LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Gustavo ZAGREBELSKY Presidente
- Valerio ONIDA Giudice
- Carlo MEZZANOTTE "
- Fernanda CONTRI "
- Guido NEPPI MODONA "
- Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfonso QUARANTA " ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 204-bis, comma 3, del
decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada),
disposizione introdotta dall'art. 4, comma 1-septies, del decreto-legge 27
giugno 2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni al codice della strada),
aggiunto dalla legge di conversione 1° agosto 2003, n. 214, promossi con
ordinanze del 22 settembre 2003 dal Giudice di pace di Mestre, del 28
agosto 2003 dal Giudice di pace di Anzio, del 12 settembre 2003 dal
Giudice di pace di Vietri di Potenza, del 2 ottobre 2003 dal Giudice di
pace di Bari, del 30 agosto 2003 dal Giudice di pace di Montepulciano, del
20 ottobre 2003 dal Giudice di pace di Bari, del 17 ottobre 2003 dal
Giudice di pace di Recco, del 9 ottobre 2003 dal Giudice di pace di Reggio
Calabria, del 21 ottobre 2003 dal Giudice di pace di Pratola Peligna, del
17 ottobre 2003 dal Giudice di pace di Pisa, del 16 ottobre 2003 dal
Giudice di pace di Mestre e del 6 ottobre 2003 dal Giudice di pace di
Asiago, rispettivamente iscritte ai nn. 996, 997, 999, 1044, 1047, 1081,
1083, 1087, 1092, 1094, 1095 e 1110 del registro ordinanze 2003 e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 47, 49, 50, 51 e
52, prima serie speciale, dell'anno 2003.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 10 marzo 2004 il Giudice relatore
Alfonso Quaranta.
Ritenuto in fatto
1.¾ I Giudici di pace di Mestre (r.o. n. 996 e n. 1095 del 2003), Anzio (r.o.
n. 997 del 2003), Vietri di Potenza (r.o. n. 999 del 2003), Bari (r.o. n.
1044 e n. 1081 del 2003), Montepulciano (r.o. n. 1047 del 2003), Recco (r.o.
n. 1083 del 2003), Reggio Calabria (r.o. n. 1087 del 2003), Pratola
Peligna (r.o. n. 1092 del 2003), Pisa (r.o. n. 1094 del 2003) ed Asiago (r.o.
n. 1110 del 2003) hanno sollevato questione di legittimità costituzionale
dell'art. 204-bis, comma 3, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285
(Nuovo codice della strada), disposizione introdotta dall'art. 4, comma
1-septies, del decreto-legge 27 giugno 2003, n. 151 (Modifiche ed
integrazioni al codice della strada), aggiunto dalla legge di conversione
1° agosto 2003, n. 214.
Premettono i rimettenti che la norma impugnata – relativa al giudizio
direttamente instaurabile avverso il verbale di contestazione d'infrazione
alle norme sulla circolazione stradale – fa carico a chi agisce, "all'atto
del deposito del ricorso", di "versare presso la cancelleria del giudice
di pace, a pena di inammissibilità del ricorso, una somma pari alla metà
del massimo edittale della sanzione inflitta dall'organo accertatore".
1.1.¾ I Giudici di pace di Mestre e di Anzio, in quelle che risultano in
ordine cronologico le prime due ordinanze relative alla questione in esame
(r.o. n. 996 e n. 997 del 2003), deducono la violazione unicamente degli
articoli 3 e 24 della Costituzione.
Il primo dei rimettenti (r.o. n. 996 del 2003) – non senza aver
sottolineato, nel ripercorrere in via di estrema sintesi le vicende del
giudizio a quo, che il ricorrente "ha provveduto, come disposto dalla
nuova normativa, al deposito giudiziario della somma" dovuta ex lege –
pone preliminarmente in luce come l'obbligo suddetto si risolva in uno
"strumento per ridurre drasticamente il numero dei procedimenti"
giurisdizionali in materia, ciò che darebbe luogo ad una "grave disparità
di trattamento tra i cittadini", precludendo ai non abbienti di "poter
validamente proporre le proprie ragioni in sede giudiziaria".
