MALATTIA DIPENDENTE DA CAUSA DI SERVIZIO- RISARCIMENTO DEL DANNO- NESSO DI CAUSALITÀ FRA ATTIVITÀ LAVORATIVA E L´EVENTO IN ASSENZA DI UN RISCHIO SPECIFICO
Cassazione - Sezioni unite civili - 17.06.2004 n.11353
Il Pretore, accogliendo la domanda del lavoratore, dichiarava che la malattia del ricorrente era dipendente da causa di servizio e che lo stesso aveva diritto alla corresponsione dell´equo indennizzo, corrispondente alla tabella A, cat. 7, del d.P.R. 834/1981, e condannava il datore di lavoro al pagamento della somma ex lege dovuta a titolo di equo indennizzo oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali.

Avverso tale sentenza contestando i risultati dell´espletata consulenza per mancanza di prova sulle mansioni in concreto svolte dal SC, il Tribunale di Bari con sentenza del 4 luglio 2000 accoglieva l´appello proposto e, in riforma dell´impugnata sentenza, rigettava la domanda avanzata dal lavoratore.

Il Tribunale rimarcava che il lavoratore aveva l´onore di provare ai sensi dell´art. 2697 c.c. non solo il tipo di mansioni svolte ed il suo concreto atteggiarsi ma pure la sussistenza di tutte quelle condizioni e modalità (durata, condizioni ambientali, intensità e durata del lavoro, ecc.) cui far risalire con nesso di causalità la malattia da cui risultava affetto.

Il lavoratore, cioè, aveva dato per acclarata l´esistenza di circostanze che, al contrario, andavano da lui dimostrate in virtù del principio dell´onere della prova, non potendosi assolvere a tale onere attraverso le dichiarazioni rese al c.t.u. in sede di anamnesi lavorativa.

Da ultimo il Tribunale evidenziava che, pure in caso di mancata contestazione da parte del datore di lavoro delle mansioni svolte (nella specie di guardiano), l´attore doveva ugualmente provare il suo assunto.Avverso tale sentenza il lavoratore propone ricorso in Cassazione.

Nonostante che l´art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro di tutelare l´integrità fisica dei propri dipendenti, e comporta l´obbligo del risarcimento del danno nei confronti del lavoratore che abbia subito un pregiudizio, la Cassazione rigetta l’istanza in quanto ha ritenuto che le modalità di svolgimento delle mansioni inerenti alle qualifiche non configurano un fatto notorio, che non necessitano di prova, atteso che esse sono variabili in dipendenza del concreto posto di lavoro, dei turni di servizio, dell´ambiente in generale; Ed ancora ha aggiunto che il nesso di causalità fra attività lavorativa e l´evento in assenza di un rischio specifico non può essere oggetto di presunzioni di carattere astratto ed ipotetico ma esige una dimostrazione, quanto meno in termini di probabilità, ancorata a concrete e specifiche situazioni di fatto, con riferimento alle mansioni svolte, alle condizioni di lavoro ed alla durata ed alla intensità dell´esposizione a rischio





Corte di cassazione - Sezioni unite civili - Sentenza 17 giugno 2004, n. 11353


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato in data 25 marzo 1993, SC conveniva in giudizio innanzi al Pretore di Bari l´Ente Ferrovie dello Stato, in persona del legale rappresentante pro tempore e, premesso di essere affetto da tecnopatia dipendente da causa di servizio con effetti permanenti sulla propria capacità lavorativa e di avere sperimentato con esito negativo il prescritto iter amministrativo, chiedeva la condanna dell´Ente al riconoscimento della infermità denunziata, con la corresponsione di ogni beneficio di legge per la menomazione dell´integrità fisica.
Dopo la costituzione del contraddittorio e l´espletamento di una consulenza tecnica d´ufficio, il Pretore accoglieva la domanda e, per l´effetto, dichiarava che la malattia del ricorrente (spondiloartrosi lombare) era dipendente da causa di servizio e che lo stesso aveva diritto alla corresponsione dell´equo indennizzo, corrispondente alla tabella A, cat. 7, del d.P.R. 834/1981, e condannava le Ferrovie dello Stato al pagamento della somma ex lege dovuta a titolo di equo indennizzo oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali.

Avverso tale sentenza proponeva gravame la spa Ferrovie dello Stato dolendosi dell´accoglimento della domanda attrice e contestando i risultati dell´espletata consulenza per mancanza di prova sulle mansioni in concreto svolte dal SC.

Dopo la ricostituzione del contraddittorio, il Tribunale di Bari con sentenza del 4 luglio 2000 accoglieva l´appello proposto e, in riforma dell´impugnata sentenza, rigettava la domanda avanzata dal SC.

Nel pervenire a tale conclusione il Tribunale osservava in primo luogo che non aveva fondamento l´eccezione dell´appellato secondo cui doveva dichiararsi la nullità del mandato alle liti dell´appellante e, conseguentemente, l´inammissibilità del gravame, atteso che la procura conferita dall´avv. *** all´avv. *** doveva ritenersi valida a tutti gli affetti. Ed invero, all´avv. *** erano stati trasferiti dal legale rappresentante dell´ente i poteri della società in ogni grado del giudizio e con ogni più ampia facoltà, con una procura che, nell´ambito dell´assetto organizzativo dell´ente, poteva ritenersi institoria perché comprensiva di tutti i poteri sostanziali e processuali.

