Corte di cassazione

 

Sezione lavoro

 

Sentenza 6 ottobre 2005, n. 19414

 

 

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

 

Con sentenza 19 luglio-23 agosto 2001 il Tribunale di Lecco rigettava la domanda di (omissis) (omissis) intesa ad ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimatogli dalla Invernizzi Presse s.n.c. per avere svolto attività di lavoro ed altre attività incompatibili con lo stato di malattia denunciato, in relazione al quale era stato prescritto un periodo di riposo necessario per il recupero della salute.

Osservava il primo giudice che non era stato necessario disporre una consulenza tecnica medico-legale, in quanto l'oggetto della controversia non era già l'effettività delle patologie riscontrate, sulla quale non sussisteva dubbio alcuno, ma la «correttezza del dipendente nell'osservare il comportamento e le cautele utili, durante un periodo di malattia, ad ottenere la guarigione».

Il rapporto di lavoro - sottolineava il Tribunale - è pur sempre fondato su un contratto bilaterale che non sfugge alle norme generali in materia di contratto previste dagli artt. 1175 e 13 75 c.c.

La prestazione, da parte del dipendente, di altra attività lavorativa durante il periodo di malattia, pur non essendo in linea di massima vietata in modo assoluto, può concretare, tuttavia, un inadempimento degli obblighi imposti al lavoratore - ed in particolare del dovere di fedeltà inteso in senso ampio e comprensivo non soltanto delle specifiche previsioni di cui all'art. 2105 c.c., ma anche degli obblighi non codificati conseguenti al generale dovere di esecuzione del contratto secondo buona fede (art. 1375 c.c.) - allorché evidenzi la simulazione delle infermità ovvero comprometta, come nel caso di specie, la guarigione del lavoratore per inosservanza del dovere di porre in atto tutte le cautele necessarie ad un rapido recupero delle energie psico-fisiche.

Anche a prescindere dalle indagini investigative compiute dal datore di lavoro, osservava il Tribunale, le condotte contestate al (omissis) erano state pienamente confermate dalle testimonianze raccolte.

I testi avevano visto il (omissis) trasportare per alcuni lavori agricoli una pesante scala di ferro (sulla spalla destra, per la quale aveva denunciato l'esistenza di dolori tali da comportare la necessità di astensione dal lavoro, per trauma distorsivo). Lo stesso aveva provveduto alla potatura di alcune piante del proprio campo, aveva trasportato un grosso trave di legno e persino un pesante frigorifero, aveva zappato il campo per oltre un'ora. Era uscito di casa e si era avviato per una strada di montagna, utilizzando una bicicletta da cross, tipo mountain bike.

Il licenziamento del (omissis), concludeva il Tribunale, doveva pertanto considerarsi del tutto legittimo.

Osservava il Tribunale che nel contratto collettivo applicabile al caso di specie è espressamente previsto un generale dovere di rispetto del riposo durante il periodo di malattia (art. 24 lett. e) paragrafo 4 e successivo chiarimento a verbale): «licenziamento: vi si incorre in genere in tutti i casi in cui la gravità del fatto osta alla ulteriore prosecuzione del rapporto di lavoro ed in particolare... per inosservanza delle norme mediche per malattia... per inosservanza delle norme mediche di cui al paragrafo 4 del comma e) (licenziamento), le parti hanno inteso unicamente inosservanza da parte del lavoratore delle prescrizioni mediche riguardanti il riposo e l'obbligo per il lavoratore di rimanere nel proprio domicilio».

Tale clausola contrattuale conforta ulteriormente la conclusione secondo la quale il dipendente, attuale ricorrente, avrebbe dovuto astenersi da comportamenti anche solo parzialmente idonei a ritardare la guarigione e, comunque, astenersi da quelle attività non coincidenti con il riposo previsto per i periodi di malattia.

Con sentenza 28 gennaio-14 febbraio 2003 la Corte d'appello di Milano accoglieva l'appello del (omissis), annullando il licenziamento intimato in data 4 luglio 1999.