Si realizzerebbe, così, una violazione non soltanto dell'art. 3 della
Costituzione (essendo la parità dei cittadini davanti alla legge
"enormemente turbata dall'onere imposto al ricorrente non benestante"), ma
pure dell'art. 24, "considerato che, in queste condizioni, i cittadini
meno facoltosi" si vedrebbero "indirettamente privare della possibilità di
tutelare i propri diritti in via giudiziaria, con grave nocumento al
principio che la difesa è diritto inviolabile".
Parimenti, il Giudice di pace di Anzio (r.o. n. 997 del 2003) – nel
dedurre la violazione degli stessi articoli della Costituzione – assume
che la norma impugnata "rappresenta un indubbio ed ingiustificato ostacolo
per la tutela in sede giurisdizionale dei diritti del ricorrente" (essendo
questi, di fatto, indotto "a desistere dall'impugnazione"), concretando
inoltre "una manifesta disparità di trattamento" tra gli utenti della
strada, con il favorire "ingiustificatamente coloro i quali dispongono di
maggiore agiatezza economica".
1.2.¾ Più articolata si rivela la prospettazione del Giudice di pace di
Vietri di Potenza (r.o. n. 999 del 2003), il quale ipotizza il contrasto –
oltre che con gli articoli 3 e 24 – anche con l'art. 2 della Costituzione.
Tale rimettente eccepisce – in primis – l'esistenza di una (doppia)
"violazione del principio di eguaglianza ex art. 3 della Costituzione".
La "novella" al codice della strada avrebbe, a suo dire, "creato di fatto
e riservato sul piano processuale (…) una diversa posizione al ricorrente
e alla Pubblica Amministrazione" (evidente in particolar modo in sede
conclusiva del giudizio, e ciò in quanto l'Amministrazione, in caso di
esito processuale a sé favorevole, "ha immediatamente a disposizione la
somma che le è dovuta oltre sicuramente ad una parte delle spese di
causa", considerato che la sanzione inflitta è di regola "comminata nel
minimo edittale"), differenziando, altresì, "il cittadino abbiente da
quello meno abbiente" (giacché soltanto ai primi sarebbe permesso di poter
esercitare la tutela dei propri diritti proponendo ricorso al giudice
ordinario).
Tale situazione di disparità – che il rimettente giudica "ancor più
pregnante" ove "si consideri che lo stesso legislatore, al fine di
eliminare gli ostacoli di carattere economico tra i cittadini, ha previsto
con l'art. 26 della legge 689/1981 il pagamento rateale della sanzione (…)
"su richiesta dell'interessato che si trovi in condizioni economiche
disagiate"" – non sarebbe mitigata dal fatto che i soggetti non abbienti
possono, pur sempre, "presentare il ricorso amministrativo (che non
prevede il versamento della cauzione)". Se così fosse, infatti, dovrebbe
concludersi che "il ricorso al giudice sia un mezzo di tutela riservato
esclusivamente ai soggetti economicamente agiati" (con violazione dello
stesso art. 2 della Costituzione, atteso che tra i diritti inviolabili
dell'uomo rientra pure "il diritto all'eguaglianza, come valore assoluto
della persona umana e diritto fondamentale dell'individuo").
L'art. 204-bis del d.lgs. n. 285 del 1992 creerebbe, dunque, in base alle
condizioni economiche del ricorrente e quanto all'accesso alla tutela
giurisdizionale, un "trattamento differenziato", il quale però –
sottolinea il rimettente – "può trovare legittima applicazione solo ove vi
sia l'indefettibile presenza di ragionevoli motivi", non ravvisabili
"nello scopo di evitare che il cittadino meno abbiente possa ricorrere in
sede giurisdizionale contro i verbali d'infrazione al codice della
strada".
1.3. ¾ Il Giudice di pace di Bari, proponendo argomentazioni pressoché
identiche a quelle sopra indicate, ha dedotto – con la prima delle due
ordinanze da esso pronunciate (r.o. n. 1044 del 2003) – l'esistenza di una
violazione degli articoli 3, 24 e 113 della Costituzione.