Nel merito il Tribunale rimarcava che il lavoratore aveva l´onore di provare ai sensi dell´art. 2697 c.c. non solo il tipo di mansioni svolte ed il suo concreto atteggiarsi ma pure la sussistenza di tutte quelle condizioni e modalità (durata, condizioni ambientali, intensità e durata del lavoro, ecc.) cui far risalire con nesso di causalità la malattia da cui risultava affetto. Il SC, in altri termini, aveva dato per acclarata l´esistenza di circostanze che, al contrario, andavano da lui dimostrate in virtù del principio dell´onere della prova, non potendosi assolvere a tale onere attraverso le dichiarazioni rese al c.t.u. in sede di anamnesi lavorativa. Da ultimo il Tribunale evidenziava che, pure in caso di mancata contestazione da parte del datore di lavoro delle mansioni svolte (nella specie di guardiano), l´attore doveva ugualmente provare il suo assunto.

Avverso tale sentenza SC propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.

Resiste con controricorso la spa Rete Ferrovie dello Stato, che ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c. La presente controversia è stata assegnata dal Primo Presidente alle Sezioni Unite di questa Corte a seguito dell´ordinanza del 23 ottobre 2003 della Sezione lavoro, che ha ravvisato un contrasto di giurisprudenza sulla questione concernente «l´entità degli oneri - di allegazione e probatori - gravanti sui dipendenti delle Ferrovie dello Stato che richiedono il riconoscimento della causa di servizio, con corresponsione di un equo indennizzo, a causa delle patologie dalle quali assumono di essere affetti».



MOTIVI DELLA DECISIONE



1. Con il primo motivo di ricorso SC denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 75, 420 e 182 c.p.c. in relazione all´art. 360, n. 3, c.p.c. e, quindi, difetto di legittimazione processuale, nullità dell´atto di appello nonché mancato deposito della procura notarile. Lamenta in particolare che la società ha interposto atto di appello, a margine del quale era riportata la rituale formula del mandato ad litem. Il mandato in questione era stato, però, rilasciato all´avv. ***, difensore della società Ferrovie dello Stato nella fase d´appello, dall´avv. ***, che non risultava essere il legale rappresentante della società. Si duole ancora che il difensore difettava dello ius postulandi per non avere depositato l´atto di delega con il quale il preteso legale rappresentante dell´ente convenuto avrebbe conferito il mandato.

Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione all´art. 360, n. 3, c.p.c. (anche con riferimento all´art. 2103 c.c.) nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione all´art. 360, n. 5, c.p.c. Dopo avere premesso che le mansioni di "guardiano" espletate non risultavano contestate da controparte, addebita al Tribunale di avere riscontrato una carenza probatoria ignorando così la richiesta di prove - in ordine alle condizioni e modalità di lavoro ed agli agenti patogeni dello stesso - formulata in primo grado (espletamento di una consulenza d´ufficio e acquisizione del fascicolo sanitario di esso ricorrente, custodito da controparte) e rinnovata in sede di appello (prova per testi con i compagni di lavoro e con i rappresentanti sindacali di categoria sulle mansioni effettivamente svolte). Su una tale richiesta il Tribunale aveva opposto un netto, quanto inspiegabile, rifiuto nonostante il principio secondo cui la mancata ammissione dei mezzi di prova, «quando, come nel caso di specie, non è sorretta da adeguata motivazione costituisce una vera e propria violazione di legge ed è censurabile in sede di legittimità».

Con il terzo motivo SC lamenta violazione e falsa applicazione di legge, dell´art. 2087 e 2697 c.c., e dell´art. 41 c.p. in relazione all´art. 360, n. 3, c.p.c., ed ancora omessa motivazione su punti decisivi della controversia in relazione all´art. 360, n. 5, c.p.c. Eccepisce il ricorrente che il Tribunale non ha valutato adeguatamente le conclusioni del c.t.u., che aveva evidenziato il rapporto causa-effetto tra patologia ed attività svolta, ed aveva spiegato perché la attività di guardiano aveva causato la denunziata patologia, rappresentando anche i rischi al quali il lavoratore era stato esposto. Rimarcava, quindi, la violazione dell´art. 2087 e 2697 c.c., sostenendo che - anche in ragione del d.P.R. 303/1958 e succ. mod. e per effetto del d.lgs. 626/1994 (in base al quale al lavoratore deve essere notificato il cosiddetto documento di rischio) - la società Ferrovie dello Stato avrebbe dovuto provare la mancata esposizione al rischio per avere posto in essere le tutele necessarie per la salvaguardia fisica del lavoratore e, in caso di patologia a genesi multifattoriale, avrebbe dovuto dimostrare anche la presenza di un elemento estraneo all´attività lavorativa idoneo, da solo, a provocare l´insorgenza della patologia denunziata.

Con il quarto motivo il ricorrente censura l´impugnata sentenza per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione all´art. 360, n. 5, c.p.c. Ribadisce che il Tribunale, con motivazione non adeguata e, comunque, contraddittoria ha, per un verso, riconosciuto valore alle valutazioni della società e, per altro verso, ha disatteso le risultanze peritali senza peraltro richiedere i necessari chiarimenti al c.t.u. e senza disporre la rinnovazione della suddetta consulenza anche per un approfondimento dei quesiti.

2. Al fini di un ordinato iter argomentativo va esaminato il primo motivo del ricorso, denunziandosi con detto motivo la nullità dell´atto di appello per difetto dello ius postulandi del difensore della spa.

