioglimento.

La norma impugnata risulta, dunque, sotto differenti e concorrenti profili, lesiva del principio di ragionevolezza garantito dall’art. 3 della Costituzione e deve essere, sotto tale aspetto, dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui dispone che la sospensione perde efficacia decorso un periodo di tempo pari a quello di prescrizione del reato.

 

3.3.- Va, a questo punto, chiarito che la declaratoria di incostituzionalità, nei termini sopra specificati, non rende la sospensione obbligatoria dal servizio priva del necessario termine di durata e non ne comporta, pertanto, l’illegittimità costituzionale.

Come si afferma nella più volte citata sentenza n. 206 del 1999, é, infatti, possibile rinvenire nel sistema una previsione di durata massima della misura cautelare sospensiva – quella, di cinque anni, contenuta nell’art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti) – alla quale deve attribuirsi il carattere di una vera e propria clausola di garanzia, avente portata generale e dunque comprensiva – in difetto di diversa disciplina legislativa - di ogni e qualsiasi ipotesi di "sospensione cautelare dal servizio a causa del procedimento penale", sia facoltativa che obbligatoria.

L’art. 4, comma 2, della legge 27 marzo 2001, n. 97, deve essere, dunque, letto – a seguito della presente declaratoria di illegittimità costituzionale - nel senso che la sospensione dal servizio disposta a norma del comma 1 perde efficacia se per il fatto é successivamente pronunciata sentenza di proscioglimento o di assoluzione anche non definitiva e, in ogni caso, decorsa una durata complessivamente non superiore a cinque anni della sospensione, facoltativa o obbligatoria, riferibile al medesimo procedimento penale.

Resta ferma, ovviamente, la possibilità che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità ed entro i limiti di ragionevolezza e proporzionalità individuati da questa Corte, disciplini nuovamente la materia, anche fissando termini massimi eventualmente differenti rispetto a quello di cui al citato art. 9 della legge n. 19 del 1990 ovvero modulati in relazione alla gravità del reato ed alla fase del procedimento.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi,

1) dichiara l’illegittimità costituzionale, nei sensi di cui in motivazione, dell’art. 4, comma 2, della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), nella parte in cui dispone che la sospensione perde efficacia decorso un periodo di tempo pari a quello di prescrizione del reato;

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, della citata legge 27 marzo 2001, n. 97, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 27, 35, 36 e 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania con le ordinanze in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 aprile 2002.

 

Massimo VARI, Presidente

Annibale MARINI, Redattore

 

Depositata in Cancelleria il 3 maggio 2002.

 

 

 

ALLEGATO

Reg. Ord. n. 699, 778 e 949 del 2001

 

 

 

 

Ordinanza letta nell’udienza pubblica

del 12 marzo 2002

Ritenuto che nei giudizi promossi dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania con le ordinanze emesse il 13 giugno 2001 (R.O. n. 699 del 2001), il 4 luglio 2001 (R.O. n. 778 del 2001) e l’8 agosto 2001 (R.O. n. 949 del 2001) ha spiegato atto di intervento Francesca Calabrese deducendo, a sostegno della legittimazione all’intervento medesimo, di essere dipendente dell’INPS, sede di Torino, e di essere stata colpita da provvedimento di sospensione dal servizio adottato dall’ente datore di lavoro ai sensi dell’art. 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97;

che la interveniente, pur non essendo parte nei giudizi a quibus, si reputa portatrice di un interesse diretto ed individualizzato rispetto all’esito del giudizio di legittimità costituzionale.

Considerato che la giurisprudenza di questa Corte é consolidata nell’affermare la inammissibilità, nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale, dell’intervento di soggetti che non siano parti in causa nel giudizio a quo;

che tale principio é stato ritenuto derogabile soltanto in favore di soggetti titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto nel giudizio a quo;

che siffatta situazione evidentemente non ricorre nella specie.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’inammissibilità dell’intervento di Francesca Calabrese.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 marzo 2002.

Firmato: Massimo Vari, Presidente