Con la stessa decisione i giudici di appello condannavano la società Invernizzi presse al pagamento della retribuzione globale di fatto nella misura mensile dal giorno del licenziamento a quello della notificazione del ricorso 21 luglio 2000, nonché al pagamento della somma ulteriore di lire 84.700.000 oltre interessi e rivalutazione sulle retribuzioni dalle singole scadenze mensili (a titolo di indennità sostitutiva della reintegrazione).

I giudici di appello rilevavano che nel caso di specie era fuori discussione lo stato di malattia del (omissis)

Il comportamento contestato allo stesso era, infatti, quello di avere, durante il periodo di malattia, effettuato sforzi pregiudizievoli del più pronto recupero fisico (e non anche di aver svolto attività lavorativa in favore di terzi).

La consulenza tecnica di ufficio, disposta in appello, aveva escluso che l'attività svolta dal (omissis) avesse comunque avuto come conseguenza un aggravamento della malattia o un ritardo nella guarigione.

Il giudizio del consulente tecnico di ufficio era stato condiviso persino dal consulente di parte, nominato dalla società appellata.

Da tale accertamento conseguiva, necessariamente, l'inesistenza di una giusta causa di recesso, in ordine alla quale i giudici di appello segnalavano - in linea subordinata - la evidente sproporzione della sanzione rispetto ad una condotta, che risultava al più dettata da (incerta) imprudenza e non motivata da intento speculativo.

Avverso tale decisione la società Invernizzi presse ha proposto ricorso per cassazione sorretto da cinque distinti motivi.

Resiste il (omissis) con controricorso.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

Con il primo motivo la società ricorrente denuncia nullità della sentenza, per violazione dell'art. 132, comma 2, c.p.c. (ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c.).

Nell'epigrafe della sentenza impugnata la società è indicata come "Invernizzi Presse" senza indicazione dell'esatta ragione sociale: Invernizzi Presse di Invernizzi Maggi Laura & C. s.n.c.

Trattandosi non di mero errore materiale, ma di omissione grave, ne deriverebbe la nullità della sentenza di appello per mancanza di un requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale.

Il motivo è privo di fondamento.

L'omessa o inesatta indicazione del nome di una delle parti nell'intestazione della sentenza, secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte, deve essere considerata come un errore materiale, emendabile con la procedura di cui agli artt. 287 e 288 c.p.c., quando dal contesto della sentenza risulti, con sufficiente chiarezza, l'esatta identità di tutte le parti (nel caso di specie nelle conclusioni per l'appellante è riportata chiaramente la ragione sociale della società Invernizzi Presse di Invernizzi Maggi Laura & C. s.n.c.).

Essa comporta, invece, la nullità della sentenza qualora da essa si deduca che non si è regolarmente costituito il contraddittorio, ai sensi dell'art. 101 c.p.c., e quando sussista una situazione di incertezza, non eliminabile a mezzo della lettura dell'intera sentenza, in ordine ai soggetti cui la decisione si riferisce (Cassazione 8242/2003, 9077/2001).

Con il secondo motivo la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1375, 2104 e 2106 c.c., ai sensi dell'art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, c.p.c., in relazione al disposto dell'art. 2119 c.c. e dell'art. 1 della l. 604/1966 nonché motivazione insufficiente e contraddittoria in ordine alla giusta causa di licenziamento.

La sentenza di appello aveva riformato la decisione di primo grado senza prendere in considerazione le articolate motivazioni del giudice di primo grado e le numerose eccezioni sollevate dalla difesa della società in primo grado e ribadite in sede di appello. Nella decisione impugnata non era contenuta neppure una disposizione di legge tale da spiegare l'accoglimento della domanda dell'originario ricorrente.

La contestazione formulata dalla società, con la lettera del 23 novembre 1999, era del tutto chiara e faceva riferimento alla malattia denunciata dal (omissis) («causata da un persistente dolore alla spalla causata da una lesione ad un legamento»).

In essa si sottolineava che gli accertamenti effettuati avevano consentito di appurare che il (omissis) non aveva «rispettato le elementari e generali norme che prescrivono il riposo durante la malattia affinché sia possibile il recupero psicofisico nei tempi strettamente necessari (vedasi, infatti, certificazione di prosecuzione di malattia)».

Tale condotta, secondo la società Invernizzi, si poneva in aperto contrasto con le norme di legge e di contratto collettivo che prescrivono, da parte del lavoratore, un preciso obbligo di diligenza, probità e lealtà nei confronti dell'impresa.

A questa precisa contestazione, il (omissis) aveva risposto - con toni sprezzanti - che non sussisteva alcun dovere di correttezza, diligenza e lealtà del lavoratore nei confronti dell'azienda.

Sotto altro profilo, l'ex dipendente aveva negato, tuttavia, di aver commesso i fatti contestati, affermando addirittura di aver seguito l'iter diagnostico e terapeutico prescritto dagli specialisti di settore per accelerare il rientro dal lavoro, in relazione alla patologia (sintomatologia dolorosa conseguente ad una lieve distorsione della spalla destra).

Le attività poste in essere dal (omissis), consistite nel trasporto di pesanti materiali di legno e di metallo, trasporto di frigoriferi, lavori nei campi, gite in mountain bike erano da considerare ben più pesanti ed usuranti rispetto a quelle svolte in concreto dall'originario ricorrente nell'espletamento delle sue mansioni in azienda.

Delle due ipotesi, sottolinea la società ricorrente, solo una era praticabile: o il (omissis) non soffriva di alcun impedimento fisico (ed allora non si comprende per quale motivo gli era stato prescritto un prolungamento della malattia di quasi tre mesi) ovvero, in presenza di una vera patologia, egli aveva l'onere di osservare il riposo dell'articolazione.

Al di là di ogni valutazione strettamente medica, risultava evidente che comportamenti di questo genere contrastavano con il dovere del lavoratore di collaborare per una pronta guarigione.

In altre parole, il (omissis) aveva abusato ingiustificatamente del diritto previsto dall'art. 2110 c.c. per svolgere durante il periodo di malattia attività che si ponevano in grave contrasto con i doveri di correttezza, probità e lealtà del lavoratore nei confronti dell'azienda, di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. in relazione agli artt. 2104 e 2106 stesso codice.

La sentenza impugnata non aveva preso assolutamente in esame le norme di legge applicabili al caso di specie e non aveva considerato che, per aversi inadempimento del lavoratore, non è necessario che le azioni pregiudichino o ritardino in concreto la guarigione, bensì che tali condotte siano, anche solo potenzialmente, idonee a produrre tale risultato.

Era poi circostanza del tutto irrilevante che il (omissis), durante il periodo di malattia, si fosse sottoposto a laserterapia.

Infatti, le operazioni e le attività svolte dallo stesso durante il periodo di malattia si ponevano in palese contrasto con queste terapie.

Costituiva travisamento dei fatti storici, oltre che mancata considerazione delle norme di diritto da applicare, l'osservazione finale contenuta nella sentenza impugnata, secondo la quale le attività svolte dal (omissis) avrebbero dovuto essere considerate senza eccessiva severità, in quanto da imputarsi a mera imprudenza e non dettate comunque da intento speculativo.

Con il terzo motivo la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1375, 2104 e 2106 c.c., ai sensi dell'art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 c.p.c., in relazione al disposto dell'art. 7 della l. 300/1970 ed al contratto collettivo settore metalmeccanici nonché motivazione omessa, insufficiente e/o contraddittoria in ordine all'accertamento dell'infrazione disciplinare anche sotto il criterio della proporzionalità della sanzione.

La ricorrente richiama la giurisprudenza di questa Corte la quale ritiene la esistenza di una giusta causa di licenziamento nel caso di lavoratore che, in periodo di malattia, compia attività con caratteristiche idonee a far escludere l'impedimento evidenziato dalla documentazione medica, oppure abbia caratteristiche anche solo potenziali idonee a ritardare il rientro al lavoro.

La ricorrente richiama anche la contrattazione collettiva applicabile al caso di specie, secondo la quale la mancata osservanza del riposo terapeutico e dell'obbligo del lavoratore di permanere nel proprio domicilio durante il periodo di malattia è causa di licenziamento disciplinare.

I giudici di appello avevano, inoltre, commesso due errori tali da viziare la parte motiva della sentenza.

Avevano, innanzi tutto, errato nell'interpretazione della consulenza tecnica di ufficio.

Non rispondeva, infatti, a verità che mancasse ogni prova circa l'idoneità delle attività svolte dal (omissis) ad avere effetti pregiudizievoli sul decorso della malattia.

Molto più semplicemente il consulente nominato dall'ufficio (in grado di appello) aveva sottolineato che, mancando elementi oggettivi strumentali relativi al periodo di malattia, non era dato conoscere con certezza come si muovesse il (omissis) al momento dell'evento lesivo e dei successivi controlli ambulatoriali.

Un secondo errore avevano compiuto i giudici di appello. Essi, infatti, non avevano considerato che era onere del lavoratore fornire la prova che l'inosservanza di un preciso obbligo previsto dalla contrattazione collettiva fosse del tutto irrilevante ai fini della applicazione della prevista sanzione.

Osservando, invece, che la società Invernizzi Presse non aveva dimostrato l'idoneità delle attività svolte dal (omissis) ad essere potenzialmente pregiudizievoli del più pronto recupero fisio-psichico, la Corte d'appello aveva finito per ribaltare l'onere probatorio che spettava al lavoratore.

Del tutto immotivata appariva poi la osservazione finale, formulata dai giudici di appello come una sorta di seconda "ratio decidendi" ovvero come una motivazione subordinata aggiunta a sostegno della prima conclusione, secondo la quale vi era comunque sproporzione tra fatto contestato e sanzione adottata.

Con il quarto motivo la società ricorrente denuncia nullità della sentenza, ai sensi dell'art. 360, comma 1, c.p.c., in relazione al disposto dell'art. 156 e 132 c.p.c., in subordine, violazione e/o falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. per ultrapetizione (art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.).

La sentenza impugnata, nella parte dispositiva, conteneva un errore tale da determinare la nullità della decisione, indicando come data del disposto licenziamento il 4 luglio 1999 anziché il 4 dicembre 1999.

In tal modo, secondo la ricorrente, la società si troverebbe a pagare una somma di gran lunga superiore a quella in ipotesi dovuta (dodici anziché sette mesi).

Tra l'altro, il (omissis) aveva chiesto solo la condanna dell'appellata al pagamento di cinque mensilità di retribuzione, ai sensi dell'art. 18 della l. 300/1970, sicché la pronuncia dei giudici di appello doveva considerarsi ultra petita.

I motivi dal secondo al quarto devono essere esaminati in ordine diverso da quello esposto in ricorso.

Deve, innanzi tutto, rilevarsi l'assoluta infondatezza del quarto motivo.

Dalla lettura della motivazione risulta che il licenziamento venne intimato effettivamente in data 4 dicembre 1999.

In questi termini, pertanto, deve interpretarsi il dispositivo della stessa sentenza.

Né a ciò può dirsi di ostacolo la circostanza che del dispositivo sia stato data pubblica lettura.

Infatti, ciò che deve considerarsi sancito in sentenza è il principio di diritto e l'ordine di risarcire il danno con decorrenza dalla data del disposto licenziamento.

La apparente contraddittorietà denunciata dalla ricorrente può essere superata da una lettura complessiva della decisione, che individua esattamente la data dell'intimato licenziamento, con la conseguenza che non vi è alcuna ragione per giungere alla dichiarazione di nullità della sentenza.

Quanto al secondo motivo di ricorso, è da dire che con motivazione adeguata e logica i giudici di appello hanno premesso che nel caso di specie lo stato di malattia del (omissis) poteva dirsi fuori discussione.

Unico punto da decidere riguardava pertanto se lo svolgimento di altra attività fisica (non prestata in favore di altri ma per sé stesso durante un periodo di malattia da un lavoratore ammalato) fosse o meno pregiudizievole ad un pronto recupero psichico e fisico dello stesso lavoratore ed, in caso affermativo, se questo fatto potesse costituire giusta causa di licenziamento.

Il giudice di primo grado ha dato risposta affermativa a questo quesito.

I giudici di appello hanno ribaltato la decisione di primo grado, richiamando i risultati della consulenza tecnica medico legale.

Secondo quest'ultima, non vi era alcuna prova che gli sforzi cui il (omissis) si era sottoposto durante la malattia, risultanti dalle dichiarazioni rese dai testimoni, fossero stati tali da pregiudicare o comunque porre solo in pericolo la guarigione dello stesso lavoratore.

Tali sforzi, ha aggiunto l'ausiliare del giudice, del resto, erano stati posti in essere dopo la scadenza del termine di prescrizione al (omissis) dell'uso del tutore.

Non risultava, infine, che al (omissis) fosse stato esplicitamente prescritto riposo dell'articolazione (anche se tale circostanza appare altamente probabile in conseguenza del tipo di patologia).

Il consulente nominato dall'ufficio, premesso che il tipo di lesione riportata dal lavoratore poteva avere diverse potenzialità, in ragione dello stato della muscolatura del ricorrente, ha chiaramente escluso il rischio di un aggravamento della patologia come conseguenza della patologia denunciata dal (omissis)

Il giudizio del consulente tecnico di ufficio è stato condiviso dal consulente di parte nominato dalla società appellata.

Contro tale valutazione, incensurabile in questa sede di legittimità, si infrangono tutte le censure formulate dalla attuale ricorrente.

Ogni valutazione in merito alla gravità dei fatti addebitati è preclusa per effetto della accertata insussistenza degli stessi (nei limiti indicati dalla contestazione disciplinare).

Con il quinto motivo la società denuncia, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia, violazione ed omessa applicazione dell'art. 1227 e 1223 c.c. in relazione al disposto dell'art. 18 della l. 300/1970, nonché motivazione insufficiente e contraddittoria in ordine alla quantificazione del risarcimento del danno.

I giudici di appello avevano senza alcuna motivazione riconosciuto al (omissis) il diritto al pagamento delle retribuzione dalla data del licenziamento (luglio 1999) sino al luglio 2000 (data della notifica del ricorso di primo grado).

Nel caso di specie era circostanza del tutto pacifica che il (omissis), già prima del gennaio 2000, avesse reperito altra occupazione presso la ditta Bonfanti s.n.c. di Cisano Bergamasco. Tale circostanza era stata ammessa dal (omissis) alla prima udienza tenutasi dinanzi al Tribunale di Lecco.

Sin dalla memoria di costituzione la società in nome collettivo Invernizzi Presse aveva richiesto che, in denegata ipotesi di soccombenza, fosse disposta la compensazione tra le somme liquidate, nella misura di giustizia, in favore del (omissis) e quelle da lui percepite da altro datore di lavoro successivamente al licenziamento, nonché le indennità di disoccupazione eventualmente erogate dall'Inps per il periodo di disoccupazione.

In ogni caso, doveva essere detratto dal compenso da erogare al (omissis) la contribuzione Inps ed Inail.

Il motivo è fondato e deve essere accolto.

I giudici di appello hanno omesso di pronunziare in ordine alla eccezione dell'aliunde perceptum, ritualmente sollevata sin dal primo grado del giudizio, incorrendo nei vizi di omessa pronuncia e di violazione di legge denunciati.

Dalle somme liquidate a titolo risarcitorio, riconosciute con decorrenza dalla data del disposto licenziamento, i giudici di appello avrebbero dovuto detrarre quanto ricevuto dal (omissis) a titolo di retribuzione per effetto della nuova occupazione, secondo consolidato indirizzo giurisprudenziale di questa Corte (Cassazione 6548/2000, 11341/2000, 2853/2002).

I giudici di appello non si sono attenuti a tale principio di diritto, non pronunciando sulla richiesta in tal senso formulata dalla società appellante.

Conclusivamente deve accogliersi il quinto motivo del ricorso per quanto di ragione rigettati tutti gli altri motivi di ricorso.

La sentenza deve essere cassata con rinvio ad altro giudice che procederà a nuovo esame, attenendosi ai principi di diritto sopra enunciati.

Il giudice di rinvio provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di cassazione.

Il ricorso deve essere rigettato nel resto.

 

P.Q.M.

 

La Corte accoglie il quinto motivo di ricorso per quanto ragione e rigetta gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia anche per le spese alla Corte d'appello di Torino. Rigetta nel resto.