2.1. Il motivo è infondato.

Questa Corte, a Sezioni Unite, ha statuito che il potere di rappresentanza processuale, con la relativa facoltà di nomina dei difensori, può essere conferito soltanto a colui che sia investito anche di un potere rappresentativo di natura sostanziale in ordine al rapporto dedotto in giudizio, sicché il legale rappresentante di una società di capitali, pur in presenza di una disposizione dello statuto sociale che lo abiliti al conferimento di una procura di carattere esclusivamente formale, non conferisce validamente ad altro soggetto la rappresentanza processuale della società stessa, ove tale delega sia disgiunta dall´attribuzione dei poteri di rappresentanza sostanziale. Tuttavia non è necessaria la specificazione aprioristica dei singoli rapporti in relazione ai quali è attribuita la rappresentanza sostanziale (e per i quali è perciò possibile l´attribuzione di rappresentanza processuale) potendosi pervenire alla individuazione dei poteri sostanziali delegati anche per via indiretta e/o in relazione alla natura controversa dei rapporti "de quibus", ben essendo ipotizzabile un assetto organizzativo che preveda la preposizione institoria di alcuni procuratori speciali ad un coacervo di rapporti costituenti un settore dell´azienda ed aventi la caratteristica comune di essere oggetto della controversia (cfr. in tali sensi: Cassazione, Sezioni Unite, 4666/1998, cui adde Cassazione, Sezioni Unite, 5842/2000).

2.2. La sentenza impugnata si è richiamata all´indirizzo ora enunciato nel dichiarare l´ammissibilità dell´atto d´appello della spa Ferrovie dello Stato sottoscritto dall´avv. *** per essere stato quest´ultimo nominato dall´avv. ***, cui l´ing. GC, amministratore delegato e legale rappresentante della società, aveva conferito con riferimento a tutti i giudizi, in cui la società stessa fosse stata parte, "tutti i necessari poteri di rappresentanza processuale e sostanziale".

2.3. Anche l´addebito mosso alla sentenza impugnata di non avere rilevato la mancanza della procura in atti risulta infondato atteso che detta procura è stata identificata nel mandato a margine dell´atto di appello e nella stessa sentenza impugnata di tale procura vengono riportati ampi e significativi stralci.

3. I restanti motivi di ricorso vanno esaminati congiuntamente comportando la soluzione di questioni pregiudiziali, attinenti al processo del lavoro, tra loro strettamente connesse.

3.1. Come si è già ricordato la presente controversia è stata assegnata a queste Sezioni Unite dal Primo Presidente a seguito dell´ordinanza della Sezione lavoro di questa Corte, depositata in data 23 ottobre 2003, che ha ravvisato un contrasto di giurisprudenza in relazione all´entità degli oneri - di allegazione e probatori - gravanti sui dipendenti delle Ferrovie dello Stato che chiedono il riconoscimento della causa di servizio per ottenere l´equo indennizzo.

3.2. La soluzione di questa problematica importa l´esame di altre tematiche ad essa intimamente collegate, che sono state oggetto di disamina nella impugnata decisione, e che attengono - una volta individuati gli oneri di allegazione e probatori scaturenti dal disposto dell´art. 414 c.p.c. - alle conseguenze derivanti dal mancato rispetto di detta disposizione, alla costituzione del convenuto ed ai diversi oneri di contestazione sullo stesso gravanti, nonché al contenuto ed all´ambito di operatività dei poteri istruttori di ufficio del giudice del lavoro, riconosciuti dall´art. 421, secondo comma, e 437, secondo comma, c.p.c.

4. In merito alla domanda proposta dal dipendente delle Ferrovie dello Stato al fine di ottenere l´equo indennizzo si ravvisa nell´ambito della Sezione lavoro un indirizzo che ritiene il lavoratore non gravato da alcun particolare onere in ordine alle circostanze di fatto poste a fondamento della domanda essendo sufficiente - in tema di onere della prova ed in caso di mancata contestazione - la sola indicazione delle mansioni spiegate che hanno causato la menomazione della sua integrità fisica (cfr. ex plurimis: Cassazione 1823/2003; 11447/2001; 11035/2001; 5724/1996; 5407/1993).

Altro indirizzo reputa che sul lavoratore gravi, invece, l´onere di provare con precisione i fatti costitutivi del diritto dimostrando la riconducibilità dell´infermità alle modalità di svolgimento delle mansioni inerenti alla qualifica rivestita, variabili in relazione al luogo di lavoro, ai turni di servizio, all´ambiente lavorativo (cfr. tra le altre: Cassazione 9539/2003; 8884/2003; 2802/2003; 1244/1998; 2947/1997; 1573/1994).

4.1. A sostegno del primo orientamento si è osservato che il giudice - in presenza dei prescritti atti sanitari (tra i quali quelli contemplati dall´art. 4 del d.P.R. 303/1956 e dall´art. 16 del d.lgs. 626/1994, alla cui tenuta è obbligato il datore di lavoro) - non può respingere la domanda adducendo il mancato assolvimento dell´onere probatorio da parte dell´attore ma deve valutare se gli accertamenti compiuti dal datore di lavoro forniscano di per sé la prova della sussistenza degli elementi richiesti per il beneficio ed, in mancanza, disporre tutte le più opportune indagini di carattere tecnico (cfr. in tali sensi: Cassazione 11823/2003 cit.; 11035/2001 cit.; 5724/1999). E ad ulteriore conforto della tesi volta a limitare l´onere probatorio del ricorrente al mero contenuto della propria attività si afferma che nella domanda per equo indennizzo la "causa di servizio" richiede unicamente - diversamente da quanto è dato riscontrare in relazione alla rendita da malattia professionale non tabellata - che le infermità dipendano dall´adempimento degli obblighi di servizio sicché anche un espletamento dell´attività del tutto normale può comportare il riconoscimento e la corresponsione dell´equo indennizzo (così: Cassazione 11823/2003 cit.).

4.2. Il secondo indirizzo, che richiede una più completa specificazione in ricorso dei fatti costitutivi della domanda, si fonda sul rilievo che le modalità di svolgimento delle mansioni inerenti alle qualifiche non configurano un fatto notorio, che non necessitano di prova, atteso che esse sono variabili in dipendenza del concreto posto di lavoro (anche della sua localizzazione geografica), dei turni di servizio, dell´ambiente in generale; e si fonda altresì sull´ulteriore considerazione della assoluta irrilevanza della mancata contestazione con la comparsa di costituzione di primo grado delle modalità della prestazione lavorativa allorquando dette modalità non siano state concretamente precisate (cfr. Cassazione 2902/2003 cit.). Ed ancora si è aggiunto che nelle ipotesi di patologie aventi carattere comune ad eziologia cosiddetta multifattoriale, il nesso di causalità fra attività lavorativa e l´evento in assenza di un rischio specifico non può essere oggetto di presunzioni di carattere astratto ed ipotetico ma esige una dimostrazione, quanto meno in termini di probabilità, ancorata a concrete e specifiche situazioni di fatto, con riferimento alle mansioni svolte, alle condizioni di lavoro ed alla durata ed alla intensità dell´esposizione a rischio (cfr. Cassazione 8884/2003 cit.; 15783/1994 cit.).

4.3. Queste Sezioni Unite ritengono di condividere il secondo degli indicati indirizzi per i seguenti motivi.

4.4. E´ opinione comunemente condivisa che dal combinato disposto dell´art. 414, n. 4, c.p.c. - regolante un requisito del ricorso introduttivo delle controversie di lavoro equivalente a quello indicato nell´art. 163, n. 4, c.p.c. - e dell´art. 420, 1° comma, c.p.c. si ricava che l´attore deve indicare sin dall´atto iniziale della lite gli elementi di fatto e di diritto (causa petendi) posti a base della domanda, atteso che dalla citata disposizione dell´art. 420 c.p.c. emerge che l´attore nella prima udienza può modificare la domanda giudiziale solo ove ricorrano "gravi motivi" e "previa autorizzazione del giudice". La mancata specificazione di detti elementi, sempre che non siano individuabili neanche attraverso un esame complessivo del ricorso e della documentazione allegata, ne comporta la nullità (cfr. tra le altre: Cassazione 3436/2002; 2572/2000; 2257/2000; 2205/1998), da ritenersi però sanabile alla stregua dell´art. 164, 5° comma, c.p.c. per innestarsi il rito del lavoro, pur con le sue peculiarità, nell´alveo del processo civile anche in ragione del sostanziale avvicinamento dei due riti a seguito della novella del 26 novembre 1990, n. 353, avendo il processo ordinario ora acquisito numerose delle caratteristiche che avevano segnato "la specificità" della l. 533/1973 (come è tra l´altro significativamente dimostrato dalla tendenziale monocraticità del giudice, art. 50-bis e 50-ter c.p.c.; dall´obbligatorietà dell´interrogatorio libero e del tentativo di conciliazione delle parti, art. 183 c.p.c.; dal potere del giudice di pronunciare con ordinanza il pagamento delle somme non contestate o di cui il giudice ritenga raggiunta la prove, artt. 186-bis e quater c.p.c.; dalla ormai generalizzata esecutorietà della sentenza di primo grado, art. 282 c.p.c.).

Né può sottacersi di ricordare che sul regime delle nullità formali dell´atto di citazione e della sua notificazione hanno già avuto occasione di pronunziarsi - seppure prima della novella del 1990 ma con argomentazioni di perdurante condivisione - queste stesse Sezioni Unite, che hanno ritenuto il detto regime applicabile al processo del lavoro in assenza di una specifica deroga normativa o di una manifesta incompatibilità strutturale perché il processo del lavoro - pur nella sua autonomia - rimane un giudizio a cognizione ordinaria inquadrabile nell´ambito del generale sistema del c.p.c. con l´effetto che ogni carenza della relativa disciplina ne impone l´integrazione attraverso l´applicazione, oltre che delle norme generali del libro I del c.p.c., anche di quelle del processo di cognizione di cui al libro II, se ed in quanto le suddette norme non siano, appunto, incompatibili con le peculiarità connotanti il rito del lavoro (cfr. in tali sensi Cassazione, Sezioni Unite, 2166/1988, cui adde Cassazione 5029/1993).

4.5. In conformità al principi sinora enunciati può, dunque, affermarsi che la mancata fissazione -alla stregua del già citato art. 164, comma 5, c.p.c. - di un termine perentorio da parte del giudice per la rinnovazione del ricorso o per la integrazione della domanda - e la non tempestiva eccezione da parte del convenuto ex art. 157 c.p.c. del vizio dell´atto - comprovano l´avvenuta sanatoria della nullità del ricorso ex art. 414 c.p.c. per mancanza o per insufficienza dei fatti e degli elementi di cui al n. 4, dovendosi ritenere - stante l´applicabilità al processo del lavoro dell´art. 156, comma 2, c.p.c. - che l´atto introduttivo della lite abbia conseguito il suo scopo.

4.6. La sanatoria del ricorso nei sensi ora precisati non vale però a rimettere in termini il ricorrente rispetto ai mezzi di prova, che devono essere specificati così come prescritto dall´art. 414, n. 5, c.p.c. Da qui la possibilità per il convenuto di eccepire in ogni tempo ed in ogni grado del giudizio - al fine di ottenere il rigetto della domanda avversa - il mancato rispetto da parte dell´attore della norma codicistica sull´onere della prova (art. 2697 c.c.), analogamente a quanto è risultato essere avvenuto nella presente controversia ad iniziativa della spa Ferrovie dello Stato.

Come è stato osservato, se anche a seguito dell´intervento del giudice ex art. 164, comma 5, c.p.c. siano stati emendati i vizi che inficiano il ricorso, con gli elementi carenti dell´editio actionis, ciò non può, di certo, comportare il superamento delle preclusioni afferenti i mezzi istruttori, maturate con il deposito del ricorso, con la conseguenza che qualora il ricorrente non abbia provveduto ab initio a dedurre detti mezzi, tutte le allegazioni individualizzanti il diritto dedotto in giudizio, poiché non suffragate da alcun mezzo istruttorio, consentiranno al giudice di emettere una sentenza di rigetto nel merito della domanda.

4.7. È di generale condivisione in dottrina ed in giurisprudenza l´assunto che l´omessa indicazione dei mezzi di prova di cui all´art. 414, n. 5, c.p.c. comporta non la nullità del ricorso ma la decadenza dalla possibilità - salve le previsioni dei provvedimenti istruttori di cui agli artt. 420, 421 e 437 c.p.c. - di successiva deduzione delle prove nel corso del processo (cfr. tra le altre: Cassazione 8020/1996; 3816/1990).

Ed invero alla conclusione che la decadenza dalle prove riguardi non solo il convenuto (art. 416, 3° comma, c.p.c.) ma anche l´attore (art. 414, n. 4, c.p.c.) si perviene con certezza sulla base della lettera dell´art. 420, 5° comma, c.p.c. che contempla la possibilità nel corso della prima udienza che le parti chiedano "nuovi mezzi di prova" solo ove "non abbiano potuto proporli prima". Una tale interpretazione del dato normativo è stata accolta dalla Corte costituzionale, che ha evidenziato il carattere paritario della disciplina dell´attività difensionale delle parti del processo sicché la stessa sanzione di decadenza che «per il convenuto si trova espressamente sancita nell´art. 416 c.p.c. deve, invero, ritenersi prevista per l´attore, sia pure in modo implicito, ma non per questo meno chiaro» (Corte costituzionale, 13/1977).

4.8. È opportuno sul punto ricordare che la ratio di un tale assetto ordinamentale - di cui si sono indicati seppure succintamente alcuni significativi momenti - è stata sottolineata in sede di Commissioni riunite della Camera nel corso della V Legislatura, ove - con suggestione di immagine - si contrappose all´obbligo del convenuto di "vuotare il sacco" fin dal principio, quello analogo dell´attore di «dire, senza riserva alcuna, fin dall´atto introduttivo tutto ciò che attiene alla sua difesa» e di «fornire il materiale su cui si basa la pretesa». Ed è altrettanto utile rammentare che la simmetria tra le due parti del processo è stata tra l´altro ribadita nella Commissione giustizia e lavoro del Senato nella VI Legislatura venendo additata come una componente essenziale di quella reciproca collaborazione che - nello spirito della buone fede processuale informativo del codice del 1942 - condiziona, in pratica, lo svolgimento del rito del lavoro, nei suoi caratteri di concentrazione, immediatezza ed oralità (cfr. in motivazione: Corte costituzionale, 13/1977 cit.).

E proprio per accelerare al massimo i tempi del processo del lavoro - cui sono in sostanza funzionalizzati i suoi caratteri individualizzanti - il legislatore del 1973 ha imposto, come si è visto, l´onere di ciascuna parte di specificare nei primi rispettivi atti giudiziari (ricorso e memoria di costituzione) non solo i fatti posti a base delle loro rispettive richieste ma anche i mezzi di prova di cui intende avvalersi; nel che è stato ravvisato da alcuni studiosi un rigido e severo corollario del principio dell´allegazione dei fatti - contrariamente a quanto voluto dalla novella del 1990 attributiva di una conseguenzialità temporale fra la fase delle allegazioni dei fatti e quella delle attività istruttorie - mentre da altri una mera applicazione del cosiddetto principio dell´eventualità, proprio perché le parti sono tenute ad indicare i mezzi di prova prima di sapere se i fatti cui essi si riferiscono saranno contestati o meno dalla controparte.

5. La necessità di completezza nell´indicazione dei fatti costitutivi e dei mezzi probatori trova pieno e puntuale riscontro nella specifica disciplina dell´equo indennizzo.

Va premesso al riguardo che la "causa di servizio" costituisce il presupposto sia per il riconoscimento della dipendenza di una infermità dal servizio (a diversi fini di tutela ex art. 38 Cost.) sia per l´attribuzione di un "equo indennizzo" che, previsto per il pubblico impiego dall´art. 68 d.P.R. 3/1957 (e le cui procedure sono state notevolmente semplificate dal d.P.R. 349/1994 e dall´art. 1 della l. 662/1996), è stato poi esteso ai dipendenti delle Ferrovie dello Stato (cfr. art. 11 della l. 564/1981 e d.m. 1622/1983).

La relativa nozione è data, poi, dall´art. 64 del d.P.R. 1092/1972, che stabilisce al riguardo che i "fatti di servizio", dai quali può dipendere una infermità o la perdita dell´integrità fisica, sono quelli derivanti dall´adempimento degli obblighi di servizio e che le lesioni e le infermità si considerano dipendenti da causa di servizio solo quando tale adempimento ne è stata causa ovvero concausa efficiente o determinante.

5.1. In ragione di detta disposizione è stato affermato, sia in dottrina che in giurisprudenza, che l´equo indennizzo è volto a compensare la perdita dell´integrità fisica dipendente dalla stessa esplicazione dell´attività lavorativa e dalle attività ad essa connesse (cfr. C.d.S., A.p., 9/1993; Cassazione 2802/2003); e nell´opera di identificazione dei dati caratterizzanti l´istituto si è anche precisato che "i fatti di servizio" - da cui deve conseguire (seppure con un semplice rapporto di concausalità purché efficiente e determinante) la lesione all´integrità fisica del pubblico dipendente - non vanno circoscritti al periodo in cui il dipendente presta la sua opera durante l´orario del lavoro e nella sede dell´ufficio, dovendo comprendere qualsiasi attività inerente al servizio, purché comandata ed autorizzata.

La portata estensiva da attribuirsi all´espressione "fatti di servizio" e la considerazione che "la perdita permanente della integrità fisica" del pubblico dipendente può risalire, seppure in forma concausale, a predisposizione organica o costituzionale a contrarre infermità e/o a preesistenti condizioni morbose, portano a concludere che nella materia in esame si rinvengono puntualmente tutte quelle esigenze che, in relazione ad ogni controversia in materia di lavoro, impongono la completezza del ricorso e della memoria difensiva nei termini innanzi indicati, sicché non è consentito dubitare che l´onere della prova - secondo i principi generali (art. 2697 c.c.) - gravi sul dipendente, non sussistendo in materia presunzioni di dipendenza da causa di servizio, come accade, invece, per le malattie professionali tabellate.

5.2. Quanto sinora esposto si configura come ulteriore e coerente sviluppo del principi fissati da queste Sezioni Unite in tema di non contestazione dei fatti allegati in ricorso (cfr. Cassazione, Sezioni Unite, 761/2003).

I giudici di legittimità, nell´esaminare funditus le conseguenze derivanti dalla mancata contestazione da parte del convenuto dei "fatti costitutivi del diritto" (es.: nella domanda di condanna al pagamento dei compensi per lavoro straordinario, l´avvenuta prestazione oltre i limiti dell´orario normale) e "delle circostanze dedotte al solo fine di dimostrare l´esistenza dei fatti costitutivi, aventi mero rilievo istruttorio" (es.: sempre con riferimento alla domanda per straordinario, compimento del percorso casa-luogo di lavoro e viceversa in ore astrattamente coerenti con l´anzidetta prosecuzione della prestazione lavorativa) hanno osservato:

a) che per avere rilevanza la contestazione deve, fondamentalmente "riguardare i fatti da accertare nel processo" e non la determinazione della loro dimensione giuridica, come si evince, per quanto riguarda il rito del lavoro, dall´art. 416 c.p.c. che addossa appunto al convenuto l´onere «di prendere posizione in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione», e lo riferisce espressamente "ai fatti affermati dall´attore a fondamento della domanda";

b) che a fronte di un onere specificamente imposto dal dettato legislativo la mancata contestazione del "fatto costitutivo del diritto" rappresenta in positivo e di per sé l´adozione di una linea difensiva incompatibile con la negazione del fatto, rendendo inutile provarlo perché lo rende non controverso;

c) che la tendenziale irreversibilità della non contestazione del "fatto costitutivo del diritto" si pone in coerenza con la struttura del processo che, nel rito del lavoro, è finalizzata a far sì che all´udienza di discussione la causa giunga delineata in modo compiuto per quanto attiene all´oggetto ed alle esigenze istruttorie;

d) che con riferimento alla non contestazione dei "i fatti dedotti in esclusiva funzione probatoria" non è, invece, formulabile una identica conclusione perché essi "hanno una rilevanza che si esaurisce sul piano istruttorio", operando sulla formazione del convincimento del giudice stesso ai fini degli accertamenti richiestigli (cfr. in motivazione Cassazione, Sezioni Unite, 761/2002 cit.).

5.3. Dagli enunciati principi si evince che i dati fattuali, interessanti sotto diverso profilo la domanda attrice, devono tutti essere esplicitati in modo esaustivo o in quanto fondativi del diritto fatto valere in giudizio o in quanto volti ad introdurre nel giudizio stesso circostanze di mera rilevanza istruttoria non potendosi negare la necessaria circolarità, per quanto attiene al rito del lavoro, tra oneri di allegazione, oneri di contestazione ed oneri di prova; circolarità affermata - come è opportuno ribadire ancora una volta - dal combinato disposto dell´art. 414, nn. 4 e 5, e dall´art. 416, 3° comma, c.p.c. (cfr. al riguardo Cassazione 5526/2002). Da qui l´impossibilità di contestare o richiedere prova - oltre i termini preclusivi stabiliti dal codice di rito - su fatti non allegati nonché su circostanze che, pur configurandosi come presupposti o elementi condizionanti il diritto azionato, non siano stati esplicitati in modo espresso e specifico nel ricorso introduttivo del giudizio (cfr. in argomento tra le altre: Cassazione 2802/2003 cit.; 5526/2002 cit.; 15920/2000).

5.4. È opportuno, sul punto, evidenziare con riferimento ai fatti sui quali si fonda la domanda attrice come la contestazione - per evitare ricadute pregiudizievoli per il convenuto - non possa essere generica, non possa cioè concretizzarsi in formule di stile, in espressioni apodittiche o in asserzioni meramente negative, ma debba essere invece puntuale, circostanziata, dettagliata ed onnicomprensiva di tutte le circostanze in relazione alle quali viene chiesta l´ammissione della prova. Non è invero priva di significato l´espressione "in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione", inclusa nell´incipit del terzo comma dell´art. 416 c.p.c. ("Nella stessa memoria il convenuto deve prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall´attore a fondamento della domanda") - e non rinvenibile nel testo dell´art. 167 c.p.c. avente ad oggetto la comparsa di risposta (nella comparsa di risposta il convenuto deve proporre tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall´attore a fondamento della domanda") - trovando detta espressione la sua logica spiegazione in quella che è stata definita come una "tendenziale unicità" dell´udienza di discussione ex art. 420 c.p.c., articolata - diversamente da quella di prima comparizione ex art. 180 c.p.c. - in modo da consentire la immediata definizione del giudizio, perseguibile in ragione della (già indicata) circolarità tra oneri di allegazione, di contestazione e di prova, nonché della completa specificazione dei dati fattuali, che nel rito del lavoro connotano, appunto, gli atti iniziali di ciascuna parte del giudizio (ricorso ex art. 414 c.p.c. e memoria difensiva ex art. 416 c.p.c.).

6. Sul versante istruttorio la sentenza impugnata ha rilevato poi che la richiesta di acquisizione del fascicolo sanitario avanzata dal SC fosse inidonea a dimostrare l´esposizione al rischio e che la prova testimoniale richiesta dalla stessa parte appellata non potesse trovare ingresso "in quanto non articolata in capitoli e siccome dedotta per la prima volta in appello".

Contro tale statuizione della impugnata sentenza si rivolgono le censure con le quali il ricorrente addebita al Tribunale di non avere riscontrato le indicate carenze probatorie, ed in particolare di avere ignorato la domanda di prove (in ordine alle effettive condizioni di lavoro), di non avere voluto richiedere chiarimenti al c.t.u. ed, ancora, di non avere disposto la rinnovazione della consulenza anche per un ulteriore approfondimento dei quesiti.

In altri termini il ricorrente finisce per lamentare il mancato esercizio da parte del giudice d´appello dei poteri d´ufficio di cui all´art. 437, comma 2, c.p.c.

6.1. Anche queste censure si rivelano prive di fondamento.

È stato evidenziato in dottrina che il rigido sistema di preclusioni per quanto attiene alla allegazione di fatti ed all´onere delle parti di indicare - alla stregua del principio di eventualità - i mezzi di prova relativi ai fatti posti a fondamento della domanda o delle eccezioni, prima di conoscere l´atteggiamento (di contestazione o no) della controparte, hanno indotto il legislatore nel rito del lavoro (in una area cioè del contenzioso in cui risulta rafforzata l´esigenza di un accertamento pieno dell´esistenza o inesistenza dei fatti controversi in ragione del carattere indisponibile o semindisponibile delle situazioni soggettive coinvolte) ad attribuire al giudice d´appello incisivi poteri d´ufficio in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova ove essi siano "indispensabili ai fini della decisione della causa" (art. 437, secondo comma, c.p.c.).

Per quanto, poi, riguarda l´esercizio dei poteri d´ufficio del giudice, queste Sezioni Unite, dopo avere evidenziato che rispetto alla (non indifferente) disponibilità della prova concessa al giudice nel rito ordinario (artt. 61, 197, 116, comma 5, 118, 1° e 2° comma, 213, 240, 241, 253, 257, 317), detta disponibilità è nel rito del lavoro ben più accentuata stante il disposto dell´art. 421, 2 comma, c.p.c. (il giudice può «disporre d´ufficio in qualsiasi momento l´ammissione di ogni mezzo di prova, anche al di fuori dei limiti stabiliti dal codice civile». Con detta norma si è inteso affermare che «è caratteristica precipua del detto rito speciale il contemperamento del principio dispositivo con la esigenze della ricerca della verità materiale» di guisa che, allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice ove reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi e fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull´onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d´ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l´incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti» (cfr. in tali testuali termini: Cassazione, Sezioni Unite, 761/2002 cit.).

6.2. In questa sede va, dunque, ribadito che i poteri d´ufficio del giudice del lavoro possono essere esercitati pur in presenza di già verificatesi decadenze o preclusioni e pur in assenza di una esplicita richiesta delle parti in causa.

Rimangono però tuttora all´interno della Sezione lavoro di questa Corte oscillazioni sul concreto esercizio dei poteri istruttori. Ed infatti, si è ritenuto in alcune pronunzie che detti poteri sono rimessi all´assoluta discrezionalità del giudice del lavoro sicché la sua decisione si sottrae al sindacato di legittimità anche sotto il profilo del difetto di motivazione (cfr. al riguardo: Cassazione 10658/1999; 6903/1994; 3549/1994; 2920/1987, ed, in epoca più di recente, Cassazione 3505/2002, per la riaffermazione del principio che la facoltà del giudice del merito di avvalersi dei poteri istruttori conferitigli dagli artt. 421 e 437 c.p.c. costituisce espressione di un potere discrezionale che non abbisogna di alcuna motivazione potendosi le relative ragioni dedurre anche per implicito).

Altre decisioni si inseriscono invece nell´indirizzo secondo il quale l´esercizio dei poteri istruttori del giudice non è meramente discrezionale bensì obbligato ove sussistano ragionevoli probabilità di accertare attraverso di essi la verità (cfr. al riguardo tra le altre: Cassazione 8220/2003; 4180/2003; 6531/2003; 3026/1999; 310/1998), con l´unico limite della necessaria allegazione dei fatti ad opera della parte (in tali sensi: Cassazione 8220/2003 cit.; 9034/2000).

6.3. Ritengono le Sezioni Unite di condividere, seppure con le necessarie precisazioni, il secondo orientamento. Ed, invero, anche a volere riconoscere ai poteri istruttori del giudice del lavoro il carattere discrezionale, detti poteri - proprio perché funzionalizzati al contemperamento del principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale - non possono mai essere esercitati in modo arbitrario. Ne consegue che il giudice - in ossequio a quanto prescritto dall´art. 134 c.p.c. ed al disposto di cui all´art. 111, 1° comma, Cost. sul "giusto processo regolato della legge" - deve esplicitare le ragioni per le quali reputa di far ricorso all´uso del poteri istruttori o, nonostante la specifica richiesta di una della parti, ritiene, invece, di non farvi ricorso.

Il relativo provvedimento può, così, essere sottoposto al sindacato di legittimità per vizio di motivazione al sensi del n. 5 dell´art. 360 c.p.c., qualora non sia sorretto da una congrua e logica spiegazione nel disattendere la richiesta di mezzi istruttori relativi ad un punto della controversia che, se esaurientemente istruito, avrebbe potuto condurre ad una diversa decisione della controversia.

Lo stesso provvedimento è suscettibile, però, di essere censurato anche ex art. 360, n. 3, c.p.c. per violazione di legge, allorquando il giudice del lavoro abbia esercitato i poteri istruttori sulla base del proprio sapere privato, con riferimento a fatti non allegati dalle parti o non acquisiti al processo qui in modo rituale, che non siano cioè emersi nel processo nel contraddittorio delle parti come avviene, ad esempio, in sede di interrogatorio libero delle parti stesse (cfr. in tali sensi: Cassazione 8220/2003 cit.); allorquando, superando il principio della legalità della prova, abbia dato ingresso nel giudizio alle cosiddette prove atipiche; allorquando abbia, in violazione del principio dispositivo, ammesso una prova contro la volontà già espressa in modo chiaro dalle parti di non servirsi di detta prova (cfr. al riguardo: Cassazione 3537/1993); ed ancora allorquando, in presenza di una prova già espletata su punti decisivi della controversia, venga ammessa d´ufficio una prova diretta a sminuirne l´efficacia e la portata, specialmente nei casi in cui - come avviene per la prova per testi - un corretto esercizio del contraddittorio e del diritto di difesa impone alle parti di espletare la prova in un unico contesto temporale (cfr. sul punto: Cassazione 11002/2000).

7. In applicazione dei principi enunciati è agevole rilevare l´infondatezza del ricorso.

7.1. IlSC nel ricorso introduttivo della controversia si è limitato a affermare di avere svolto mansioni di guardiano ed ha, sulla base di quest´unica asserzione, chiesto il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio della malattia da cui ora è affetto.

Come ha correttamente rilevato il Tribunale di Bari il ricorrente aveva l´onere di provare (art. 2697 c.c.) non solo il tipo di mansioni svolte ed il suo concreto atteggiarsi ma pure la sussistenza di tutte quelle condizioni (vibrazioni, scuotimenti, inclemenze atmosferiche, sottoposizioni a turni irregolari) cui addebita in relazione di causalità la malattia da cui è risultato affetto.

Dette circostanze fattuali andavano specificate nel ricorso introduttivo della lite (art. 414, n. 4, c.p.c.) e sempre nello stesso atto andavano indicati i mezzi di prova al fine di accertarne il verificarsi (art. 414, n. 5, c.p.c.), non potendo le riscontrate carenze essere superate per effetto dell´espletamento della perizia medico-legale e del contenuto dell´anamnesi lavorativa in essa riportata, atteso che la consulenza tecnica, essendo strumento di valutazione - ad opera di persone dotate di particolare conoscenza - di fatti già dimostrati, non può costituire un mezzo di prova o di ricerca di fatti che devono essere provati dalle parti e delle quali il consulente non può essere chiamato a dare notizia neppure in sede di richiesta di chiarimenti (cfr. tra le tante: Cassazione 5422/2002; 15630/2000; 8395/1996).

7.2. Per quanto riguarda, poi, la doglianza mossa in ricorso per il mancato esercizio da parte del Tribunale dei suoi poteri d´ufficio, ne va dichiarata l´infondatezza perché i motivi addotti dal giudice d´appello nel respingere la sollecitazione avanzata in tali sensi dal SC in sede di gravame si sottraggono ad ogni censura in questa sede di legittimità in quanto - in mancanza di una articolazione della prova testimoniale per specifici capi ad opera del suddetto ricorrente - una iniziativa sul punto da parte del Tribunale non era consentita non risultando allegati (o ritualmente acquisiti) in giudizio i fatti (mansioni, concrete modalità di esercizio dell´attività lavorativa, ecc.) in relazione ai quali avrebbe dovuto spiegarsi l´attività istruttoria, e non risultando neanche che fossero state individuate in maniera certa le persone che avrebbero dovuto deporre come testimoni.

7.3. Né sotto altro versante vale ad inficiare l´impugnata decisione il richiamo all´art. 2087 c.c.

Tale norma, imponendo infatti al datore di lavoro di tutelare l´integrità fisica dei propri dipendenti, comporta l´obbligo del risarcimento del danno nei confronti del lavoratore che abbia subito un pregiudizio.

Alla fattispecie di illecito contrattuale o extracontrattuale è invece completamente estraneo l´istituto dell´equo indennizzo, che costituisce un trattamento privilegiato riconosciuto ai lavoratori del settore pubblico (cfr. al riguardo: C.d.S., 14/1985, A.p., e, più di recente, C.d.S., 9/1993, A.p., che evidenzia come l´equo indennizzo, proprio per il concetto di equità e discrezionalità ad esso inerente, e per la sua non coincidenza con l´entità effettiva del pregiudizio subito dal dipendente, appare avvicinabile ad una delle tante indennità che l´amministrazione conferisce ai propri dipendenti in relazione alle vicende del servizio, quali l´indennità di rischio, l´indennità di disagiata residenza, l´indennità di famiglia ecc.). Tale trattamento, esteso, come detto, ai lavoratori privati (quali sono ora i dipendenti delle Ferrovie dello Stato), si concretizza in un´obbligazione pecuniaria del datore di lavoro, di natura latamente retributiva e strettamente inerente al rapporto di lavoro, che sorge per effetto di una infermità ricollegabile eziologicamente all´attività lavorativa spiegata, indipendentemente da eventuali inadempimenti imputabili al datore di lavoro al sensi dell´art. 2087 c.c. (cfr. Cassazione 2802/2003, cui add C.d.S., Sezione sesta, 397/1991, per l´affermazione che le disposizioni in materia di equo indennizzo hanno apprestato un meccanismo che prescinde dall´accertamento della responsabilità dell´ente pubblico; e ciò sia nell´interesse generale ad una sollecita definizione delle procedure amministrative, sia nell´interesse dello stesso dipendente che, in caso di rigida applicazione dei principi vigenti in materia di responsabilità contrattuale, avrebbe corso il rischio di non percepire alcunché tutte le volte che l´Amministrazione avesse dato la prova di avere impiegato l´ordinaria diligenza per evitare l´evento dannoso).

8. Ricorrono giusti motivi per compensare interamente tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione.



P.Q.M.



La Corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione