CORTE DEI CONTI - SEZIONE GIUR. EMILIA ROMAGNA - Sentenza 17 luglio 2003 n. 1766Pres. D'Antino Settevendemmie, Est. Sullo - P.M. Musumeci c. G.P. (Avv. A. De Rosa).

1 Responsabilità amministrativa – Personale della Polizia di Stato – Danno erariale conseguente alla commissione di un omicidio colposo durante un’operazione di polizia – Uso dell’arma in dotazione con gravissima imprudenza e imperizia – Colpa grave – Sussiste.

2. Responsabilità amministrativa – Personale della Polizia di Stato – Difetto di coordinamento durante lo svolgimento delle operazioni di polizia – Colpa grave del responsabile di un evento letale – Sussiste.

3. Responsabilità amministrativa – Personale della Polizia di Stato – Danno erariale conseguente alla commissione di un omicidio colposo durante un’operazione di polizia – Ricorso al potere riduttivo in presenza di un evento letale commesso in circostanze confuse – Possibilità.

1. Sussiste la responsabilità amministrativa di un agente di polizia che nel corso di un’operazione di polizia ha commesso, come accertato nel giudizio penale, un omicidio colposo caratterizzato da un’azione contraddistinta da una gravissima imprudenza o da gravissima imperizia, dal momento che per sostenere l'azione dei colleghi doveva essere ricercato il preventivo coordinamento con gli stessi.

Il comportamento di un agente di polizia deve ritenersi caratterizzato da colpa grave per l’uso imprudente dell’arma di dotazione e si colora di ulteriore gravità, quando il medesimo agente, al fine di impedire l'individuazione della stessa, alteri la pistola usata nel corso di un’operazione di polizia conclusasi con la morte di una persona, subendo, così, in sede penale la condanna per il reato di frode processuale (art. 374 c.p.).

2. L'eventuale difetto di coordinamento durante un’operazione di polizia, nel cui ambito si è verificato un evento letale, non esclude la colpa grave dell’agente di polizia autore dello sparo che ha causato la morte di una persona, specialmente quando gli elementi emersi in sede penale compongono un quadro complessivamente chiaro e convincente dello svolgimento dei fatti e della conseguente responsabilità.

3. Anche in presenza del reato di omicidio colposo commesso da un agente di polizia durante lo svolgimento del servizio e pienamente accertato in sede penale, è consentito ricorrere, ai fini della determinazione condanna risarcitoria, a un ampio uso del potere riduttivo (art. 52 del Testo unico delle leggi sulla Corte dei Conti, approvato con regio decreto 12 luglio 1934, n. 1214, specialmente in presenza di circostanze, piuttosto confuse, nel cui ambito il convenuto si è trovato ad operare (1).


(1) Commento di

MASSIMO PERIN
(Consigliere della Corte dei Conti)

Alcune riflessioni sulla responsabilità amministrativa degli appartenenti alle forze dell’ordine per fatti causativi di danno erariale prodotti attraverso l’uso delle armi durante lo svolgimento di operazioni di polizia.


La sentenza in rassegna viene segnalata, perché riguarda una vicenda in cui gli appartenenti alle forze dell’ordine (Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di Finanza, etc…), in ragione del loro servizio, possono essere esposti.

I fatti riguardavano un agente di polizia che, intervenuto con i propri colleghi per inseguire gli autori di una rissa, si è trovato, durante le fasi successive dell’operazione di inseguimento degli autori del reato, a esplodere un colpo con l’arma in dotazione che ha causato la morte di una persona risultata, in seguito, estranea alle circostanze.

Nel corso del processo penale, cui era stato sottoposto l’agente, erano emerse a suo carico precise responsabilità in ordine al reato di omicidio colposo, dal momento che il colpo esploso era la conseguenza di un’azione caratterizzata da una gravissima imprudenza e da una gravissima imperizia.

A complicare ancora di più la posizione processuale dell’agente di polizia è stato il fatto che il medesimo, per impedire l’individuazione dell’arma che aveva esploso il colpo, aveva modificato la canna della propria pistola, finendo, così, per subire anche la condanna per frode processuale (art. 374, comma 2, c.p.).

A tal punto, i familiari della vittima hanno intentato, già nelle fasi del processo penale, con la costituzione di parte civile, l’azione di risarcimento nei confronti del responsabile, ottenendo poi, fin dalla prima sentenza di condanna dell’agente, il pignoramento di un quinto della sua retribuzione.

Gli stessi familiari hanno poi avviato l’azione civile di risarcimento anche nei confronti del Ministero degli Interni.

Infatti, quest’ultimo era stato escluso come responsabile civile dal processo penale e, di conseguenza, i familiari avevano dovuto avviare un’autonoma azione di risarcimento innanzi al giudice civile.

Il Ministero convenuto, una volta intervenuta in sede penale la sentenza definitiva di condanna del proprio dipendente, è addivenuto a una transazione con i familiari, versando a costoro una somma superiore ai 200.000.000 a tacitazione di ogni pretesa risarcitoria.

A questo proposito, occorre ricordare che, ai sensi dell'art. 28 della Costituzione, i funzionari e i dipendenti dello Stato sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti; in tali casi la responsabilità si estende allo Stato e, in ragione di questa disposizione, lo Stato e gli enti pubblici sono tenuti a rispondere non solo negli stessi limiti in cui è responsabile il funzionario o il dipendente, ma anche per gli stessi fatti (Cassazione civile, sez. I, n. 3283 del 7.3.2002).

Ebbene, una volta versata tale somma ai danneggiati e configurandosi un danno erariale indiretto, su iniziativa della Procura regionale, l’agente di polizia è stato chiamato a rispondere della propria condotta innanzi alla Corte dei Conti.

Tra l’altro, il danno in parola era sorto da una vicenda che ha visto l’autore dell’illecito porre in essere dei reati (omicidio colposo e frode processuale) che, in quanto tali non possono essere ricondotti all’amministrazione di appartenenza, ma ciò non esclude e non interrompe, comunque, il rapporto di servizio tra il pubblico ufficiale e l’amministrazione medesima per i pregiudizi finanziari subiti da quest’ultima (Corte dei Conti, sez. I centrale, n. 56 del 9.3.1999), ricordando che nella medesima vicenda sussisteva il cd. rapporto di occasionalità necessaria, perché il pubblico ufficiale, imputato dei predetti reati, ha potuto consumare questi svolgendo le funzioni assegnategli (con grave imperizia e imprudenza) dalla propria amministrazione.

A questo punto, anche se i due processi (quello penale e quello di responsabilità erariale) sono del tutto autonomi, dal momento che i rapporti tra i vari giudizi devono essere improntati a caratteri di separatezza e autonomia, in ragione della diversità dell’oggetto degli stessi e dell’esigenza di assicurare, in ogni settore, una giustizia più rapida (cfr. ex multis Corte dei Conti, sez. Liguria n. 80 del 25 gennaio 2003 e n. 479 del 20 giugno 2001), non si può negare la diretta influenza della decisione penale di condanna dell’agente di polizia, ai fini della configurazione della condotta causativa del pregiudizio finanziario patito dall’amministrazione.

La giurisprudenza ha poi affermato che nel giudizio contabile fa stato soltanto la sentenza penale pronunciata a seguito del dibattimento e, comunque, limitatamente all’accertamento della materialità dei fatti (Corte dei Conti, II sez. centrale, n. 216 del 2.8.1999).

Orbene, una volta accertata l’esatta dinamica dei fatti che hanno comportato l’omicidio colposo, nonché la sua diretta riferibilità al dipendente della polizia, il giudice contabile deve solamente accertare l’intensità della colpa, perché per la responsabilità amministrativa si risponde solo per dolo o colpa grave e, in seguito, commisurare l’entità del risarcimento da addebitare al responsabile.

Nella sua valutazione dei fatti il giudice contabile deve, comunque, tener conto che il personale di polizia, per dovere istituzionale, è talora costretto, per far fronte a una criminalità agguerrita e determinata, a dover ricorrere all’uso delle armi (cfr. Vigna – D’Ambrosio, Polizia giudiziaria e nuovo processo penale, ed. Laurus-Robuffo, 1989, pag. 377), solo che questo uso viene ritenuto legittimo quando ricorrono talune condizioni.

Le condizioni di uso legittimo delle armi, ricomprese tra le cause oggettive di esclusione del reato, sono previste dal codice penale all’art. 53 e negli altri casi previsti dalla legge (ad es. l’art. 169 del R.D. 2584/37 per la flagranza di evasione), esse operano unicamente a favore del pubblico ufficiale e di qualsiasi persona che legalmente richiesta dal pubblico ufficiale gli presti assistenza.

La norma in parola ha natura sussidiaria, nel senso che si fa ricorso alla sua applicazione quando difettino i presupposti della legittima difesa (art. 52 c.p.) o dell’adempimento di un dovere (art. 51 c.p.) (Fiandaca – Musco, Diritto Penale, vol. I, Bologna, 1995, pag. 254).

La norma prevede che, al momento dell’uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica sia in corso una violenza o una resistenza all’autorità, con la conseguenza che il pubblico ufficiale non dispone di altra scelta per adempiere al proprio dovere (Fiandaca – Musco, cit. pag. 255).

Si può ricorrere legittimamente all’uso delle armi in presenza di determinati reati di gravissimo allarme sociale (omicidio volontario, disastro ferroviario rapina a mano armata, etc…).

La scriminante in parola opera solo se l’uso delle armi era indispensabile per respingere la violenza o vincere la resistenza o per impedire il compimento del delitto e occorre che il pubblico ufficiale sia stato determinato dal motivo di adempiere un dovere inerente la propria funzione.

La giurisprudenza (Cass. Pen. sez. IV, n. 9961 del 7 giugno 2002) ha avuto modo di affermare l’esigenza di operare in modo proporzionato alla situazione che si deve fronteggiare, affinché sia legittimo, o no, l'uso delle armi, con la conseguenza che «deve ritenersi regola di condotta imprescindibile quella di graduare l'uso dell'arma secondo le esigenze specifiche del caso e sempre nell'ambito di proporzione: potrà essere sufficiente sparare in aria (uso intimidatorio e di coazione psichica), oppure ai lati del soggetto agente pur sempre con intenti persuasivi; oppure, sparare alle gomme delle ruote del veicolo onde bloccarne la fuga, e così via, potendosi ammettere quale davvero extrema ratio quella della mira al corpo, giustificabile solo ove il conflitto riguardi interessi di valore assoluto».

È chiaro, dunque, che per la norma penale è sempre richiesta l’osservanza del criterio della proporzionalità, la quale deve guidare il pubblico ufficiale al quale si chiede, senza che debba rinunziare all'adempimento del dovere di ufficio, di conseguire lo scopo con il minor sacrificio del contrapposto interesse.

Orbene, anche per il giudizio di responsabilità amministrativa, è necessario valutare tutto il comportamento tenuto dal pubblico ufficiale nella singola fattispecie, ai fini della causazione, attraverso l’uso delle armi, dell’evento dannoso.

Infatti, dalla lettura della sentenza in commento, la quale ha, con ampi richiami alla ricostruzione dei fatti effettuata in sede penale, affermato la colpa grave dell’agente di polizia nell’utilizzo dell’arma di dotazione, emerge che la condotta dell’agente stesso era caratterizzata da un’evidente e gravissima imprudenza e imperizia, perché se l'intento del pubblico ufficiale era quello intimidatorio, l'arma doveva essere rivolta verso l'alto (e non verso la persona poi colpita) o, se l'intento era quello di sostenere l'azione dei colleghi impegnati nel catturare i fuggitivi, si doveva ricercare (prima di sparare) un preventivo coordinamento con gli stessi.

La giurisprudenza (Corte dei Conti, sez. Lazio n. 2035 del 12.7.2002) ha già avuto modo di interpretare, come condotta caratterizzata da colpa grave, l’uso delle armi in situazioni di non oggettivo pericolo, come nel caso di un agente delle forze dell’ordine che, con l’arma d’ordinanza, feriva una persona che si era data alla fuga e non si era opposta con violenza o resistenza all’azione del pubblico ufficiale, tenuto conto che il fatto era accaduto all’interno di una stazione ferroviaria, con l’esposizione al rischio della sparatoria di numerosi passanti.

È stata, altresì, riconosciuta la responsabilità a titolo di colpa grave (Corte dei Conti, sez. Campania, n. 54 del 5 giugno2001) di un sottufficiale dei Carabinieri, quando il militare ha estratto l’arma dalla fondina in modo incauto, causando così il ferimento di una persona (nella fattispecie lo sparo era avvenuto mentre il militare estraeva la rivoltella dalla fondina per riporla in un cassetto e il perito di parte ha sostenuto che il caricamento era avvenuto all’atto dell’introduzione nella fondina stessa, effettuata celermente nel contesto di una precedente operazione di inseguimento).

Da quanto sopra riportato si evince che l’uso legittimo delle armi da parte del personale militare e delle forze dell’ordine è sottoposto a precise regole di attenzione e di prudenza, affinché i danni che si possono produrre siano contenuti, secondo un principio di proporzionalità, alla difesa di quegli interessi di valore assoluto richiamati dalla norma penale (art. 53).

Ovviamente, per far questo è necessario, se non indispensabile, che il personale delle Forze dell’ordine (ma lo stesso discorso può essere esteso anche alle Forze armate) venga mantenuto a un elevato livello di addestramento e professionalità, per il quale devono essere opportunamente destinate e non lesinate le risorse economiche, le quali, a fronte di una carente preparazione del personale in parola, serviranno, comunque, per risarcire i danni, disattendendo, così, la regola di buon senso che privilegia la prevenzione alla cura.

È quindi necessario, per ottenere un elevato livello di professionalità, che il personale preposto alle funzioni di responsabilità (funzionari, dirigenti, ufficiali) sia sempre in grado di coordinare i necessari controlli e di attivare le indispensabili operazioni di cautela durante le operazioni di polizia, non solo per raggiungere il migliore risultato, ma anche per evitare che i propri dipendenti si trovino esposti a situazioni di difficoltà.

A questo proposito (per il difetto del controllo) è stata riconosciuta la responsabilità di un funzionario di polizia, preposto alla sicurezza di uno stadio durante una manifestazione sportiva, il quale aveva omesso un’idonea azione di prevenzione per evitare l’insorgere nelle tribune di incendi causati dagli incivili e prevedibili comportamenti dei tifosi (Corte dei Conti, sez. Marche, n. 752 del 2 agosto 2001).

Infine, per quanto attiene all’uso del potere riduttivo da parte del giudice, pur essendo presente un comportamento gravemente colposo dell’agente di polizia, è stato ritenuto che, in presenza di una situazione confusa, si poteva far ricorso ad ampio uso del predetto potere (infatti, il responsabile è stato condannato alla metà del danno patito dall’amministrazione). Nessuna rilevanza, ai fini del danno erariale, è stata data, invece, alla commissione del reato di frode processuale, il quale è stato tenuto in considerazione solo per la conferma della colorazione del comportamento come gravemente colposo.

Infatti, la giurisprudenza della Corte dei Conti è orientata a considerare che ogni elemento sia a carattere psicologico, sia a carattere materiale può essere valutato ai fini dell’esercizio del potere riduttivo dell’addebito (Corte dei Conti, sez. I centrale, n. 238 del 29 luglio 1998), con esclusione dello stesso solo in presenza di danni cagionati per dolo o per motivi abietti (Corte dei Conti, sez. I centrale, n. 331 del 14 novembre 2000) che, nell’infausta vicenda riportata in sentenza, non sussistevano.

 


 

SENTENZA

sul giudizio di responsabilità, iscritto al n. 028646 già 370/R del registro di Segreteria, instaurato dal Procuratore Regionale della Corte dei Conti per l'Emilia-Romagna nei confronti del sig. G.P., nato a XX ed elettivamente domiciliato presso lo Studio dell'avv. Umberto Guerini a Bologna in Piazza Minghetti n. 3.

Ritenuto in

FATTO

Da accertamenti svolti dalla Procura Regionale della Corte dei Conti per l'Emilia-Romagna è emerso che la mattina del 25 giugno 1990 a Bologna, in Via Erbosa, l'Agente della Polizia di Stato G.P. partecipava, insieme ad altri suoi colleghi, ad un'operazione di polizia finalizzata alla cattura dei protagonisti di una rissa che era scoppiata poco prima in Via Gobetti e che si era conclusa con il ferimento di due persone (una delle quali a causa di un colpo di arma da fuoco). Le ricerche dei responsabili di quella rissa venivano indirizzate, grazie soprattutto all'ausilio di un elicottero, verso un casolare in Via Erbosa.

Nel corso dell'operazione ivi condotta la Polizia sparava alcuni colpi di pistola, uno dei quali colpiva a morte Mohamed B., un cittadino tunisino che si era affacciato ad una finestra del casolare stesso.

Dopo mesi di indagini veniva accertato che il proiettile mortale era stato sparato dalla pistola calibro 9 lungo in dotazione al G., il quale veniva perciò rinviato a giudizio con l'accusa non soltanto di omicidio colposo, ma anche di frode processuale, per aver alterato la canna della suddetta pistola con la finalità di impedire che venisse attribuita a lui la provenienza del colpo mortale.

Dinanzi al Pretore di Bologna si costituivano quali parti civili i congiunti del B., citando altresì in giudizio il Ministero dell'Interno nella sua qualità di responsabile civile.

Con sentenza n° 931/1992 il suddetto giudice di primo grado, che in limine litis aveva escluso dal processo penale il suddetto responsabile civile, dichiarava il G. colpevole del reato di omicidio colposo e di quello di frode processuale; e, nel condannarlo al risarcimento dei danni subiti dalle parti civili costituite, liquidava in via definitiva tale danno per il reato doloso, mentre si limitava ad attribuire una provvisionale per il reato colposo, rinviandone la definitiva quantificazione ad un successivo giudizio civile.

Sull'impugnazione proposta dal G., la Corte d'appello di Bologna (con sentenza n° 1765 del 21 novembre 1995 - 26 gennaio 1996) confermava la sentenza di primo grado. Neppure l'ulteriore ricorso per Cassazione modificava minimamente la condanna penale per ambedue i suddetti reati; tuttavia, con sentenza emessa il 30 ottobre 1996, i giudici di legittimità annullavano senza rinvio la statuizione civile di condanna al risarcimento del danno per il reato di frode processuale.

Già in forza della suddetta sentenza di primo grado, peraltro, le parti civili avevano aggredito in via esecutiva il patrimonio del G.

Questi perciò, attraverso il pignoramento del quinto del suo stipendio mensile, tra il 1993 ed il 1998 aveva pagato ai familiari del B. la complessiva somma di lire 29.534.155: somma che, comunque, era largamente inferiore al credito vantato ex adverso.

L'esclusione del Ministero dell'Interno dal processo penale induceva i parenti del B. ad iniziare dinanzi al Tribunale di Bologna, all'indomani della pronuncia della suddetta sentenza pretorile, un autonomo giudizio civile nei confronti del Ministero stesso. Tuttavia, una volta divenuta irrevocabile la sentenza penale di condanna del G., le parti addivenivano ad una transazione della pretesa risarcitoria.

Conseguentemente, con contratto sottoscritto inter partes l'1l marzo 1998 ed approvato dal Ministero stesso con decreto n° 559/C. 16914.10000.A del 24 agosto 1998, veniva riconosciuta ai congiunti del B. la complessiva ed ulteriore somma di lire 178.964.380 (aggiuntiva, cioè, rispetto alla provvisionale liquidata dal Pretore ed a quanto già coattivamente pagato dal G.), oltre a lire 25.000.000 per rimborso delle spese legali. In particolare, da parte dei danneggiati, l'accettazione della suddetta somma comportava la “... completa e definitiva tacitazione di ogni e qualsiasi pretesa ... sia nei confronti dell'Amministrazione dell'Interno o comunque di altri dipendenti di detta Amministrazione ...”, qual era appunto il G..

I relativi ordinativi di pagamento venivano emessi dal Ministero dell'Interno il 10 settembre 1998.

Secondo la Procura Regionale il complessivo esborso di lire 203.964.380, sostenuto dal Ministero dell'Interno in favore dei congiunti del B., costituisce danno erariale, la cui responsabilità appare indubbiamente ascrivibile al G. in virtù di quanto accertato dal giudice penale e chiaramente argomentato nelle due sentenze di merito.

Di tale somma il Ministero ha già chiesto vanamente il rimborso, giusta nota prot. 559/C.10810.10000.A del 21 settembre 1998, ricevuta dal G. il 5 ottobre successivo ed espressamente valevole quale atto di costituzione in mora.

La Procura Regionale ha rivolto, quindi, al sig. G. l'invito a depositare documenti e controdeduzioni in conformità a quanto stabilito dall'art. 5, 1° comma, del decreto legge 15 novembre 1993, n. 453, convertito con modificazioni con la legge 14 gennaio 1994, n. 19 e dall'art. 1, comma 3, del decreto legge 23 ottobre 1996, n. 543, convertito con modificazioni con la legge 20 dicembre 1996, n. 639.

Successivamente, ritenendo gli elementi forniti dal sig. G. nelle proprie controdeduzioni non idonei a giustificare l' archiviazione del procedimento, il Procuratore Regionale, con atto di citazione debitamente notificato, lo ha invitato a comparire innanzi alla Sezione Giurisdizionale della Corte dei Conti per l'Emilia-Romagna, all'udienza poi fissata dal Presidente della stessa Sezione per la data odierna, per sentirsi ivi condannare al pagamento, in favore dell'Erario, della somma di €. 105.338,81 (pari a lire 203.964.380) - nonché della rivalutazione monetaria e degli interessi legali - ed alla rifusione delle spese di giudizio.

A fondamento della domanda si osserva che l'elemento soggettivo del reato di omicidio colposo consiste in una colpa gravissima del convenuto e che assai negativamente vada considerata anche la commissione dell'ulteriore reato di frode processuale, oltre tutto strumentale rispetto al fine di evitare l' imputazione del reato principale.

A tale riguardo si richiamano (facendo riferimento ai relativi numeri di pagina) i passaggi salienti delle motivazioni della sentenza penale di primo grado:

   pag. 4: "... in ordine sparso, senza alcun effettivo coordinamento (teoricamente demandato al dott. P.), agenti, carabinieri e funzionari, ... iniziarono a dirigersi verso la casa di via Erbosa";

    pag. 4: l'agente "C. e [il dott.] P. sparavano per primi dei colpi di pistola; successivamente ... anche [gli agenti] S. e G. esplodevano un colpo a testa. B. ..., che si trovava nei pressi di una finestra del secondo piano ..., veniva raggiunto da un proiettile che gli causava una lesione presto rivelatasi mortale";

   pag. 4: "Si accerta subito che il tunisino [B.] non aveva partecipato alla precedente rissa in via Gobetti ..., che nessuno dei fuggiaschi [da quella rissa] aveva trovato rifugio in quella casa ... e che gli occupanti del casolare non avevano fatto uso di arma da fuoco ...";

   pag. 4: "... va sottolineato ... che nessuno dei numerosi testi escussi ha visto altre persone sparare, oltre a quelle suindicate [C., P., S. e G.], che le diversità rintracciabili nelle deposizioni di alcuni testimoni ... riguardano il numero dei colpi uditi, non le persone degli sparatori, ... [e] che S. e G. hanno confermato ... che fu appunto l'imputato a sparare l'ultimo colpo ...";

   pag. 12 - 13: "... gli accertamenti del [medico legale] ... hanno ristretto la rosa dei possibili uccisori di B. agli agenti S. e G.; la perizia balistica [sulle pistole in dotazione ad entrambi] ha escluso il primo senza ombra di dubbio, indicando il secondo come indiscusso autore del ferimento mortale: ... sia perché i proiettili sparati sperimentalmente con la sua pistola presentano diversi elementi di identità con quello che ha colpito B. ..., sia perché la sua arma ha subito modifiche ad opera di quell'unica persona che aveva interesse e possibilità pratica di operare per impedirne l'individuazione: il G., appunto";

   pag. 13 - 14: "... quando G. giunge sulla massicciata ferroviaria [posizione dalla quale, poi, sparerà il colpo mortale] ritiene ... che all'interno del casolare si siano rifugiati i fuggiaschi della precedente rissa di via Gobetti". G. "... scorge una persona che si muove all'interno [del casolare], sente dei colpi di arma da fuoco .... Tutta l'azione si svolge nell'arco di pochi secondi .... G. non riflette, non valuta la situazione, agisce precipitosamente. Non ha mai partecipato ad un conflitto a fuoco, sente dei colpi, vede il collega sparare e fa altrettanto istintivamente .... Pone in essere quindi una condotta avventata e perciò sicuramente colposa. Ma come spara? ... Ebbene, con tutto il cielo a disposizione, [egli] rivolge l'arma proprio in direzione della casa, che sa essere abitata. Infine ... abbassa troppo l'arma ed il proiettile finisce nel riquadro della finestra del casolare: agisce con imperizia, ponendo in essere un ulteriore comportamento colposo";

  pagg. 15 - 16: "... l'imputato ha sparato da una distanza di circa 70 metri, ben al di là quindi della portata utile che consente la precisione nel tiro ...; ha esploso un unico colpo, pur avendone diversi a disposizione (e ciò è compatibile ... con l'intenzione dichiarata di 'farsi sentire', di intimidire ..."). "Trattasi quindi di reato essenzialmente colposo (magari qualificato dall'aggravante di cui all'art, 61 n° 3 c.p., nella specie peraltro non contestata) ...";

   pag. 18: vengono demoliti, mediante le deposizioni di vari agenti e funzionari della Polizia, due cardini della complessiva tesi difensiva del G.: l'aver saputo mentre si trovava su un'altra auto della Polizia (diversa dalla propria) della sparatoria in via Gobetti e, soprattutto, della circostanza che lo sparatore si fosse rifugiato nel casolare di via Erbosa; e l'essergli stato ordinato di indossare il giubbotto antiproiettile;

   pag. 18 - 19: " G. ... è protagonista autonomo dì una prospettazione ... ancora più avventata” [rispetto a quella formatasi negli altri protagonisti della complessiva vicenda]. "Quando [ G.] giunge sulla massicciata e trova l'agente S., con cui nemmeno parla per valutare la situazione [e, magari, ricevere informazioni maggiori rispetto a quelle pressoché inesistenti in suo possesso], ha perciò un quadro di riferimento assolutamente approssimativo, fondato, su 'impressioni' e ipotesi personali, frutto di valutazioni superficiali e di conclusioni azzardate, prive di qualsiasi scusante: ne è tanto consapevole che, al dibattimento, cerca di supportare [quel quadro di riferimento] con riscontri rivelatisi inesistenti ...";

   pag. 20 - 21: "L'imputato, quindi, prima di esplodere il colpo con la sua pistola, era già consapevole che dalla casa nessuno sparava, mentre altri - necessariamente tra le forze dell'ordine - avevano aperto il fuoco contro di essa. Del resto, dal punto in cui si trovava G. si potevano vedere la facciata e il cortile [del casolare], a ridosso del quale si trovavano P., M. e C. e si doveva sentire il loro rumoroso ed inequivoco operare". La sottolineatura dei verbi servili è opera del Pretore.

   pag. 23: "E' pacifico ... che, in quel contesto, mancava qualsiasi necessità di intervento da parte del G., visto che a pochi metri dalla casa erano già in azione i [suoi] colleghi [P., M. e C.], circostanza questa da lui ben conosciuta. Infine ... esulava completamente, nella specie, qualsiasi proporzionalità tra il bene leso (la vita umana) e quello apparentemente messo in pericolo con la supposta resistenza (per non parlare poi dell'assenza di qualsiasi proporzione tra il mezzo usato e la finalità dell'operazione ...)";

   pag. 26: "... elevato è il grado della colpa ascrivibile a G., posto che tutta la sua condotta è stata caratterizzata ... da valutazioni errate e comportamenti irriflessi e precipitosi, culminati poi con l'imperizia dimostrata al momento dello sparo ...".

  Secondo la Procura Regionale suffragano ulteriormente l'estrema gravità della colpa ascrivibile al G. le seguenti considerazioni desunte dalla sentenza d'appello:

   pag. 17: "è dunque evidente che il G. dovesse evitare di sparare e comunque evitare che il suo sparo ... raggiungesse quell'obiettivo. Accadde invece il contrario ... e ciò almeno per leggerezza, frettolosità, avventatezza ed imperizia";

   pag. 17: il G. "... ha affermato di avere avuto intenzione di 'farsi sentire' e di aver azionato l'arma 'istintivamente', dirigendola tra elicottero e casa. Anche ad accettare la versione dell'imputato, non v'è chi non veda che quel comportamento fu gravemente imprudente". "Colpa, dunque, ravvisa la Corte, e di grado non modesto";

   pag. 18: "Egli perciò giunse nella postazione da cui sparò assolutamente privo di informazioni utili e con un quadro dei fatti sfumato ed approssimativo; non consultò neppure lo S. ...; non attese che iniziative ed ordini partissero dal dirigente [P.] e dalla volante, che, trovandosi a diretto ridosso della casa, meglio avrebbero potuto governare la situazione .... Mancava assolutamente ogni necessità dell'intervento del G., il quale non doveva difendersi da nulla né superare violenze o resistenze di sorta";

   pag. 19: "II G. dunque sapeva o doveva sapere con normale diligenza acuita dalla sua professionalità che nessuno sparava dalla   .. finestra della cascina, verso la quale invece erano da fuori esplosi alcuni colpi di arma da fuoco".

Secondo la Procura Regionale, estremamente grave deve ritenersi anche la commissione dell'ulteriore delitto di frode processuale ex art. 374 c.p. (ascritto dal Pretore al G.) in quanto commesso dal G. con il preciso intento di garantirsi l'impunità dal reato principale del quale, evidentemente, egli comprese immediatamente di esser il responsabile. E' inoltre pacifico che la perpetrazione di tale frode, consistente nell'alterare la canna della propria pistola mediante un cacciavite od un attrezzo similare, avvenne il giorno stesso del tragico evento di via Erbosa, atteso che al G. quella pistola venne "... ritirata in via cautelare [soltanto] ... verso le h. 1 del giorno successivo ..." (pagg. 7-8 della sentenza pretorile). Ciò denota da parte dell'agente una particolare freddezza, l'assenza di qualsiasi rimorso e l'esclusiva attenzione ad allontanare da sé eventuali sospetti: ed invero quell' alterazione evitò per molti mesi, durante i quali furono effettuate prove di sparo su moltissime pistole, tra cui quella in dotazione al G., che tale arma fosse individuata come quella da cui era stato sparato il proiettile che aveva ucciso il B..

In ordine alle difese contenute nella risposta all'invito a dedurre, nell'atto di citazione si osserva che la transazione tra il Ministero dell'Interno ed i familiari del B. (avvenuta senza la partecipazione del sig. G. e senza un rapporto con i redditi della vittima) è stata stipulata allorquando era ormai divenuta irrevocabile la sua condanna per i reati di omicidio colposo e di frode processuale; nonché alcuni anni dopo che i familiari del B., giusta citazione notificata il 29 ottobre 1992, avevano convenuto il Ministero dell'Interno in un giudizio civile dinanzi al Tribunale di Bologna. E che, d'altronde, il danno risarcito non è soltanto quello materiale (sul quale, peraltro, già il giudice penale di primo grado aveva svolto alcune valutazioni quantitative alle pag. 27 e 28 della propria sentenza), ma anche quello morale, la cui entità è ovviamente correlata anche al numero non esiguo di stretti congiunti del de cuius: che erano la madre e quattro tra fratelli e sorelle, di cui una minorenne.

Inoltre, la suddetta transazione avrebbe direttamente favorito il G., atteso che in tal guisa è stata tacitata qualsiasi pretesa dei familiari del B. anche nei confronti di dipendenti del Ministero dell'Interno, quali appunto l'odierno convenuto.

Per quanto riguarda le contestazioni concernenti le risultanze e l'esito del processo penale, nella citazione si osserva che nel detto processo ambedue i giudici di merito hanno doviziosamente e motivatamente illustrato gli elementi di fatto che privano di pregio le odierne deduzioni del G.: il quale in buona sostanza pretenderebbe di espletare ex novo la medesima istruttoria dibattimentale posta a fondamento della sua condanna in sede penale.   Nell'atto di citazione si richiama poi l'attenzione sui numerosi e concordanti passi della sentenza penale di primo grado che connotano il comportamento del convenuto e si elencano i quattro elementi che caratterizzerebbero come gravissima la colpa ascrivibile al sig. G.:

 1) la commissione dell'ulteriore reato di frode processuale;

2) l'omessa ricerca di un coordinamento con gli altri operanti;

3) il grado di colpa reputato esistente dal giudice penale (che ha ritenuto applicabile la circostanza aggravante della cosiddetta colpa cosciente);

4) l'errore costituito dall'aver sparato ad altezza d'uomo, anziché in aria.

Per quanto riguarda la “colpa d' organizzazione” lamentata dal sig. G., nell'atto della Procura Regionale si osserva che è inevitabile che, in un caso come quello di specie, la causazione dell'evento funga quale conditio sine qua non, sia ai fini dell'esistenza di un reato penale, sia in ordine alla risarcibilità di un danno erariale. A quest'ultimo riguardo deve reputarsi non grave la colpa che pur potesse ascriversi a chi avrebbe dovuto meglio addestrare il convenuto in un conflitto a fuoco (reale o, come nel caso concreto, apparente).

In data 3 gennaio 2003 il sig. G. si è costituito in giudizio depositando una memoria difensiva recante, a margine, delega di rappresentanza e difesa a favore dell'avv. Alessandra DE ROSA del Foro di Ferrara.

In detta memoria, dopo un riepilogo delle vicende che hanno condotto al presente giudizio, si contestano le tesi della Procura Regionale sotto diversi profili.

In primo luogo si osserva che nella ricostruzione degli avvenimenti svoltisi la mattina del 25 giugno 1990 effettuata dal Procuratore Regionale non si tiene in alcun conto il complessivo comportamento colposo tenuto dall'Amministrazione: dalle sentenze penali emerge che il sig. G. si trovò per la prima volta nella sua vita implicato in una sparatoria da altri iniziata e da lui solo conclusa, che nessuno gli aveva in precedenza spiegato come si dovesse far uso delle armi in un servizio di ordine pubblico e che mancò un effettivo coordinamento.

Esisterebbe, quindi, secondo il convenuto (che fa riferimento a giurisprudenza di questa Corte), una “colpa d'organizzazione” che escluderebbe la colpa grave e comporterebbe l'applicazione dell'art. 1227 del codice civile.

In secondo luogo, nell'anzidetta memoria, riconosciuta l'inammissibilità di una nuova istruttoria volta alla ricostruzione dei fatti avvenuti nella mattina del 25 giugno 1990, si nega l'esistenza di un nesso eziologico, tra tali fatti ed il danno erariale contestato, sulla base di alcune testimonianze (secondo le quali furono sparati altri colpi d'arma da fuoco dopo quello che causò il decesso del sig. B., che a portarsi le mani nei capelli, dopo avere sparato, fu un agente diverso dal sig. G.), nonché tenendo conto della posizione del convenuto al momento dello sparo, del fatto che non tutte le armi degli agenti intervenuti nell'operazione furono sottoposte a perizia, della contraddittorietà delle consulenze sulle armi e del comportamento del dott. P. (ritenuto non corretto in primo grado).

Nella memoria stessa si contesta poi la quantificazione del danno erariale, osservando che l'accordo transattivo tra il Ministero dell'Interno e la famiglia del sig. B. si è concluso senza la partecipazione del convenuto, che l'importo richiesto è superiore a quello conteggiato in via provvisionale dal giudice penale e non tiene conto della somma di circa Euro 16.000 già versata ai parenti della vittima (attraverso il pignoramento del quinto), che nell'importo preteso sono conteggiati Euro 12.912,00 per la liquidazione della nota spese presentata dall'avvocato difensore dei parenti del B. (spese non addebitabili al convenuto) e che il reddito della vittima (pari a circa €. 700 mensili) non giustifica la somma liquidata.

Dopo l'affermazione di assenza di danno erariale in conseguenza del reato di frode processuale, la memoria si conclude con la richiesta, in via principale, di reiezione della domanda della Procura Regionale e, in via subordinata, di condanna del convenuto al risarcimento del solo danno erariale da lui effettivamente cagionato.

Nell'odierna pubblica udienza l'avv. Alessandra De Rosa, in difesa del convenuto, ha ribadito e precisato le argomentazioni sviluppate nella memoria di costituzione, con particolare riguardo alla c.d. “colpa d' organizzazione”, ai dubbi relativi all'istruttoria penale ed alla quantificazione del danno erariale.

Il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Eugenio Musumeci, ha ribadito l'esistenza di una colpa grave del convenuto (citando quanto affermato a pag. 26 della sentenza pretorile, osservando che l'incertezza della situazione doveva indurre ad una prudenza ancora maggiore e ricordando la volontarietà dello sparo); ha affermato (in relazione all'art. 1227 del codice civile) che la somma richiesta è analoga a quella determinata dal Giudice penale; ha sostenuto l'addebitabilità delle spese legali sostenute dal Ministero dell'Interno e la non responsabilità dei superiori del convenuto; ha richiamato, per quanto riguarda il profilo balistico, il contenuto della sentenza penale di primo grado, osservando che la prima perizia non individuò altro responsabile e non ritenne compatibile l'arma del sig. G. perché alterata; per quanto concerne il comportamento del dott. P. ha rilevato che non risulta che la Procura della Repubblica abbia proceduto nei suoi confronti; per ciò che attiene alla quantificazione del danno erariale ha osservato che la mancata partecipazione del convenuto alla transazione è irrilevante (dato che la lite si svolgeva tra l'Amministrazione ed i superstiti), che quanto richiesto non è eccessivo e che il reato di frode processuale, pur non producendo danno, deve essere considerato ai fini della valutazione del comportamento complessivo del sig. G.; ha richiamato, infine, i quattro elementi, indicati nell'atto di citazione, che “rendono gravissima la colpa” ascrivibile al predetto.

In sede di replica l'avv. Alessandra De Rosa ha affermato, in contrasto con quanto detto dal Pubblico Ministero, che la condanna a dieci mesi per omicidio colposo deve ritenersi mite e che l'azione all'esame si è svolta in un contesto largamente esimente, reso drammatico non dal sig. G., bensì dalla precedente rissa.

In tale stato la causa è stata riservata per la decisione.

Considerato in

DIRITTO

L'ipotesi di danno erariale sottoposta al giudizio della Corte è collegata al comportamento tenuto dal convenuto, Agente della Polizia di Stato, nel partecipare a Bologna, insieme ad altri suoi colleghi, la mattina del 25 giugno 1990, ad un'operazione di polizia finalizzata alla cattura dei protagonisti di una rissa che era scoppiata poco prima in Via Gobetti e che si era conclusa con il ferimento di due persone (una delle quali a causa di un colpo di arma da fuoco).

Nel corso della suddetta operazione, indirizzata, grazie soprattutto all'ausilio di un elicottero, verso un casolare di Via Erbosa, la Polizia sparava alcuni colpi di pistola, uno dei quali colpiva a morte un cittadino tunisino che si era affacciato ad una finestra del casolare stesso.

In relazione a tale evento il convenuto fu condannato, in sede penale, in primo grado a mesi dieci di reclusione per omicidio colposo e ad anni uno di reclusione per frode processuale (per avere modificato la canna della propria pistola al fine di impedirne l'individuazione); tale condanna fu confermata dalla Corte d'Appello di Bologna e dalla Corte di Cassazione.

Sulla base degli elementi probatori emersi in sede penale la Procura Regionale ha ritenuto il comportamento del convenuto all'origine del danno erariale di Euro 105.338,81 (pari a lire 203.964.380) corrispondente all'esborso sopportato dal Ministero dell'Interno per risarcire, in via transattiva, i superstiti del deceduto.

Secondo la difesa del convenuto, la colpa grave sarebbe esclusa dal difettoso coordinamento dell'operazione che comportò l'evento letale: esisterebbe, cioè, una “colpa d'organizzazione” per cui sarebbe applicabile l'art. 1227 c.c.; inoltre la ricostruzione dei fatti sulla base degli elementi emersi in sede penale presenterebbe delle incertezze; ancora, l'importo pagato dal Ministero sarebbe esagerato e non può ricadere su chi non ha partecipato alle trattative per la transazione; infine nessun danno erariale può derivare dal reato di frode processuale.

Osserva la Sezione che, nel caso concreto, risultano sussistere tutti gli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa.

Infatti, gli elementi conoscitivi raccolti nel corso della vicenda penale offrono un supporto probatorio idoneo ad affermare l' esistenza di detti elementi.

Dalla sentenza penale di primo grado (peraltro sostanzialmente confermata in appello) risulta invero quanto segue.

“Si accerta subito ... che gli occupanti dei casolare non avevano fatto uso di arma da fuoco (nessuna pistola fu trovata nel corso della perquisizione locale e personale ...)” (pag. 4); "... nell'immediatezza dei fatti, dichiarano di aver sparato gli agenti S., O., C. e il dott. P. ..., mentre nessun carabiniere ... risulta aver fatto uso di armi da fuoco" (pag. 4); "... nessuno dei numerosi testi escussi ha visto altre persone sparare ..." (pag. 4); "... C., P. e M. hanno dichiarato che gli ultimi colpi provennero dalle loro spalle [cioè dalla zona in cui si trovavano S. e G.] ..." (pag. 4); "... S. e G. hanno confermato questa circostanza, precisando concordemente che fu appunto l'imputato a sparare l'ultimo colpo, dalla massicciata ferroviaria" (pagg. 4-5); "... il teste M. ha precisato che ai colpi provenienti dalla ferrovia corrispose “in contemporanea” un urlo proveniente dalla casa” (pag. 5); "II C.T. del P.M. Jesurum, il cui operato non è stato contestato dalla difesa, ha eseguito l'esame autoptico sul corpo dell'ucciso ed ha rinvenuto un proiettile calibro 9 lungo, ... del tipo di quelli in dotazione ... all'agente G." (pag. 5); "Tale proiettile è stato sparato da un punto 'abbastanza lontano', ... così definito per esclusione: se fosse stato esploso da distanza ravvicinata (m. 7 in ipotesi) l'energia cinetica del proiettile sarebbe stata tale da fargli sicuramente trapassare il corpo della vittima; poiché così non è stato, ... il C.T. ha concluso, senza che alcuno obiettasse in contrario, che la distanza dello sparatore era certamente superiore ai 25 metri" (pag. 5); "... queste conclusioni inducono ad escludere che il proiettile mortale sia stato esploso dalle armi di C. e P., che si trovavano a ridosso della casa ad una distanza di 7-10 metri, mentre configurano una situazione di compatibilità con uno sparo proveniente dalla massicciata [ferroviaria], la cui distanza dal casolare supera nettamente i 25 metri indicati dal consulente" (pagg. 5-6); "il colpo [mortale] ... non poteva provenire dalle pistole di C. e P., quest'ultimo addirittura in possesso di una pistola non semiautomatica, tipo revolver, in quanto tale esplodente diverso tipo di proiettili" (pag. 15 della sentenza d'appello); "... il colpo [mortale] è stato sparato frontalmente, ... per cui, ipotizzando una posizione eretta del B. giunto nel riquadro della finestra (posizione confermata dai testi presenti nella stanza ...), lo sparatore doveva necessariamente trovarsi ad un'altezza pari o quasi a quella della persona colpita. Questo porta ad escludere nuovamente la possibilità che il colpo sia partito dal basso, ove si trovavano P. e C., mentre rimanda, ancora una volta, a chi ha sparato dalla massicciata, che, come si evince dalle foto in atti ..., è posta all'altezza della finestra della casa ove si trovava il B." (pag. 6); l'ipotesi avanzata dalla difesa, secondo cui se il tunisino "si fosse inclinato in avanti affacciandosi alla finestra, il colpo, pur sparato dal basso, avrebbe prodotto un tramite diretto, pari a quello riscontrato ..., già scartata all'inizio dal C.T. ('Se sporgeva dalla finestra avrebbe dovuto cader di sotto ...'), è stata poi smentita ... dalle altre risultanze istruttorie, in quanto il B. si avvicinò soltanto alla finestra e, colpito dal proiettile, cadde all'indietro ..." (pag. 6-7); "... l'uccisione del tunisino è avvenuta nella mattinata del 25/6; G. è rimasto in possesso della [propria] pistola per diverse ore, prima che gli venisse ritirata in via cautelare ... verso le h. 1 del giorno successivo ..." (pag. 7-8); "... l'arma [in dotazione al G.] veniva esaminata nel corso di due successivi accertamenti tecnici, assieme ad un bossolo rinvenuto sulla massicciata ed al proiettile estratto dal corpo di B. ... Assieme all'arma del G. venivano esaminate anche la pistola usata dall'agente S., nonché le 'Beretta' in dotazione al personale della polizia operante quel giorno" (pag. 8); "II C.T. F. ha accertato che la pistola usata da S. non ha sparato il proiettile repertato, né ha esploso il bossolo rinvenuto sulla massicciata e che nella canna dell'arma non sono state rilevate tracce riconducibili ad ipotesi di alterazione (circostanza questa confermata dal C.T. della difesa ...) ..." (pag. 8); "II C.T. F. ha invece accertato che la pistola dì G. ha esploso il bossolo rinvenuto sulla massicciata e sparato il proiettile estratto dal corpo di B. ... e che all'interno della canna sono presenti 'evidenti segni di alterazione eseguiti verosimilmente con cacciavite o attrezzo similare' (... sull'esistenza di tali alterazioni concordano la difesa ed il C.T. da lei nominato ...)" (pag. 8-9); "... con l'ausilio di sonde endoscopiche a fibre ottiche ... nell'anima della canna della pistola di G. venivano rilevate talune graffiature, concentrate in fasci ..." (pag.10); "... lo stesso ... consulente [tecnico del G.] ha definito 'ineccepibile' la perizia del ... F. ...; ha riconosciuto ... che tra due parti del proiettile repertato e quelli sperimentali sparati dall'arma del G. vi erano 'analogie inequivocabili', mentre nessuna analogia si è riscontrata con quelli sperimentali sparati con la pistola di S.; ha accertato lui stesso l'esistenza delle striature frutto di un'alterazione manuale prodotta nella canna della pistola di G. ..." (pag. 10-11); "Quanto all'occasione dell'alterazione, l'ipotesi alternativa formulata dal C.T. della difesa [concernente una maldestra operazione di pulizia] è stata smontata dallo stesso imputato che ha ammesso di non aver pulito affatto l'arma, in quelle poche ore in cui era rimasta in suo possesso ..." (pag. 12); "... G., che sapeva di aver sparato e che sin dall'inizio conosceva i sospetti che si erano addensati sulla polizia, aveva un interesse ben preciso a rendere l'arma non identificabile in sede di perizia; ed aveva avuto tutto il tempo - diverse ore - per provvedere in tal senso" (pag. 12); "... l'accertamento tecnico esperito subito dopo i fatti ha dato risultato negativo ... proprio in forza di quelle alterazioni" (pag. 25).

Così configurato il fatto in questione, è possibile trarne le debite conseguenze giuridiche per quanto qui interessa.

L'azione del convenuto è stata, innanzi tutto, un'azione volontaria (giacché le modalità sopra descritte escludono uno sparo accidentale); è stata, inoltre, caratterizzata da gravissima imprudenza (poiché se l'intento dello sparatore era quello intimidatorio, l'arma doveva essere rivolta verso l'alto) o da gravissima imperizia, in quanto, se l'intento era quello di sostenere l'azione dei colleghi, non poteva essere attuata senza la ricerca di un preventivo coordinamento con gli stessi.

Il comportamento dell'agente qui convenuto deve dunque ritenersi caratterizzato da colpa grave, che si colora di ulteriore gravità ove si consideri l'alterazione della pistola usata (al fine di impedire l'individuazione della stessa) per la quale è intervenuta condanna per il reato di frode processuale (art. 374 c.p.).

In ordine alle obiezioni difensive, si osserva che l'eventuale difetto di coordinamento dell'operazione nel cui ambito si è verificato l'evento letale in questione non esclude la colpa grave del convenuto alla luce degli elementi emersi in sede penale riguardo alla sua condotta; si osserva, inoltre, che tali elementi (di cui è detto in narrativa) compongono un quadro complessivamente chiaro e convincente dello svolgimento dei fatti; si condivide la tesi della Procura Regionale secondo cui la mancata partecipazione del convenuto alle pattuizioni transattive deve ritenersi irrilevante dovendosi all'epoca porre fine ad una lite tra il Ministero dell'Interno ed i superstiti. Si prende atto, infine, che le Parti concordano sull'assenza di danno erariale in relazione al reato di frode processuale.

Appurata l'esistenza, nel caso concreto, di tutti gli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa - rapporto di servizio, colpa grave, nesso di causalità, danno erariale - la Sezione ritiene, per quanto riguarda la quantificazione dell'addebito, di dover fare ampio uso del potere riduttivo conferitole dalla legge (art. 52 del Testo unico delle leggi sulla Corte dei Conti, approvato con regio decreto 12 luglio 1934, n. 1214).

Tale convincimento si basa - in armonia con orientamenti già manifestati dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. I. centrale, 2 aprile 1990, n. 63; Sezioni Riunite, 14 dicembre 1988, n. 595; Sez. I centrale, 26 novembre 1990, n. 244) - sulla considerazione delle circostanze (piuttosto confuse) nel cui ambito il convenuto si è trovato ad operare in occasione dei fatti di cui trattasi.

Tali circostanze non escludono, ovviamente, la gravità della colpa, ma riducono il grado di incidenza del comportamento colposo del convenuto sull'entità del danno sofferto dall'Amministrazione: si ritiene pertanto di dover ridurre il danno addebitabile ad euro 50.000 (cinquantamila).

Alla stregua delle suesposte considerazioni si deve affermare la responsabilità amministrativa del convenuto per l'importo anzidetto, cui devono aggiungersi la rivalutazione monetaria dalla data dell'esborso a quella del deposito della sentenza e gli interessi legali dalla data di tale deposito sino al saldo effettivo.

Le spese seguono la soccombenza.

Omissis