Dubita il rimettente della legittimità costituzionale della norma
impugnata, in primo luogo, "per difetto di ragionevolezza e disparità di
trattamento", situazione quest'ultima che vedrebbe contrapposti "il
cittadino che per le sue condizioni economiche è in condizione di
depositare la cauzione richiesta" e colui che, "privo di mezzi o con
scarse possibilità economiche", si vede "preclusa" la possibilità di adire
le vie giurisdizionali.
Deduce, inoltre, il suddetto giudice a quo la "violazione dell'art. 24
della Costituzione, che consente a tutti i cittadini di agire in giudizio
per la tutela dei propri diritti senza limitazioni", avanzando il
"sospetto" che il legislatore abbia voluto, in subiecta materia,
"reintrodurre la ripudiata regola del "solve et repete"".
Eccepisce, infine, il contrasto con l'art. 113 della Costituzione, in
quanto la norma in esame "condiziona notevolmente e senza alcuna
plausibile giustificazione la tutela giurisdizionale dei diritti contro
gli atti della pubblica amministrazione".
I medesimi parametri sono invocati anche dal Giudice di pace di Mestre,
nella seconda delle due ordinanze (r.o. n. 1095 del 2003) emesse da quell'ufficio
giudiziario.
Il rimettente assume che tale norma darebbe vita ad "un'evidente
differenza di trattamento tra i cittadini, in particolare tra coloro che
hanno la capacità patrimoniale per assolvere all'adempimento imposto e
coloro che non hanno mezzi sufficienti per effettuare il pagamento",
nonché – tenuto conto che la proposizione del ricorso amministrativo non è
subordinata alla medesima condizione – ad una "ingiustificata differenza
tra i due mezzi di opposizione, rendendo (…) evidente che il ricorso
avanti il giudice di pace diventerebbe uno strumento di tutela fruibile
solo dai soggetti più facoltosi" (con violazione anche del "secondo comma
dell'articolo 3 della Costituzione che sancisce che è compito della
Repubblica rimuovere, non già creare, ostacoli di ordine economico e
sociale che limitano di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini").
Deduce, inoltre, la violazione del "diritto di difesa sancito dagli
articoli 24 e 113 della Costituzione", non essendo la cauzione contemplata
dalla norma suddetta "in alcun modo razionalmente collegata alla pretesa
dedotta in giudizio", né mirando "allo scopo di assicurare al procedimento
uno svolgimento conforme alla sua funzione". Essa, per contro, appare
piuttosto "introdotta al fine di restringere il campo dei possibili
ricorrenti avverso provvedimenti amministrativi".
1.4.¾ Ipotizza, invece, la violazione anche dell'art. 25, primo comma,
della Costituzione (oltre che degli articoli 3 e 24, primo comma,) il
Giudice di pace di Montepulciano (r.o. n. 1047 del 2003).
Questi ritiene, difatti, che l'art. 204-bis del d.lgs. n. 285 del 1992 si
ponga in contrasto "con i principi di eguaglianza di tutti i cittadini di
fronte alla legge e di libero accesso alla tutela giurisdizionale dei
propri diritti davanti al giudice naturale precostituito per legge".
Sottolinea che tale norma, "nel prevedere l'obbligatorietà di una cauzione
addirittura per poter accedere alla tutela giurisdizionale", darebbe vita
ad una "inedita (…) doppia discrasia", ed esattamente – da un lato – "tra
azioni esperibili in via giurisdizionale e azioni esperibili in via
amministrativa", nonché – dall'altro – "all'interno della stessa categoria
delle azioni di carattere giurisdizionale".
Con specifico riferimento a quest'ultimo aspetto, il rimettente pone in
luce come per nessuna azione di carattere giurisdizionale l'ordinamento
preveda l'obbligo di prestare preventivamente cauzione, atteso che, pur
essendo tale istituto "ben conosciuto dalle norme processuali", esse lo
contemplano non come "sbarramento iniziale" per l'accesso alla tutela
giurisdizionale, bensì "solo a giudizio ormai pendente, e a discrezione
del giudice". Nel caso in esame, inoltre, la cauzione – salvo non volere
ritenere che la sua imposizione ope legis si giustifichi in quanto "lo
Stato teme per la solvibilità del ricorrente" – contravverrebbe alla
stessa natura dell'istituto, che è "quella di un deposito di somme di
denaro a garanzia di un determinato comportamento futuro", richiesto a
colui che è gravato dalla prestazione della cauzione.
La sua previsione, quindi, risolvendosi in "un'inammissibile anticipazione
della sanzione, perché al ricorrente si chiede di versare subito –
obbligatoriamente e per il solo fatto di chiedere giustizia – ciò che solo
il giudizio di merito potrà eventualmente accertare essere da lui dovuto",
paleserebbe quale sia la reale finalità avuta di mira dal legislatore, e
cioè di "scoraggiare in maniera ingiustificatamente vessatoria il diritto
inalienabile del cittadino a richiedere giustizia, e richiederla al suo
giudice naturale precostituito per legge" (donde l'ipotizzata violazione
pure dell'art. 25, primo comma, della Costituzione).
La scelta, infine, di compromettere "senza ragione il diritto dei
cittadini alla tutela giurisdizionale" – con violazione dei "principi che
portarono la Corte costituzionale, in anni ormai lontani, a dichiarare
costituzionalmente illegittimo l'art. 98 c.p.c. (…) e la c.d. clausola del
"solve et repete"" – sostanzierebbe l'altro profilo di "discrasia"
denunciato dal rimettente (quello tra azioni amministrative e
giurisdizionali). Una discrasia, questa, tanto più grave ove si consideri
che "il legislatore della novella ha, al contrario, ulteriormente
facilitato il ricorso al prefetto" (il quale "può essere adito
direttamente, mediante una semplice raccomandata"), alterando in tal modo
"il principio di parità/alternatività tra i due rimedi" e dando vita
"all'introduzione "de facto" nell'ordinamento di un principio di riserva
di amministrazione del tutto incompatibile col sistema costituzionale".
1.5. ¾ Quattro diversi parametri, invece, sono richiamati dal Giudice di
pace di Bari, nella seconda delle ordinanze sopra indicate (r.o. n. 1081
del 2003), proveniente da tale ufficio giudiziario.
Il rimettente, difatti, ha dedotto che la norma impugnata si porrebbe in
"contrasto con gli articoli 3, 24, 111 e 113 Costituzione".
Premesso che la scelta operata dal legislatore del 2003 "sembra volere
reintrodurre nel nostro ordinamento la regola del "solve et repete", già
dichiarata incostituzionale in numerose precedenti pronunzie della Corte
costituzionale, a partire dalla sentenza n. 21/1961", il giudice a quo
deduce che la previsione legislativa suddetta – in contrasto con l'art. 3,
primo comma, della Costituzione – "potrebbe non assicurare uguaglianza di
trattamento tra colui che è in grado di assolvere la cauzione preventiva e
colui, che pur potendo astrattamente aver ragione nei confronti
dell'amministrazione, necessariamente soccomberebbe per non poterla
corrispondere".
Ipotizza, inoltre, la "violazione del diritto di difesa", atteso che (in
spregio all'art. 24 della Costituzione) "il suo esercizio sarebbe
condizionato dalla maggiore o minore disponibilità economica del singolo".
Assume, infine, la violazione degli articoli 111, secondo comma, e 113,
primo e secondo comma, della Costituzione. L'imposizione di "un previo
pagamento cauzionale a carico del ricorrente" – destinato a convertirsi in
caso di sua soccombenza in un "prelievo totale o parziale in favore"
dell'amministrazione – si tradurrebbe, per un verso, in un "privilegio" in
favore di quest'ultima (con conseguente violazione del principio "di
parità delle parti in contraddittorio" di cui all'art. 111, secondo comma,
della Costituzione), rappresentando, inoltre, "un ingiustificato ostacolo
per la tutela in sede giurisdizionale dei diritti (…) contro gli atti
della pubblica amministrazione" (in contrasto con l'art. 113, primo e
secondo comma, della Costituzione).
1.6.¾ Sono accomunate, invece, dalla denuncia della violazione
esclusivamente degli articoli 3 e 24 della Costituzione le ordinanze di
rimessione dei Giudici di pace di Recco (r.o. n. 1083 del 2003), di Reggio
Calabria (r.o. n. 1087 del 2003) e di Pisa (r.o. n. 1094 del 2003).
Il primo dei suddetti giudici rimettenti (r.o. n. 1083 del 2003) muove
dalla constatazione che "i casi di cauzione previsti dal codice di rito"
costituiscono "un numerus clausus legato soprattutto a provvedimenti di
natura cautelare e non già alla mera presentazione di domande giudiziali
di merito", ponendo altresì in luce "la sorte" subita dai "depositi di
soccombenza" nel processo civile, "definitivamente abrogati dall'art. 1
della legge 18 ottobre 1977 n. 793" (Abolizione del deposito per
soccombenza nel processo civile).
Evidenzia, inoltre, l'irrazionalità – "in una materia caratterizzata dalla
gratuità (…) e dalla massima semplificazione per le parti", alla stregua
di quanto previsto dall'art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689
(Modifiche al sistema penale) – di una disposizione, quale quella
censurata, che "pone a carico del cittadino un costo che, in qualche
ipotesi, può anche essere molto oneroso (…) ed un adempimento, quale
quello dell'apertura di un deposito giudiziario presso l'ufficio postale
(…), estremamente complesso".
Assume, infine, la violazione delle norme costituzionali suddette
(articoli. 3 e 24 della Costituzione), giacché l'imposizione della
cauzione, da un lato, "ostacola l'esercizio del diritto di agire per la
tutela dei propri diritti proprio in un settore caratterizzato dal fatto
di non addossare alcun onere né economico né tecnico al cittadino", e,
dall'altro, "elimina la tutela ai non abbienti", ciò che renderebbe
evidente come "la finalità di questa riforma non sia se non quella di
creare (…) un forte deterrente alla presentazione dei ricorsi al giudice
di pace".
Il Giudice di pace di Reggio Calabria (r.o. n. 1087 del 2003) deduce che
la previsione dell'art. 204-bis del d.lgs. n. 285 del 1992 lederebbe "il
diritto fondamentale dell'individuo espressamente tutelato dall'art. 3
della Costituzione", ponendo "i soggetti abbienti e non abbienti su un
piano di disuguaglianza tra loro".
Su tali basi, quindi, ipotizza che la norma in esame sia "in netto
contrasto con l'art. 24 della Costituzione, il quale sancisce che tutti
possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi
legittimi".
La violazione del combinato disposto degli articoli 3 e 24 della
Costituzione è posta alla base dell'ordinanza di rimessione del giudice di
pace di Pisa (r.o. n. 1094 del 2003).
Il rimettente assume che i principi sanciti da tali norme sarebbero
derogati ingiustificatamente dalla disposizione impugnata, richiamando
all'uopo la pronuncia della Corte costituzionale n. 67 del 1960 (che
dichiarò l'illegittimità costituzionale dell'art. 98 cod. proc. civ.).
Deduce, infine, la violazione dei parametri suddetti anche "sotto il
profilo della ragionevolezza". Al riguardo, evidenzia come un trattamento
differenziato riservato a situazioni eguali possa "trovare legittima
applicazione solo ove vi sia l'indefettibile presenza di ragionevoli
motivi oggettivamente rilevabili a giustificazione" dello stesso. In tale
prospettiva, l'esistenza di una sostanziale continuità tra la situazione
anteriore alla legge di riforma del codice della strada, e quella
successiva (atteso che – sottolinea il rimettente – la possibilità
contemplata dalla legge n. 214 del 2003 di proporre "ricorso immediato" al
giudice di pace era già stata riconosciuta in virtù di "interpretazione
adeguatrice" proposta dalla stessa Corte costituzionale), risulta
ingiustificatamente alterata "in quanto la prevista cauzione a pena
d'inammissibilità finisce per costituire una "compressione", una
diminuzione, di un diritto di azione già esistente nell'ordinamento".
1.7.¾ Ipotizzano, conclusivamente, la violazione anche dell'art. 2 della
Costituzione, oltre che degli articoli 3 e 24, i Giudici di pace di
Pratola Peligna (r.o. n. 1092 del 2000) ed Asiago (r.o. n. 1110 del 2003).
Deduce il primo dei due rimettenti che "la normativa in parola lede il
diritto fondamentale dell'individuo espressamente tutelato dall'art. 3
della Costituzione" (in ciò sostanziandosi la violazione anche dell'art. 2
della Carta fondamentale), ponendo i soggetti abbienti e non abbienti su
un piano di disuguaglianza fra loro, precludendo a questi ultimi l'accesso
alla tutela giurisdizionale.
Assume, inoltre, la violazione dell'art. 24 della Costituzione, e ciò in
quanto il "versamento della cauzione previsto per la tutela dei diritti
del ricorrente nella sola sede giurisdizionale", oltre a "rappresentare un
ingiustificato quanto ingiusto vantaggio per l'Autorità opposta",
priverebbe della "possibilità di agire in giudizio per la tutela dei
propri diritti" quanti "non dispongono di una sufficiente agiatezza
economica, in tal modo ledendo gravemente il diritto di difesa" degli
stessi.
Verrebbe, in tal modo, a rivivere "di fatto un'anomala figura di imposta
"solve et repete"", quantunque la stessa sia stata espunta
dall'ordinamento "con sentenza del giudice delle leggi (n. 21 del lontano
1961)", senza peraltro dimenticare – conclude il rimettente – che "la
stessa Corte costituzionale (sentenza n. 67 del 1960) dichiarò
costituzionalmente illegittimo l'art. 98 del c.p.c., che prevedeva proprio
il potere del giudice d'imporre una cauzione alla parte, con conseguente
estinzione del giudizio in caso di mancato versamento".
Si richiama a tale decisione di questa Corte anche il Giudice di pace di
Asiago (r.o. n. 1110 del 2003), il quale – sviluppando argomentazioni
praticamente identiche a quelle già illustrate – torna a ribadire come
l'avvenuta "introduzione dell'obbligo di versamento di una somma,
costituente un vero e proprio deposito cauzionale", di fatto, "verrebbe a
consentire l'accesso alla giustizia solo ai cittadini facoltosi".
Sussisterebbe, pertanto, violazione dell'intero art. 24 della
Costituzione, se è vero che – mentre i primi due commi stabiliscono che
tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e
interessi legittimi, riconoscendo la difesa quale diritto inviolabile in
ogni stato e grado del procedimento – il terzo comma garantisce che siano
"assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e
difendersi davanti ad ogni giurisdizione".
2.¾ È intervenuto in tutti i giudizi così promossi il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale
dello Stato, chiedendo il rigetto della questione.
La difesa erariale – sul presupposto che "il ricorso al giudice di pace"
rappresenti, in tale materia, "una soluzione alternativa (ed in certa
misura agevolata) rispetto al rimedio generale (ricorso al prefetto)" –
esclude l'ipotizzata disparità di trattamento.
Poiché, infatti, l'amministrazione affronta il giudizio senza aver avuto
"neppure la possibilità di una verifica approfondita" – attraverso l'esame
dell'autorità prefettizia – della fondatezza della pretesa avversaria,
sarebbe "ragionevole che il ricorso diretto al giudice di pace (…) sia
sottoposto dalla legge a particolari oneri".
La previsione della cauzione, inoltre, non costituirebbe – ad avviso
dell'Avvocatura – neppure un meccanismo del tutto "innovativo all'interno
dell'ordinamento, che registra, nel settore penale, altre ipotesi
similari", e segnatamente "quella prevista dal primo comma dell'art. 3-bis
della legge 31 maggio 1965, n. 575" (Disposizioni contro la mafia), nonché
quelle di cui agli articoli 162 (Oblazione nelle contravvenzioni) e
162-bis (Oblazione discrezionale) del codice penale.
La conclusione è, quindi, nel senso che il legislatore del 2003, "mosso da
un intento di cautela deflativa", avrebbe "operato una scelta di carattere
procedimentale" assolutamente ragionevole, proponendosi "di differenziare
le discipline ed i relativi rimedi previsti dall'ordinamento, a seconda
che l'autore della violazione intenda far valere i propri diritti di
fronte all'autorità amministrativa ovvero, anticipatamente, a quella
giudiziaria".
Considerato in diritto
1.— I Giudici di pace indicati in epigrafe hanno sollevato questione di
legittimità costituzionale del comma 3 dell'art. 204-bis del decreto
legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada),
disposizione introdotta dall'art. 4, comma 1-septies, del decreto-legge 27
giugno 2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni al codice della strada),
aggiunto dalla legge di conversione 1° agosto 2003, n. 214.
Oggetto delle loro censure è la previsione normativa che stabilisce – a
carico di chi proponga ricorso avverso il verbale di contestazione
d'infrazione alle regole del codice della strada – l'onere di "versare
presso la cancelleria del giudice di pace, a pena di inammissibilità del
ricorso, una somma pari alla metà del massimo edittale della sanzione
inflitta dall'organo accertatore".
2.— Elemento comune a tutte le ordinanze di rimessione è l'ipotizzata
violazione degli articoli 3 e 24 della Costituzione, sotto il profilo che
l'onere in questione – pena l'inammissibilità del ricorso giurisdizionale
– si risolverebbe in una discriminazione dei soggetti privi di adeguati
mezzi economici, i quali, anche in ragione del cospicuo ammontare di cui è
imposto il pagamento, si vedono, se non precludere, quantomeno
notevolmente ostacolare l'accesso alla tutela giurisdizionale, con
conseguente pregiudizio del loro "diritto inviolabile" di agire in
giudizio.
Né ad escludere tale evenienza varrebbe il rilievo che resta ferma per
costoro la possibilità di proporre – senza necessità di alcun preventivo
versamento, non contemplato in tale ipotesi – il ricorso all'autorità
prefettizia (ex art. 203 del medesimo d.lgs. n. 285 del 1992), giacché
ciò, semmai, evidenzierebbe vieppiù l'esistenza di un trattamento
discriminatorio, trasformando il ricorso al giudice di pace in strumento a
disposizione dei soli soggetti più facoltosi, con violazione anche del
secondo comma dell'art. 3 della Costituzione, che fa carico alla
Repubblica di rimuovere, e non già creare, "ostacoli" all'eguaglianza
sostanziale dei cittadini.
Alcuni dei giudici a quibus – sempre in relazione alla violazione
dell'art. 3 della Costituzione – denunciano anche un intrinseco difetto di
ragionevolezza che connoterebbe la norma in esame, sottolineando – in
particolare – come il versamento da essa contemplato non sia in alcun modo
razionalmente collegato alla pretesa dedotta in giudizio, né assolva "allo
scopo di assicurare al procedimento uno svolgimento conforme alla sua
funzione", apparendo piuttosto introdotto "al fine di restringere il campo
dei possibili ricorrenti avverso provvedimenti amministrativi".
La censura relativa alla violazione degli articoli 3 e 24 della
Costituzione è accompagnata, poi, in talune ordinanze di rimessione, da
altre concernenti gli articoli 2, 25, primo comma, 111, secondo comma, e
113 della Carta fondamentale.
3.— Le questioni sollevate, per la loro evidente connessione, vanno
trattate congiuntamente, per cui va disposta la riunione dei relativi
giudizi.
4.— La questione sollevata dal Giudice di pace di Mestre con l'ordinanza
n. 996 del 2003 è inammissibile.
L'ordinanza, infatti, dà atto dell'avvenuto versamento della somma da
parte del ricorrente, di talché il dubbio relativo all'illegittimità
costituzionale della norma che contempla detto versamento – sotto il
profilo della "grave disparità di trattamento tra i cittadini" – è privo
di rilevanza nel giudizio a quo.
5.— Nel merito la questione proposta con le altre ordinanze di rimessione
è fondata.
5.1.— "Il principio, secondo il quale tutti possono agire in giudizio per
la tutela dei propri diritti e interessi legittimi e la difesa è diritto
inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, deve trovare
attuazione uguale per tutti, indipendentemente da ogni differenza di
condizioni personali e sociali" (cfr. sentenza n. 67 del 1960).
Alla luce di tale principio deve ritenersi che l'imposizione dell'onere
economico di cui all'art. 204-bis del d.lgs. n. 285 del 1992 finisca con
il pregiudicare l'esercizio di diritti che l'art. 24 della Costituzione
proclama inviolabili, considerato che il mancato versamento comporta un
effetto preclusivo dello svolgimento del giudizio, incidendo direttamente
sull'ammissibilità dell'azione esperita.
5.2.— Giova rammentare come il problema – non nuovo nella giurisprudenza
di questa Corte – della compatibilità tra il principio costituzionale che
garantisce a tutti la tutela giurisdizionale dei propri diritti e singole
norme che impongono determinati incombenti (anche di natura economica) a
carico di coloro che tale tutela richiedano, sia stato risolto alla luce
della distinzione fra gli oneri che sono "razionalmente collegati alla
pretesa dedotta in giudizio, allo scopo di assicurare al processo uno
svolgimento meglio conforme alla sua funzione", da ritenere evidentemente
consentiti, e quelli che tendono, invece, "alla soddisfazione di interessi
del tutto estranei alle finalità predette", i quali – conducendo al
risultato "di precludere o ostacolare gravemente l'esperimento della
tutela giurisdizionale" – incorrono "nella sanzione
dell'incostituzionalità" (cfr. sentenze n. 522 del 2002 e n. 333 del
2001).
Orbene, tale seconda evenienza è quella che ricorre nel caso della
disciplina censurata, considerate sia l'entità economica dell'esborso,
superiore alla misura della sanzione generalmente inflitta in concreto ai
trasgressori, sia soprattutto le modalità di assolvimento dell'onere
economico de quo, destinate a tradursi in un procedimento macchinoso nella
fase tanto del versamento della somma quanto della sua (eventuale)
restituzione all'avente diritto.
Sotto altro aspetto, deve osservarsi che l'imposizione in via
generalizzata – da parte della norma censurata – del suddetto onere a
carico del soggetto che intenda adire le vie giudiziali, in nessun modo
funzionale alle esigenze del processo, si risolve in un ostacolo, anche
per l'ammontare dell'esborso pari alla metà del massimo edittale della
sanzione, che finisce per scoraggiare l'accesso alla tutela
giurisdizionale.
Alla luce, dunque, delle considerazioni che precedono risulta evidente la
violazione dei citati parametri costituzionali, sia sotto l'aspetto della
lesione del diritto di difesa del ricorrente, sia sotto l'aspetto della
palese irragionevolezza della norma in rapporto alle caratteristiche del
procedimento giurisdizionale in questione, improntato a "gratuità" e
"massima semplificazione per le parti", secondo quanto stabilito dall'art.
23 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale).
6.— L'accertata violazione degli articoli 3 e 24 della Costituzione
assorbe le ulteriori censure dedotte dai rimettenti. per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 204-bis, comma 3, del
decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada),
introdotto dall'art. 4, comma 1-septies, del decreto-legge 27 giugno 2003,
n. 151 (Modifiche ed integrazioni al codice della strada), aggiunto dalla
legge di conversione 1° agosto 2003, n. 214;
dichiara l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale
del predetto art. 204-bis, comma 3, del decreto legislativo 30 aprile
1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), sollevata, in riferimento agli
artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Giudice di pace di Mestre, con
l'ordinanza indicata in epigrafe (r.o. n. 996 del 2003).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta il 5 aprile 2004.
F.to:
Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente
Alfonso QUARANTA, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'8 aprile 2004.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA