L’ASSEGNAZIONE, PER MOTIVI DISCIPLINARI, DI MANSIONI MENO GRATIFICANTI DELLE PRECEDENTI COSTITUISCE PROVVEDIMENTO ILLEGITTIMO – Per violazione dell’art. 7 St. Lav. e dell’art. 2103 cod. civ. (Cassazione Sezione Lavoro n. 13187 del 20 giugno 2005, Pres. Sciarelli, Rel. Spanò).
         Claudio A., dipendente della Rai Radiotelevisione italiana Spa, è stato punito, in seguito a un addebito disciplinare, con l’assegnazione di mansioni meno gratificanti da un punto di vista umano e professionale. Sia il Pretore che, in grado di appello, il Tribunale di Roma hanno dichiarato illegittimo il provvedimento aziendale.

         La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 13187 del 20 giugno 2005, Pres. Sciarelli, Rel. Spanò) ha rigettato, sul punto, il ricorso dell’azienda. Il Tribunale di Roma – ha osservato la Corte – ha ben evidenziato che le nuove mansioni erano meno gratificanti da un punto di vista umano e professionale ed ha quindi concluso che, in mancanza di uno specifico motivo organizzativo e tecnico, il collegamento causale con il fatto addebitato evidenziava lo scopo di allontanare il lavoratore dai compiti precedentemente svolti e a lui graditi; il comportamento di parte datoriale era contrario quindi all’art. 7 della legge 300/70 ed anche ai principi di correttezza e buona fede. Trattasi di una valutazione di merito – ha osservato la Corte – adeguatamente motivata e immune da qualsiasi vizio logico che non può quindi essere criticata in sede di legittimità; deve d’altra parte ricordarsi la giurisprudenza di legittimità, secondo cui, con riguardo allo jus variandi del datore di lavoro, il divieto di variazioni in pejus opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza delle precedenti e delle nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori, sicché nell’indagine circa tale equivalenza non è sufficiente il riferimento in astratto al livello di categoria ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente in modo tale da salvaguardarne il livello professionale acquisito e da garantire lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali, con le conseguenti prospettive di miglioramento professionale, in una prospettiva dinamica di valorizzazione delle capacità di arricchimento del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze.
 

 


 

 

Quando il procedimento per repressione del comportamento antisindacale venga promosso molto tempo dopo l’episodio denunciato, il sindacato che agisce deve provare la persistenza degli effetti della condotta illegittima del datore di lavoro – Per la sua portata intimidatoria o per la situazione di incertezza che ne consegue – La giurisprudenza della Suprema Corte è sostanzialmente univoca nel precisare che requisito necessario della speciale azione di repressione della condotta sindacale di cui all’art. 28 della legge 20 maggio 1970 n. 300 è l’attualità della condotta o il perdurare dei suoi effetti. La sussistenza di tale requisito non è esclusa dall’esaurirsi della singola azione antisindacale del datore di lavoro, ove il comportamento illegittimo di quest’ultimo risulti, alla stregua di una valutazione globale non limitata ai singoli episodi, tuttora persistente ed idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria, sia per la situazione di incertezza che ne consegue, tale da determinare una restrizione o un ostacolo al libero svolgimento dell’attività sindacale. Il ritardo anche notevole della proposizione del ricorso ex art. 28 rispetto all’inizio della condotta antisindacale non determina l’inammissibilità del ricorso stesso, perché il comportamento denunciato sia ancora in atto e permangano gli effetti lesivi della libertà e della attività del sindacato e del diritto di sciopero. Anche un accertamento giudiziale può essere funzionale allo scopo di porre fine ad una situazione di illegittima compressione della libertà sindacale.
         Nel settore giornalistico il comitato di redazione, secondo il testo dell’art. 34 del contratto nazionale di settore, ha tra l’altro il compito di “esprimere pareri preventivi e formulare proposte sugli indirizzi tecnico-professionali, la fissazione degli organici redazionali e i criteri per la loro realizzazione – con particolare riferimento a quanto previsto dall’art. 4 (situazione occupazionale) – anche in rapporto alle esigenze dei singoli settori della redazione, l’utilizzazione delle collaborazioni fisse, gli orari, i trasferimenti, i licenziamenti, i mutamenti e l’assegnazione di mansioni e qualifiche ed ogni iniziativa che riguardi l’organizzazione dei servizi anche con riferimento all’autonomia della testata ai fini del miglioramento del giornale e possa avere riflessi sui livelli occupazionali, anche in relazione agli strumenti da attivare per il graduale riassorbimento della disoccupazione di settore”.
         Riguardo ad un obbligo di consultazione preventiva (insito nella previsione di un parere preventivo), appare evidente che l’inadempimento del datore di lavoro nei confronti del sindacato si perfeziona e si manifesta definitivamente nel momento in cui è adottato il provvedimento che avrebbe dovuto essere preceduto dalla consultazione. In linea di principio nello stesso momento si compie definitivamente il comportamento antisindacale, non essendo successivamente più possibile la formulazione del parere preventivo. Ciò non toglie, naturalmente, che, l’accertamento dell’elemento dell’attualità del comportamento antisindacale ai fini della promozione dell’azione di cui all’art. 28 L. n. 300/1970 possa essere basato su una valutazione globale non limitata al singolo episodio. Quando il procedimento ex art. 28 St. Lav. venga promosso vari anni dopo l’omessa consultazione del comitato d redazione, è necessario, per l’accoglimento della domanda, che l’organizzazione sindacale provi che l’episodio denunciato incide, per aspetti ancora sussistenti all’epoca della proposizione del ricorso, sul prestigio del comitato di redazione e del sindacato e sulle possibilità, per il primo, di esercitare le sue funzioni anche consultive (Cassazione Sezione Lavoro n. 11741 del 6 giugno 2005, Pres. Mileo, Rel. Toffoli).

