Ordinanza.
Presidente Zagrebelsky -
Relatore Flick
nel
giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 268, comma 3, e
271, comma 1, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza
del 14 ottobre 2003 dal Giudice per le indagini preliminari del
Tribunale di Firenze nel procedimento penale a carico di G.G.,
iscritta al n. 1075 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale,
dell’anno 2003.
Visto l’atto di intervento del
Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di
consiglio del 7 aprile 2004 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che con l’ordinanza
in epigrafe il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di
Firenze ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 112 della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 268,
comma 3, del codice di procedura penale, in forza del quale il
pubblico ministero può disporre, con provvedimento motivato, che le
operazioni di intercettazione siano compiute mediante impianti di
pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria unicamente
quando gli impianti installati nella procura della Repubblica
risultino insufficienti o inidonei ed esistano eccezionali ragioni di
urgenza; nonché dell’art. 271, comma 1, del medesimo codice, nella
parte in cui prevede l’inutilizzabilità dei risultati delle
intercettazioni qualora non siano state osservate le disposizioni di
cui al citato art. 268, comma 3;
che il giudice a quo premette
di essere investito di una richiesta di rinvio a giudizio, formulata
dal pubblico ministero nei confronti di persona imputata del reato di
illecita detenzione e cessione a terzi di sostanze stupefacenti:
contestazione fondata essenzialmente sui risultati di una serie di
intercettazioni telefoniche, eseguite mediante impianti in dotazione
all’Arma dei Carabinieri;
che nel corso dell’udienza
preliminare il difensore dell’imputato aveva eccepito
l’inutilizzabilità di tali risultati ai sensi degli artt. 268, comma
3, e 271, comma 1, cod. proc. pen., stante il difetto, nei
provvedimenti del pubblico ministero che avevano disposto il
compimento delle operazioni, di ogni motivazione riguardo ai
presupposti legittimanti l’utilizzazione di impianti esterni alla
procura della Repubblica: eccezione che, ad avviso del giudice a quo,
si presenterebbe fondata;
che secondo il rimettente,
tuttavia, la sanzione di inutilizzabilità, posta dal legislatore a
presidio dell’osservanza delle regole di cui all’art. 268, comma 3,
cod. proc. pen., risulterebbe affatto irragionevole;
che, al riguardo, il giudice a
quo ricorda come questa Corte — nello scrutinare, con ordinanze n. 259
del 2001 e n. 304 del 2000, analoghe questioni di legittimità
costituzionale — abbia escluso l’ipotizzato vulnus del principio di
ragionevolezza, affermando che la disciplina in esame risponde
all’esigenza — evidenziata nella sentenza n. 34 del 1973 — di
prevenire abusi in sede di esecuzione delle operazioni, evitando, in
specie, che gli organi ad essa preposti effettuino controlli sul
traffico telefonico al di fuori di una specifica e puntuale verifica
da parte dell’autorità giudiziaria;
che tale giustificazione — la
quale poggia sul presupposto che l’utilizzazione di impianti intra
moenia consenta un controllo da parte del pubblico ministero,
viceversa non garantito nel caso di impiego di impianti esterni —
risulterebbe peraltro ‘anacronistica’, a fronte del progresso
tecnologico e del correlato mutamento delle modalità tecniche di
esecuzione delle operazioni di intercettazione: mutamento sul quale
l’ordinanza di rimessione si sofferma in modo diffuso;
che attualmente, infatti,
dette operazioni non si eseguirebbero più, come in passato, collegando
materialmente dei cavi presso impianti pubblici di telefonia — sistema
che poteva prestarsi, in effetti, ad abusi da parte della polizia
giudiziaria — ma tramite la comunicazione del decreto del pubblico
ministero al gestore del servizio telefonico, i cui tecnici provvedono
quindi ad inserire il numero telefonico cellulare da intercettare
all’interno di un sistema automatizzato, convogliando la relativa
fonia presso il punto di ascolto sino allo scadere del periodo di
intercettazione indicato nel decreto stesso;
che, in simile cornice
operativa, i paventati abusi della polizia giudiziaria risulterebbero
«ben difficili e collegati solo ad attività patologiche e di rilevanza
penale» (quale, ad esempio, la comunicazione al gestore telefonico di
falsi decreti): attività peraltro possibili anche qualora le
operazioni venissero eseguite tramite gli impianti installati nella
procura della Repubblica;
che, in difetto di un’adeguata
ratio «tecnica», le disposizioni impugnate sacrificherebbero dunque
ingiustificatamente l’interesse — pure costituzionalmente garantito —
alla prevenzione e alla repressione dei reati;
che esse impedirebbero,
infatti, per ragioni puramente contingenti — quale la mancanza di
impianti presso la procura della Repubblica — di svolgere indagini che
pure lo stesso legislatore presuppone come «assolutamente
indispensabili» (tale essendo la condizione che legittima le
intercettazioni), ove non concorra l’ulteriore requisito
dell’«eccezionale urgenza»: requisito che — qualora non venga fatto
coincidere con la stessa «indispensabilità investigativa» (il che lo
renderebbe peraltro superfluo) — finirebbe per precludere «nella
stragrande maggioranza dei casi», con intrinseca incoerenza
dell’assetto normativo, il ricorso al mezzo investigativo in
questione;
che, a fronte di ciò,
risulterebbe ancor più irragionevole che l’inosservanza delle regole
sulla localizzazione degli impianti venga equiparata dall’art. 271,
comma 1, cod. proc. pen. — quanto alla previsione della sanzione di
inutilizzabilità — alle ipotesi di totale mancanza di autorizzazione e
di esecuzione delle intercettazioni fuori dei casi consentiti;
che le norme impugnate
risulterebbero altresì incompatibili con l’art. 112 Cost.;
che in presenza, infatti, di
un reato accertato attraverso intercettazioni telefoniche,
contrasterebbe con il principio di obbligatorietà dell’azione penale
impedire che quest’ultima venga esercitata tramite la previsione
dell’inutilizzabilità della fonte di prova per violazione di una norma
irragionevole, quale dovrebbe ritenersi quella dell’art. 268, comma 3,
cod. proc. pen.;
che, in base a tale
considerazione, il rimettente invita quindi questa Corte a rivedere la
posizione assunta con la citata ordinanza n. 259 del 2001, che aveva
negato la lesione anche del parametro costituzionale da ultimo
indicato;
che nel giudizio di
costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.
Considerato che — come lo
stesso giudice rimettente ricorda — questa Corte ha già escluso che le
disposizioni impugnate si pongano in contrasto con gli artt. 3 e 112
della Costituzione, dichiarando manifestamente infondate questioni di
legittimità costituzionale analoghe a quella odierna (cfr. ordinanza
n. 259 del 2001; e, in riferimento al solo art. 3 Cost., ordinanza n.
304 del 2000);
che, riguardo alla supposta
violazione dell’art. 3 Cost., questa Corte ha in particolare rilevato
che l’avere il legislatore — in adesione all’invito alla
predisposizione di garanzie anche «tecniche» per l’effettuazione delle
operazioni di intercettazione, formulato dalla Corte stessa con
sentenza n. 34 del 1973 — privilegiato l’impiego degli apparati
esistenti negli uffici giudiziari, dettando una disciplina volta a
circoscrivere con apposite garanzie l’uso di impianti esterni, non può
qualificarsi, in sé, come scelta arbitraria, avuto riguardo anche alla
particolare invasività del mezzo nella sfera della segretezza e
libertà delle comunicazioni costituzionalmente presidiata: e ciò
proprio perché si tratta di una scelta finalizzata «ad evitare che gli
organi deputati alla esecuzione delle operazioni di intercettazione ed
al relativo ascolto» possano «operare controlli sul traffico
telefonico al di fuori di una specifica e puntuale verifica da parte
dell’autorità giudiziaria»;
che, quanto al carattere
‘anacronistico’ impresso, in assunto, ad una simile giustificazione
dall’evoluzione delle modalità tecniche di esecuzione delle
intercettazioni — che l’odierna ordinanza di rimessione prospetta
quale argomento nuovo — non è evidentemente compito di questa Corte
‘inseguire’ il «progresso tecnologico», valutando se esso renda
necessario od opportuno un adeguamento, o addirittura il superamento
delle originarie regole di cautela: trattandosi, al contrario, di
valutazione istituzionalmente rimessa al legislatore;
che, analogamente, rientra in
un ragionevole ambito di discrezionalità legislativa — avuto riguardo
alla pregnanza dei valori in gioco — stabilire se la violazione delle
regole di cui si discute debba essere o meno equiparata, sul piano
della sanzione processuale, alla carenza dell’autorizzazione e
all’esecuzione delle intercettazioni al di fuori dei casi consentiti
dalla legge;
che con riguardo, infine,
all’asserita violazione dell’art. 112 Cost., resta pienamente valida
l’affermazione che le disposizioni censurate non incidono sull’obbligo
del pubblico ministero di esercitare l’azione penale, ma si limitano a
stabilire, «con finalità di salvaguardia di un valore di rango
costituzionale», «le ‘garanzie tecniche’ di espletamento di un mezzo
di ricerca della prova particolarmente invasivo» (cfr. ordinanza n.
259 del 2001);
che la questione deve essere
dichiarata, pertanto, manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo
comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle
norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi la Corte
Costituzionale
dichiara la manifesta
infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt.
268, comma 3, e 271, comma 1, del codice di procedura penale,
sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, dal
Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Firenze con
l’ordinanza indicata in epigrafe. |