 


 

 

I FRATELLI E LE SORELLE DELLE PERSONE PORTATRICI DI HANDICAP HANNO DIRITTO AL CONGEDO STRAORDINARIO PREVISTO DALLA LEGGE ANCHE NEL CASO IN CUI I GENITORI SIANO DIVENUTI INABILI In base all’art. 3 della Costituzione (Corte Costituzionale n. 233 del 16  giugno 2005, Pres. Contri).
          
Maria C. ha chiesto all’INPS di poter fruire del congedo straordinario della durata di due anni, previsto dall’art. 42, quinto comma del decreto legislativo 26 marzo 2001, per poter prestare assistenza al fratello convivente, portatore di handicap grave; la richiedente ha fatto presente che suo padre era deceduto e che sua madre era affetta da invalidità totale, con diritto all’indennità di accompagnamento. L’Inps non ha accolto la domanda, rilevando che la legge invocata prevedeva il diritto, per il fratello o la sorella del soggetto portatore di handicap, al congedo straordinario, solo nel caso di avvenuta scomparsa di entrambi i genitori. Nella causa che ne è seguita il Tribunale di Vercelli ha rigettato la domanda proposta da Maria C. escludendo di poter interpretare la legge nel senso richiesto. Nel giudizio di appello la Corte di Torino ha rilevato che l’art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, nel subordinare alla “scomparsa” dei genitori il diritto dei fratelli o delle sorelle del soggetto handicappato grave a godere del congedo previsto dalla stessa disposizione, postula la morte o quantomeno l’assenza dei genitori, cui non è equiparabile l’ipotesi del genitore totalmente inabile ed incapace di provvedere all’assistenza del figlio handicappato.
           La Corte ha peraltro sollevato la questione di illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3 della Costituzione, della norma di legge da applicare, rilevando che essa irragionevolmente regola in modo difforme situazioni fra loro analoghe, quali sono quella del genitore deceduto o assente e quella del genitore totalmente inabile, pur essendo comune ad entrambe le ipotesi l’impossibilità del genitore di provvedere all’assistenza del figlio handicappato. La Corte Costituzionale con sentenza n. 233 del 16 giugno 2005 (Pres. e Red. Contri) ha ritenuto la questione fondata ed ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non prevede il diritto di uno dei fratelli o delle sorelle conviventi con soggetto con handicap in situazione di gravità a fruire del congedo ivi indicato, nell’ipotesi in cui i genitori siano impossibilitati a provvedere all’assistenza del figlio handicappato perché totalmente inabili.
           La ratio legis della disposizione normativa in esame – ha osservato la Corte –  consiste nel favorire l’assistenza al soggetto con handicap grave mediante la previsione del diritto ad un congedo straordinario – rimunerato in misura corrispondente all’ultima retribuzione e coperto da contribuzione figurativa – che, all’evidente fine di assicurare continuità nelle cure e nell’assistenza ed evitare vuoti pregiudizievoli alla salute psico-fisica del soggetto diversamente abile, è riconosciuto non solo in capo alla lavoratrice madre o in alternativa al lavoratore padre ma anche, dopo la loro scomparsa, a favore di uno dei fratelli o delle sorelle conviventi. La norma censurata, peraltro, utilizzando in modo evidentemente improprio e atecnico il termine “scomparsa”, non prende in considerazione il caso in cui uno dei genitori, pur essendo in vita, si trovi tuttavia nella oggettiva impossibilità di prestare assistenza al figlio, in quanto a sua volta totalmente inabile: occorre perciò verificare se tale omissione risulti sorretta da una idonea e ragionevole giustificazione.
           La Corte ha ricordato che essa, nel sottolineare l’esigenza costituzionale di tutela dei soggetti deboli, ha posto in luce, fin dalla sentenza n. 215 del 1987, in tema di diritto alla frequenza scolastica dei portatori di handicap, che i fattori di recupero e di superamento della emarginazione di questi ultimi sono rappresentati non solo dalle pratiche di cura e di riabilitazione ma anche dal pieno ed effettivo inserimento dei medesimi anzitutto nella famiglia e, quindi, nel mondo scolastico ed in quello del lavoro, precisando che l’esigenza di socializzazione può essere attuata solo rendendo doverose le misure di integrazione e di sostegno a loro favore. L’applicazione di tali principi ha così consentito il riconoscimento in capo ai portatori di handicap di diritti e di provvidenze economiche, la cui mancata previsione normativa si è reputata non conforme a Costituzione, risolvendosi in un inammissibile impedimento all’effettività dell’assistenza e dell’integrazione (sentenze n. 467 e n. 329 del 2002, n. 167 del 1999).
           L’essenziale ruolo della famiglia nell’assistenza e nella socializzazione del soggetto disabile – ha rilevato la Corte – è stato posto in rilievo nella sentenza n. 350 del 2003 (in tema di concessione del beneficio della detenzione domiciliare alla madre condannata e, nei casi previsti, al padre condannato, conviventi con un figlio portatore di handicap totalmente invalidante) nella quale si è affermato che la salute psico-fisica del soggetto affetto da handicap invalidante può essere notevolmente pregiudicata dalla mancanza di cure da parte della madre e che «in questa prospettiva, la possibilità di concedere la detenzione domiciliare al genitore condannato, convivente con un figlio totalmente handicappato, appare funzionale all’impegno della Repubblica, sancito nel secondo comma dell’art. 3 della Costituzione, di rimuovere gli ostacoli di ordine sociale che impediscono il pieno sviluppo della personalità».
           Tra tali interventi a tutela del disabile – ha aggiunto la Corte – si inscrive il diritto al congedo straordinario previsto dalla L. n. 151/01 il quale tuttavia rimane privo di concreta attuazione proprio in situazioni che necessitano di un più incisivo e adeguato sostegno, come quella, prospettata dal giudice rimettente, nella quale la presenza del genitore totalmente invalido e privo di autonomia - che nella specie ha altresì diritto ad assistenza - esclude che possano beneficiare dell’agevolazione in esame il fratello o la sorella conviventi del soggetto diversamente abile, benché questi si diano cura di entrambi.
           Ai fini della tutela prevista nella norma – la concluso la Corte –  la scomparsa del genitore deve essere considerata alla stregua dell’accertata impossibilità dello stesso ad occuparsi del soggetto handicappato; è dunque incostituzionale l’art. 42, comma 5, del decreto legislativo in esame, che irragionevolmente limita il congedo in capo ai fratelli e alle sorelle del soggetto handicappato al caso di scomparsa dei genitori così non estendendo la tutela al caso di genitori impossibilitati a provvedere al figlio handicappato, trattandosi di una situazione che esige la medesima protezione di quella esplicitata nella norma.

 


 

 

 

Cassazione: Va risarcita anche l'agonia patita prima di morire

Va risarcita anche l'agonia patita prima della morte. La Corte di Cassazione ha cosi' dato il via libera al risarcimento del danno morale per una famiglia napoletana che ha perso il figlio in seguito ad un incidente stradale. Non importa se l'agonia del proprio caro e' stata ''breve'', si tratta di un ''danno catastrofico'' che risulta ''apprezzabile dalla vittima pure nel breve intervallo di tempo intercorso tra le lesioni e la morte'', e che si trasmette per diritto ereditario ai familiari. Un risarcimento che la Corte d'appello partenopea, nel novembre del 2002, aveva negato ai genitori e al fratello di Massimo A., morto per le gravi lesioni riportate in un incidente stradale nel '92, sulla base del fatto che il loro caro ''era sopravvissuto alle lesioni per un tempo troppo breve'', e dunque non aveva patito una lunga agonia. Di diverso avviso e' stata la Terza sezione civile della Cassazione che, accogliendo il ricorso dei familiari di Massimo A., ha stabilito che dovranno essere risarciti per l' agonia patita dal figlio nelle due ore precedenti la morte, per le lesioni riportare in seguito allo scontro con un altro veicolo che aveva invaso la sua corsia di marcia.

 

 


 

 

Pedopornografia in rete. Responsabilità dell'Host Provider

La legge n. 269 del 1998 introdusse a suo tempo alcune fattispecie giuridiche volte a tutelare i minori nei casi di prostituzione, pornografia, detenzione di materiale pornografico e turismo sessuale, contemplate ora dagli artt. 600 bis, ter, quater e quinquies del codice penale. Ci occuperemo in particolar modo degli artt. 600 ter e quater c.p. in quanto sono state pronunciate di recente due importanti sentenze che chiariscono alcuni punti - prima oscuri - in relazione alla responsabilità penale dell’host provider e sull’interpretazione dei concetti di distribuzione e detenzione del materiale pedopornografico. In via generale, l’art. 600 ter co. I° c.p. punisce la pornografia minorile intesa come sfruttamento di minori al fine di realizzare esibizioni pornografiche; il co. II° dello stesso articolo sanziona penalmente chi fa commercio di detto materiale; il co. III° è residuale rispetto ai primi due commi e punisce chi distribuisce, divulga o pubblicizza detto materiale (o informazioni volte all’adescamento di minori) anche per via telematica; il co. IV° è ulteriormente residuale rispetto al comma precedente e sanziona la semplice cessione, anche gratuita, del materiale pedopornografico. A ben vedere, i commi III° e IV° si differenziano per la presenza o meno di una pluralità di destinatari. Questo è ciò che ribadisce e precisa il GIP, dott. Paolo Micheli del Tribunale di Perugia, con una sentenza del 7 luglio 2003, depositata il 30 dicembre 2003. Nel caso di specie, si configurava la presunta violazione dell’art. 600 ter co. III° in quanto l’imputato aveva inviato, tramite il servizio chat di Seat Pagine Gialle, sette immagini pedopornografiche ad un singolo utente (in realtà, il destinatario era un agente del Compartimento Polizia Postale sotto copertura). Nel caso concreto non sussiste la violazione di cui all’art. 600 ter co. III° c.p., bensì va ravvisata quella residuale di cui al co. IV°. Infatti, non incide l’argomentazione secondo la quale l’operazione è stata effettuata tramite chat (intesa come spazio virtuale potenzialmente aperto ad un numero indeterminato di soggetti), poiché l’invio di files diversi dai messaggi di testo può avvenire anche in connessione riservata tramite una “finestra” di dialogo tra due soli utenti, il mittente ed il destinatario, dove il secondo è libero di consentire o meno la ricezione del file audio, video o audiovisivo, potendosi trattare peraltro di un unico evento con carattere occasionale. Non si ritiene pertanto sufficiente il mero utilizzo del sistema telematico per integrare il reato di cui al terzo comma. Il GIP precisa che “perché vi sia divulgazione o distribuzione occorre che l’agente inserisca le foto pedopornografiche in un sito accessibile a tutti o le invii ad un gruppo o lista di discussione o, ancora, le invii ad indirizzi di persone determinate ma in successione, realizzando così una serie di conversazioni private con una pluralità di persone distinte”. Questa sentenza appare peraltro importante in relazione all’interpretazione del concetto di detenzione previsto dall’art. 600 quater c.p. In linea di massima, questo articolo punisce chi detiene immagini pedopornografiche sul disco fisso del computer. Ma se tali immagini restano conservate nella cartella cd. “Temporary Internet Files” è necessario provare la consapevolezza dell’utente circa la conservazione dei files. Nel caso di specie, il Tribunale di Perugia ha ritenuto che l’utente medio non è necessariamente in grado di conoscere la funzione di tale cartella, che normalmente conserva traccia del materiale anche soltanto visionato sulla rete. Tale sentenza sottolinea inoltre che è sempre necessario verificare contestualmente in concreto sia la consapevolezza dell’età minore dei soggetti ritratti, sia l’effettiva portata pornografica delle immagini, distinta dalla semplice esibizione di nudità. Ancora più interessante in argomento si pone la sentenza del 25 febbraio 2004 del Tribunale Penale di Milano, V sezione in composizione collegiale, che si è pronunciata in merito alla sussistenza di responsabilità penale del service o access provider nel caso di omissione di controllo sull’operato dei content providers in tema di distribuzione di materiale pedopornografico. A parere di detto tribunale, non si può ravvisare una responsabilità penale per omissione di controllo in capo a detti soggetti per concorso in fatto altrui, in quanto si consentirebbe l’applicazione analogica in malam partem della responsabilità ex artt. 57 e 57 bis c.p. di direttore, editore e stampatore di pubblicazioni cartacee. In effetti, un sito Internet non è equiparabile ad una testata editoriale, in quanto il primo - a differenza del secondo - può contenere un infinito numero di collegamenti ipertestuali e linking ad altri siti e, conseguentemente, il controllo su tutto il materiale rinvenibile tramite uno spazio virtuale è pressoché impossibile. Al fine di configurare un’ipotesi di responsabilità penale del service o access provider, vanno quantomeno dimostrate la conoscibilità da parte degli stessi della presenza di materiale illecito sullo spazio reso disponibile al content provider e l’oggettiva possibilità di impedire la commissione del reato. Il concorso di detti soggetti sarebbe configurabile soltanto nel caso venga ad esistenza una specifica attività illecita commissiva che comporti un quid pluris rispetto all’illecito di base, ad esempio l’organizzazione di una migliore fruibilità per l’utente o l’inserimento di un banner sulla pagina incriminata. Altrimenti si finirebbe per accreditare un’ipotesi di responsabilità oggettiva.

 

 


 

 

Cassazione: Comodato e mutamento della detenzione in possesso ai fini dell’usucapione

La Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione (Sent. n. 5551/2005) ha stabilito che "la presunzione del possesso in colui che esercita un potere di fatto non opera, a norma dell’art. 1141c.c., quando la relazione con il bene non consegua ad un atto volontario di apprensione, ma derivi da un iniziale atto o fatto del proprietario-possessore, e, non essendo svolta contro la volontà del proprietario, è qualificabile come detenzione semplice o precaria anche l’attività di colui il quale continua a disporre della cosa dopo il venir meno del rapporto che giustificava l’anteriore disponibilità". I Giudici del Palazzaccio hanno inoltre precisato che "indipendentemente dalla circostanza che la disponibilità di una cosa sia qualificata da un interesse del detentore ovvero sia, per cause originarie o sopravvenute a mero titolo precario, assumendo la stessa un significato unicamente ai fini della legittimazione alla tutela possessoria, occorre, quindi, per la trasformazione della detenzione in possesso, un mutamento del titolo che non può aver luogo mediante un mero atto di volizione interna, ma deve risultare dal compimento di idonee attività materiali di specifica opposizione al proprietario-possessore, quale, ad esempio, l’arbitrario rifiuto alla restituzione del bene, e non soltanto da atti corrispondenti all’esercizio del possesso, che di per sé denunciano unicamente un abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene".
 

 

Corte di Cassazione, Seconda Sezione Civile- Sentenza n. 5551 del 15/03/2005

Motivi della decisione

A norma dell’art. 335 c.p.c., va disposta la riunione dei ricorsi proposti in via principale e in via incidentale.

Con il primo motivo di ricorso, i ricorrenti, denunciando la nullità della sentenza impugnata per la falsa applicazione degli artt. 1140, 1141 e 1158 c.c., censurano l’affermazione della Corte d’appello, secondo la quale la detenzione di un bene, anche se ricevuta a titolo precario per ragioni di servizio o di ospitalità, non può essere mutata in possesso, neppure dopo il venir meno del titolo, senza un atto di impossessamento, atteso che l’istituto dell’interversione atterrebbe alle sole detenzioni qualificate da un diritto obbligatorio e, in ogni caso, al termine della detenzione di un bene sarebbe sufficiente ad integrare il suo possesso un’attività del cessato detentore corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà.

Il motivo è infondato.

La presunzione del possesso in colui che esercita un potere di fatto non opera, a norma dell’art. 1141c.c., quando la relazione con il bene non consegua ad un atto volontario di apprensione, ma derivi da un iniziale atto o fatto del proprietario-possessore, e, non essendo svolta contro la volontà del proprietario, è qualificabile come detenzione semplice o precaria anche l’attività di colui il quale continua a disporre della cosa dopo il venir meno del rapporto che giustificava l’anteriore disponibilità (cfr.: Cass. civ, sez. II, sent. 18 dicembre 1993, n.12569; Cass. civ., sez. II, sent. 22 gennaio 1994, n.622).

Indipendentemente dalla circostanza che la disponibilità di una cosa sia qualificata da un interesse del detentore ovvero sia, per cause originarie o sopravvenute a mero titolo precario, assumendo la stessa un significato unicamente ai fini della legittimazione alla tutela possessoria, occorre, quindi, per la trasformazione della detenzione in possesso, un mutamento del titolo che non può aver luogo mediante un mero atto di volizione interna, ma deve risultare dal compimento di idonee attività materiali di specifica opposizione al proprietario-possessore (cfr. Cass. civ., sez. II, sent 4 dicembre 1995, n. 12493), quale, ad esempio, l’arbitrario rifiuto alla restituzione del bene (cfr. Cass. civ. sent. 19 maggio 1982, n. 3086), e non soltanto da atti corrispondenti all’esercizio del possesso, che di per sé denunciano unicamente un abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene (cfr. Cass. civ., sez. II, sent. 20 maggio 2002, n. 7337).

Va condivisa quindi, la sentenza impugnata laddove ha ritenuto necessario per il mutamento in possesso della detenzione non qualificata un atto di interversione, anche se impropriamente qualificato come atto necessario di impossessamento, il quale rendesse evidente che il detentore non continuava a fruire ulteriormente dell’immobile senza il consenso, sia pure implicito, dei convenuti.

Con il secondo motivo, i ricorrenti lamentano l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della decisione di secondo grado, giacchè la prova del compimento dell’impossessamento era necessariamente desumibile dalla riferita presenza di un cane con funzione di guardia dell’edificio e di animali da fattoria all’interno di esso, certificata dai veterinari della A.S.L., e dall’assenza della dimostrazione del possesso delle chiavi da parte del proprietario o di una concessione a titolo ipotecario.

Il motivo è infondato.

Non conferendo l’art. 360, n.5., c.p.c., al giudice di legittimità il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, bensì quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, le valutazioni compiute dal giudice del merito, cui è riservato l’apprezzamento dei fatti, alla cassazione della sentenza per vizi di motivazione si può giungere solo quando il ragionamento esposto nella sentenza risulti incompleto, incoerente e illogico, e non già quando il giudice abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore e un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte.

Nella specie, la Corte d’appello, coerentemente con la premessa che costituiva onere degli attori dimostrare l’interversione della detenzione in possesso, ha sottolineato che dagli elementi acquisiti non risultava che il detentore avesse compiuto degli atti che manifestassero inequivocamente al possessore il mutamento del suo animus, giacchè l’attività materiale da lui compiuta non era tale da rendere riconoscibile all’avente diritto la sua intenzione, ma evidenziava soltanto l’uso che aveva fatto dell’immobile da lui detenuto.

Nessun vizio di insufficienza o contraddittorietà è riscontrabile negli argomenti esposti, che consentono di identificare il procedimento logico posto alla base della decisione, né risulta violato il principio dell’onere della prova, posto che la dimostrazione della mancanza della tolleranza del possessore gravava sul detentore che intendeva far valere l’interversione, e la difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte che si sottrae al sindacato di legittimità.

Va dichiarato inammissibile, invece, per carenza di interesse il terzo motivo, con il quale i ricorrenti denunciano l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in punto di opponibilità dell’intervenuta usucapione al terzo acquirente, giacchè, avendo la sentenza impugnata ritenuto assorbito l’esame della relativa questione, non vi è stata relativamente ad essa alcuna loro soccombenza. Infondato, infine, è il quarto motivo di ricorso principale che investe la regolamentazione delle spese del giudizio di appello sul rilievo della omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla condanna degli appellanti all’integrale pagamento, nonostante la parziale soccombenza dell’appellante incidentale e l’avvenuto riconoscimento della durata ultraventennale della detenzione. In materia di spese giudiziali, infatti, il ricorso per cassazione può investire solo gli errori della pronuncia che si risolvano in un vizio logico di motivazione o nella violazione di una norma giuridica, e nessuna di queste ipotesi ricorre nella specie, avendo la Corte d’appello fatto carico degli oneri processuali agli appellanti principali esprimendo un insindacabile apprezzamento discrezionale sullo scarso peso, nell’economia del giudizio, dell’appello incidentale.

Resta assorbito l’esame del primo motivo di ricorso incidentale, con il quale la società lamenta, condizionatamente, l’omessa e/o contraddittoria motivazione della decisione di secondo grado in ordine all’avvenuta cessazione, il 31 dicembre 1976, della detenzione dell’immobile per motivi di servizio, atteso che dalle prove testimoniali assunte risultava che il caseificio aveva continuato l’attività ben oltre tale termine.

Con il secondo motivo, il ricorrente incidentale, denunciando l’omessa e/o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, nonché la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1126 c.c., lamenta che la Corte d’appello, pur avendo affermato che nell’ipotesi di occupazione senza titolo di un immobile il proprietario del bene subisce un danno per l’impossibilità di disporre del bene, abbia ritenuto che tale presupposto nono poteva ritenersi sufficiente alla liquidazione in via equitativa del danno medesimo e all’esonero della società dalla prova del loro ammontare.

Il motivo è infondato.

Come già costantemente affermato da questa Corte, l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1126 c.c. e 2056 c.c. dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla c.d. equità giudiziale correttiva od integrativa, che , da un lato è subordinato alla condizione che risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile per la parte interessata provare il danno nel suo preciso ammontare, e, dall’altro, non ricomprende anche l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo già assolto l’onere della parte di dimostrare sia la sussistenza, sia l’entità materiale del danno (cfr.: Cass. civ., sez. II, sent. 18 novembre 2002, n.16202; Cass civ., sez. II, sent. 28 giugno 2000, n.8795; Cass. civ. sez. III, sent. 25 settembre 1998, n. 9588; Cass. civ., sez. III, sent. 2 luglio 1991, n. 7262).

La parte danneggiata non è esonerata, quindi, dal fornire gli elementi probatori e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre, affinché l’apprezzamento equitativo sia per quanto possibile ricondotto alla sua funzione di colmare solo le lacune insuperabili nell’iter della determinazione dell’equivalente pecuniario del danno stesso, e la necessità della prova di un concreto pregiudizio economico sussiste anche nell’ipotesi di danno in re ipsa, in cui la presunzione si riferisce solo all’an debeatur e non anche all’entità del danno ai fini della determinazione quantitativa e della liquidazione dello stesso per equivalente pecuniario.

Coerentemente con tale principio, dunque, il giudice di secondo grado ha escluso che l’indisponibilità dell’immobile fosse di per sé sufficiente a giustificare una liquidazione equitativa del danno e, con una valutazione insindacabile nel merito in quanto congruamente motivata, ha negato l’esistenza degli elementi di fatto necessari per una sua valutazione, che ha esemplificato nell’utilità che il possessore avrebbe voluto ritrarre dall’immobile nella quantità e nella qualità dei danni subiti in fatto e nell’utilizzazione al quale uil bene era concretamente destinato.

All’infondatezza o inammissibilità dei motivi segue il rigetto del ricorso principale e di quello incidentale autonomo, mentre va dichiarato assorbito l’esame del ricorso incidentale condizionato.

Sussistono i motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi.

Rigetta il ricorso principale e quello incidentale autonomo e dichiara assorbito il ricorso incidentale condizionato.

Compensa le spese del giudizio.

Così deliberato in camera di consiglio, in Roma il 14 gennaio 2005.