L’ASSEGNAZIONE, PER MOTIVI DISCIPLINARI, DI
MANSIONI MENO GRATIFICANTI DELLE PRECEDENTI COSTITUISCE PROVVEDIMENTO
ILLEGITTIMO – Per violazione dell’art. 7 St. Lav. e
dell’art. 2103 cod. civ. (Cassazione Sezione Lavoro n. 13187 del 20
giugno 2005, Pres. Sciarelli, Rel. Spanò).
Claudio A., dipendente della
Rai Radiotelevisione italiana Spa, è stato punito, in seguito a un
addebito disciplinare, con l’assegnazione di mansioni meno gratificanti
da un punto di vista umano e professionale. Sia il Pretore che, in grado
di appello, il Tribunale di Roma hanno dichiarato illegittimo il
provvedimento aziendale.
La Suprema
Corte (Sezione Lavoro n. 13187 del 20 giugno 2005, Pres. Sciarelli, Rel.
Spanò) ha rigettato, sul punto, il ricorso dell’azienda. Il Tribunale di
Roma – ha osservato la Corte – ha ben evidenziato che le nuove mansioni
erano meno gratificanti da un punto di vista umano e professionale ed ha
quindi concluso che, in mancanza di uno specifico motivo organizzativo e
tecnico, il collegamento causale con il fatto addebitato evidenziava lo
scopo di allontanare il lavoratore dai compiti precedentemente svolti e
a lui graditi; il comportamento di parte datoriale era contrario quindi
all’art. 7 della legge 300/70 ed anche ai principi di correttezza e
buona fede. Trattasi di una valutazione di merito – ha osservato la
Corte – adeguatamente motivata e immune da qualsiasi vizio logico che
non può quindi essere criticata in sede di legittimità; deve d’altra
parte ricordarsi la giurisprudenza di legittimità, secondo cui, con
riguardo allo jus variandi del datore di lavoro, il divieto di
variazioni in pejus opera anche quando al lavoratore, nella
formale equivalenza delle precedenti e delle nuove mansioni, siano
assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori, sicché
nell’indagine circa tale equivalenza non è sufficiente il riferimento in
astratto al livello di categoria ma è necessario accertare che le nuove
mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente in modo
tale da salvaguardarne il livello professionale acquisito e da garantire
lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali, con
le conseguenti prospettive di miglioramento professionale, in una
prospettiva dinamica di valorizzazione delle capacità di arricchimento
del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze.
Quando il procedimento per
repressione del comportamento antisindacale venga promosso molto tempo
dopo l’episodio denunciato, il sindacato che agisce deve provare la
persistenza degli effetti della condotta illegittima del datore di
lavoro – Per la sua portata intimidatoria o per la situazione di
incertezza che ne consegue – La giurisprudenza della Suprema Corte è
sostanzialmente univoca nel precisare che requisito necessario della
speciale azione di repressione della condotta sindacale di cui all’art.
28 della legge 20 maggio 1970 n. 300 è l’attualità della condotta o il
perdurare dei suoi effetti. La sussistenza di tale requisito non è
esclusa dall’esaurirsi della singola azione antisindacale del datore di
lavoro, ove il comportamento illegittimo di quest’ultimo risulti, alla
stregua di una valutazione globale non limitata ai singoli episodi,
tuttora persistente ed idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo, sia
per la sua portata intimidatoria, sia per la situazione di incertezza
che ne consegue, tale da determinare una restrizione o un ostacolo al
libero svolgimento dell’attività sindacale. Il ritardo anche notevole
della proposizione del ricorso ex art. 28 rispetto all’inizio della
condotta antisindacale non determina l’inammissibilità del ricorso
stesso, perché il comportamento denunciato sia ancora in atto e
permangano gli effetti lesivi della libertà e della attività del
sindacato e del diritto di sciopero. Anche un accertamento giudiziale
può essere funzionale allo scopo di porre fine ad una situazione di
illegittima compressione della libertà sindacale.
Nel settore
giornalistico il comitato di redazione, secondo il testo dell’art. 34
del contratto nazionale di settore, ha tra l’altro il compito di
“esprimere pareri preventivi e formulare proposte sugli indirizzi
tecnico-professionali, la fissazione degli organici redazionali e i
criteri per la loro realizzazione – con particolare riferimento a quanto
previsto dall’art. 4 (situazione occupazionale) – anche in rapporto alle
esigenze dei singoli settori della redazione, l’utilizzazione delle
collaborazioni fisse, gli orari, i trasferimenti, i licenziamenti, i
mutamenti e l’assegnazione di mansioni e qualifiche ed ogni iniziativa
che riguardi l’organizzazione dei servizi anche con riferimento
all’autonomia della testata ai fini del miglioramento del giornale e
possa avere riflessi sui livelli occupazionali, anche in relazione agli
strumenti da attivare per il graduale riassorbimento della
disoccupazione di settore”.
Riguardo ad un obbligo di consultazione preventiva (insito
nella previsione di un parere preventivo), appare evidente che
l’inadempimento del datore di lavoro nei confronti del sindacato si
perfeziona e si manifesta definitivamente nel momento in cui è adottato
il provvedimento che avrebbe dovuto essere preceduto dalla
consultazione. In linea di principio nello stesso momento si compie
definitivamente il comportamento antisindacale, non essendo
successivamente più possibile la formulazione del parere preventivo. Ciò
non toglie, naturalmente, che, l’accertamento dell’elemento
dell’attualità del comportamento antisindacale ai fini della promozione
dell’azione di cui all’art. 28 L. n. 300/1970 possa essere basato su una
valutazione globale non limitata al singolo episodio. Quando il
procedimento ex art. 28 St. Lav. venga promosso vari anni dopo l’omessa
consultazione del comitato d redazione, è necessario, per l’accoglimento
della domanda, che l’organizzazione sindacale provi che l’episodio
denunciato incide, per aspetti ancora sussistenti all’epoca della
proposizione del ricorso, sul prestigio del comitato di redazione e del
sindacato e sulle possibilità, per il primo, di esercitare le sue
funzioni anche consultive (Cassazione Sezione Lavoro n. 11741 del 6
giugno 2005, Pres. Mileo, Rel. Toffoli).
I FRATELLI E LE
SORELLE DELLE PERSONE PORTATRICI DI HANDICAP HANNO
DIRITTO AL CONGEDO STRAORDINARIO PREVISTO DALLA LEGGE ANCHE NEL CASO IN
CUI I GENITORI SIANO DIVENUTI INABILI – In base all’art. 3
della Costituzione (Corte Costituzionale n. 233 del 16 giugno 2005,
Pres. Contri).
Maria
C. ha chiesto all’INPS di poter fruire del congedo straordinario della
durata di due anni, previsto dall’art. 42, quinto comma del decreto
legislativo 26 marzo 2001, per poter prestare assistenza al fratello
convivente, portatore di handicap grave; la richiedente ha fatto
presente che suo padre era deceduto e che sua madre era affetta da
invalidità totale, con diritto all’indennità di accompagnamento. L’Inps
non ha accolto la domanda, rilevando che la legge invocata prevedeva il
diritto, per il fratello o la sorella del soggetto portatore di
handicap, al congedo straordinario, solo nel caso di avvenuta scomparsa
di entrambi i genitori. Nella causa che ne è seguita il Tribunale di
Vercelli ha rigettato la domanda proposta da Maria C. escludendo di
poter interpretare la legge nel senso richiesto. Nel giudizio di appello
la Corte di Torino ha rilevato che l’art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151
del 2001, nel subordinare alla “scomparsa” dei genitori il diritto dei
fratelli o delle sorelle del soggetto handicappato grave a godere del
congedo previsto dalla stessa disposizione, postula la morte o
quantomeno l’assenza dei genitori, cui non è equiparabile l’ipotesi del
genitore totalmente inabile ed incapace di provvedere all’assistenza del
figlio handicappato.
La Corte ha peraltro sollevato la
questione di illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3
della Costituzione, della norma di legge da applicare, rilevando che
essa irragionevolmente regola in modo difforme situazioni fra loro
analoghe, quali sono quella del genitore deceduto o assente e quella del
genitore totalmente inabile, pur essendo comune ad entrambe le ipotesi
l’impossibilità del genitore di provvedere all’assistenza del figlio
handicappato. La Corte Costituzionale con sentenza n. 233 del 16 giugno
2005 (Pres. e Red. Contri) ha ritenuto la questione fondata ed ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 42, comma 5, del
decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle
disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità
e paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53),
nella parte in cui non prevede il diritto di uno dei fratelli o delle
sorelle conviventi con soggetto con handicap in situazione di
gravità a fruire del congedo ivi indicato, nell’ipotesi in cui i
genitori siano impossibilitati a provvedere all’assistenza del figlio
handicappato perché totalmente inabili.
La ratio legis della
disposizione normativa in esame – ha osservato la Corte – consiste nel
favorire l’assistenza al soggetto con handicap grave mediante la
previsione del diritto ad un congedo straordinario – rimunerato in
misura corrispondente all’ultima retribuzione e coperto da contribuzione
figurativa – che, all’evidente fine di assicurare continuità nelle cure
e nell’assistenza ed evitare vuoti pregiudizievoli alla salute
psico-fisica del soggetto diversamente abile, è riconosciuto non solo in
capo alla lavoratrice madre o in alternativa al lavoratore padre ma
anche, dopo la loro scomparsa, a favore di uno dei fratelli o delle
sorelle conviventi. La norma censurata, peraltro, utilizzando in modo
evidentemente improprio e atecnico il termine “scomparsa”, non prende in
considerazione il caso in cui uno dei genitori, pur essendo in vita, si
trovi tuttavia nella oggettiva impossibilità di prestare assistenza al
figlio, in quanto a sua volta totalmente inabile: occorre perciò
verificare se tale omissione risulti sorretta da una idonea e
ragionevole giustificazione.
La Corte ha ricordato che essa, nel
sottolineare l’esigenza costituzionale di tutela dei soggetti deboli, ha
posto in luce, fin dalla sentenza n. 215 del 1987, in tema di diritto
alla frequenza scolastica dei portatori di handicap, che i
fattori di recupero e di superamento della emarginazione di questi
ultimi sono rappresentati non solo dalle pratiche di cura e di
riabilitazione ma anche dal pieno ed effettivo inserimento dei medesimi
anzitutto nella famiglia e, quindi, nel mondo scolastico ed in quello
del lavoro, precisando che l’esigenza di socializzazione può essere
attuata solo rendendo doverose le misure di integrazione e di sostegno a
loro favore. L’applicazione di tali principi ha così consentito il
riconoscimento in capo ai portatori di handicap di diritti e di
provvidenze economiche, la cui mancata previsione normativa si è
reputata non conforme a Costituzione, risolvendosi in un inammissibile
impedimento all’effettività dell’assistenza e dell’integrazione
(sentenze n. 467 e n. 329 del 2002, n. 167 del 1999).
L’essenziale ruolo della famiglia
nell’assistenza e nella socializzazione del soggetto disabile – ha
rilevato la Corte – è stato posto in rilievo nella sentenza n. 350 del
2003 (in tema di concessione del beneficio della detenzione domiciliare
alla madre condannata e, nei casi previsti, al padre condannato,
conviventi con un figlio portatore di handicap totalmente
invalidante) nella quale si è affermato che la salute psico-fisica del
soggetto affetto da handicap invalidante può essere notevolmente
pregiudicata dalla mancanza di cure da parte della madre e che «in
questa prospettiva, la possibilità di concedere la detenzione
domiciliare al genitore condannato, convivente con un figlio totalmente
handicappato, appare funzionale all’impegno della Repubblica, sancito
nel secondo comma dell’art. 3 della Costituzione, di rimuovere gli
ostacoli di ordine sociale che impediscono il pieno sviluppo della
personalità».
Tra tali interventi a tutela del
disabile – ha aggiunto la Corte – si inscrive il diritto al congedo
straordinario previsto dalla L. n. 151/01 il quale tuttavia rimane privo
di concreta attuazione proprio in situazioni che necessitano di un più
incisivo e adeguato sostegno, come quella, prospettata dal giudice
rimettente, nella quale la presenza del genitore totalmente invalido e
privo di autonomia - che nella specie ha altresì diritto ad assistenza -
esclude che possano beneficiare dell’agevolazione in esame il fratello o
la sorella conviventi del soggetto diversamente abile, benché questi si
diano cura di entrambi.
Ai fini della tutela prevista nella
norma – la concluso la Corte – la scomparsa del genitore deve essere
considerata alla stregua dell’accertata impossibilità dello stesso ad
occuparsi del soggetto handicappato; è dunque incostituzionale l’art.
42, comma 5, del decreto legislativo in esame, che irragionevolmente
limita il congedo in capo ai fratelli e alle sorelle del soggetto
handicappato al caso di scomparsa dei genitori così non estendendo la
tutela al caso di genitori impossibilitati a provvedere al figlio
handicappato, trattandosi di una situazione che esige la medesima
protezione di quella esplicitata nella norma.
Cassazione: Va risarcita anche
l'agonia patita prima di morire
|
Va risarcita anche
l'agonia patita prima della morte. La Corte di Cassazione ha cosi'
dato il via libera al risarcimento del danno morale per una famiglia
napoletana che ha perso il figlio in seguito ad un incidente
stradale. Non importa se l'agonia del proprio caro e' stata ''breve'',
si tratta di un ''danno catastrofico'' che risulta ''apprezzabile
dalla vittima pure nel breve intervallo di tempo intercorso tra le
lesioni e la morte'', e che si trasmette per diritto ereditario ai
familiari. Un risarcimento che la Corte d'appello partenopea, nel
novembre del 2002, aveva negato ai genitori e al fratello di Massimo
A., morto per le gravi lesioni riportate in un incidente stradale
nel '92, sulla base del fatto che il loro caro ''era sopravvissuto
alle lesioni per un tempo troppo breve'', e dunque non aveva patito
una lunga agonia. Di diverso avviso e' stata la Terza sezione civile
della Cassazione che, accogliendo il ricorso dei familiari di
Massimo A., ha stabilito che dovranno essere risarciti per l' agonia
patita dal figlio nelle due ore precedenti la morte, per le lesioni
riportare in seguito allo scontro con un altro veicolo che aveva
invaso la sua corsia di marcia. |
Pedopornografia in rete.
Responsabilità dell'Host Provider
|
La legge n. 269 del
1998 introdusse a suo tempo alcune fattispecie giuridiche volte a
tutelare i minori nei casi di prostituzione, pornografia, detenzione
di materiale pornografico e turismo sessuale, contemplate ora dagli
artt. 600 bis, ter, quater e quinquies del codice penale. Ci
occuperemo in particolar modo degli artt. 600 ter e quater c.p. in
quanto sono state pronunciate di recente due importanti sentenze che
chiariscono alcuni punti - prima oscuri - in relazione alla
responsabilità penale dell’host provider e sull’interpretazione dei
concetti di distribuzione e detenzione del materiale
pedopornografico. In via generale, l’art. 600 ter co. I° c.p.
punisce la pornografia minorile intesa come sfruttamento di minori
al fine di realizzare esibizioni pornografiche; il co. II° dello
stesso articolo sanziona penalmente chi fa commercio di detto
materiale; il co. III° è residuale rispetto ai primi due commi e
punisce chi distribuisce, divulga o pubblicizza detto materiale (o
informazioni volte all’adescamento di minori) anche per via
telematica; il co. IV° è ulteriormente residuale rispetto al comma
precedente e sanziona la semplice cessione, anche gratuita, del
materiale pedopornografico. A ben vedere, i commi III° e IV° si
differenziano per la presenza o meno di una pluralità di
destinatari. Questo è ciò che ribadisce e precisa il GIP, dott.
Paolo Micheli del Tribunale di Perugia, con una sentenza del 7
luglio 2003, depositata il 30 dicembre 2003. Nel caso di specie, si
configurava la presunta violazione dell’art. 600 ter co. III° in
quanto l’imputato aveva inviato, tramite il servizio chat di Seat
Pagine Gialle, sette immagini pedopornografiche ad un singolo utente
(in realtà, il destinatario era un agente del Compartimento Polizia
Postale sotto copertura). Nel caso concreto non sussiste la
violazione di cui all’art. 600 ter co. III° c.p., bensì va ravvisata
quella residuale di cui al co. IV°. Infatti, non incide
l’argomentazione secondo la quale l’operazione è stata effettuata
tramite chat (intesa come spazio virtuale potenzialmente aperto ad
un numero indeterminato di soggetti), poiché l’invio di files
diversi dai messaggi di testo può avvenire anche in connessione
riservata tramite una “finestra” di dialogo tra due soli utenti, il
mittente ed il destinatario, dove il secondo è libero di consentire
o meno la ricezione del file audio, video o audiovisivo, potendosi
trattare peraltro di un unico evento con carattere occasionale. Non
si ritiene pertanto sufficiente il mero utilizzo del sistema
telematico per integrare il reato di cui al terzo comma. Il GIP
precisa che “perché vi sia divulgazione o distribuzione occorre che
l’agente inserisca le foto pedopornografiche in un sito accessibile
a tutti o le invii ad un gruppo o lista di discussione o, ancora, le
invii ad indirizzi di persone determinate ma in successione,
realizzando così una serie di conversazioni private con una
pluralità di persone distinte”. Questa sentenza appare peraltro
importante in relazione all’interpretazione del concetto di
detenzione previsto dall’art. 600 quater c.p. In linea di massima,
questo articolo punisce chi detiene immagini pedopornografiche sul
disco fisso del computer. Ma se tali immagini restano conservate
nella cartella cd. “Temporary Internet Files” è necessario provare
la consapevolezza dell’utente circa la conservazione dei files. Nel
caso di specie, il Tribunale di Perugia ha ritenuto che l’utente
medio non è necessariamente in grado di conoscere la funzione di
tale cartella, che normalmente conserva traccia del materiale anche
soltanto visionato sulla rete. Tale sentenza sottolinea inoltre che
è sempre necessario verificare contestualmente in concreto sia la
consapevolezza dell’età minore dei soggetti ritratti, sia
l’effettiva portata pornografica delle immagini, distinta dalla
semplice esibizione di nudità. Ancora più interessante in argomento
si pone la sentenza del 25 febbraio 2004 del Tribunale Penale di
Milano, V sezione in composizione collegiale, che si è pronunciata
in merito alla sussistenza di responsabilità penale del service o
access provider nel caso di omissione di controllo sull’operato dei
content providers in tema di distribuzione di materiale
pedopornografico. A parere di detto tribunale, non si può ravvisare
una responsabilità penale per omissione di controllo in capo a detti
soggetti per concorso in fatto altrui, in quanto si consentirebbe
l’applicazione analogica in malam partem della responsabilità ex
artt. 57 e 57 bis c.p. di direttore, editore e stampatore di
pubblicazioni cartacee. In effetti, un sito Internet non è
equiparabile ad una testata editoriale, in quanto il primo - a
differenza del secondo - può contenere un infinito numero di
collegamenti ipertestuali e linking ad altri siti e,
conseguentemente, il controllo su tutto il materiale rinvenibile
tramite uno spazio virtuale è pressoché impossibile. Al fine di
configurare un’ipotesi di responsabilità penale del service o access
provider, vanno quantomeno dimostrate la conoscibilità da parte
degli stessi della presenza di materiale illecito sullo spazio reso
disponibile al content provider e l’oggettiva possibilità di
impedire la commissione del reato. Il concorso di detti soggetti
sarebbe configurabile soltanto nel caso venga ad esistenza una
specifica attività illecita commissiva che comporti un quid pluris
rispetto all’illecito di base, ad esempio l’organizzazione di una
migliore fruibilità per l’utente o l’inserimento di un banner sulla
pagina incriminata. Altrimenti si finirebbe per accreditare
un’ipotesi di responsabilità oggettiva. |
Cassazione: Comodato e mutamento
della detenzione in possesso ai fini dell’usucapione
|
La Seconda Sezione
Civile della Corte di Cassazione (Sent. n. 5551/2005) ha stabilito
che "la presunzione del possesso in colui che esercita un potere di
fatto non opera, a norma dell’art. 1141c.c., quando la relazione con
il bene non consegua ad un atto volontario di apprensione, ma derivi
da un iniziale atto o fatto del proprietario-possessore, e, non
essendo svolta contro la volontà del proprietario, è qualificabile
come detenzione semplice o precaria anche l’attività di colui il
quale continua a disporre della cosa dopo il venir meno del rapporto
che giustificava l’anteriore disponibilità". I Giudici del
Palazzaccio hanno inoltre precisato che "indipendentemente dalla
circostanza che la disponibilità di una cosa sia qualificata da un
interesse del detentore ovvero sia, per cause originarie o
sopravvenute a mero titolo precario, assumendo la stessa un
significato unicamente ai fini della legittimazione alla tutela
possessoria, occorre, quindi, per la trasformazione della detenzione
in possesso, un mutamento del titolo che non può aver luogo mediante
un mero atto di volizione interna, ma deve risultare dal compimento
di idonee attività materiali di specifica opposizione al
proprietario-possessore, quale, ad esempio, l’arbitrario rifiuto
alla restituzione del bene, e non soltanto da atti corrispondenti
all’esercizio del possesso, che di per sé denunciano unicamente un
abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale
disponibilità del bene".
|
Corte di Cassazione, Seconda Sezione Civile-
Sentenza n. 5551 del 15/03/2005
Motivi della decisione
A norma dell’art. 335 c.p.c., va disposta la riunione dei ricorsi
proposti in via principale e in via incidentale.
Con il primo motivo di ricorso, i ricorrenti, denunciando la nullità
della sentenza impugnata per la falsa applicazione degli artt. 1140,
1141 e 1158 c.c., censurano l’affermazione della Corte d’appello,
secondo la quale la detenzione di un bene, anche se ricevuta a titolo
precario per ragioni di servizio o di ospitalità, non può essere mutata
in possesso, neppure dopo il venir meno del titolo, senza un atto di
impossessamento, atteso che l’istituto dell’interversione atterrebbe
alle sole detenzioni qualificate da un diritto obbligatorio e, in ogni
caso, al termine della detenzione di un bene sarebbe sufficiente ad
integrare il suo possesso un’attività del cessato detentore
corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà.
Il motivo è infondato.
La presunzione del possesso in colui che esercita un potere di fatto non
opera, a norma dell’art. 1141c.c., quando la relazione con il bene non
consegua ad un atto volontario di apprensione, ma derivi da un iniziale
atto o fatto del proprietario-possessore, e, non essendo svolta contro
la volontà del proprietario, è qualificabile come detenzione semplice o
precaria anche l’attività di colui il quale continua a disporre della
cosa dopo il venir meno del rapporto che giustificava l’anteriore
disponibilità (cfr.: Cass. civ, sez. II, sent. 18 dicembre 1993, n.12569;
Cass. civ., sez. II, sent. 22 gennaio 1994, n.622).
Indipendentemente dalla circostanza che la disponibilità di una cosa sia
qualificata da un interesse del detentore ovvero sia, per cause
originarie o sopravvenute a mero titolo precario, assumendo la stessa un
significato unicamente ai fini della legittimazione alla tutela
possessoria, occorre, quindi, per la trasformazione della detenzione in
possesso, un mutamento del titolo che non può aver luogo mediante un
mero atto di volizione interna, ma deve risultare dal compimento di
idonee attività materiali di specifica opposizione al
proprietario-possessore (cfr. Cass. civ., sez. II, sent 4 dicembre 1995,
n. 12493), quale, ad esempio, l’arbitrario rifiuto alla restituzione del
bene (cfr. Cass. civ. sent. 19 maggio 1982, n. 3086), e non soltanto da
atti corrispondenti all’esercizio del possesso, che di per sé denunciano
unicamente un abuso della situazione di vantaggio determinata dalla
materiale disponibilità del bene (cfr. Cass. civ., sez. II, sent. 20
maggio 2002, n. 7337).
Va condivisa quindi, la sentenza impugnata laddove ha ritenuto
necessario per il mutamento in possesso della detenzione non qualificata
un atto di interversione, anche se impropriamente qualificato come atto
necessario di impossessamento, il quale rendesse evidente che il
detentore non continuava a fruire ulteriormente dell’immobile senza il
consenso, sia pure implicito, dei convenuti.
Con il secondo motivo, i ricorrenti lamentano l’omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione della decisione di secondo grado, giacchè la
prova del compimento dell’impossessamento era necessariamente desumibile
dalla riferita presenza di un cane con funzione di guardia dell’edificio
e di animali da fattoria all’interno di esso, certificata dai veterinari
della A.S.L., e dall’assenza della dimostrazione del possesso delle
chiavi da parte del proprietario o di una concessione a titolo
ipotecario.
Il motivo è infondato.
Non conferendo l’art. 360, n.5., c.p.c., al giudice di legittimità il
potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa,
bensì quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della
correttezza giuridica, le valutazioni compiute dal giudice del merito,
cui è riservato l’apprezzamento dei fatti, alla cassazione della
sentenza per vizi di motivazione si può giungere solo quando il
ragionamento esposto nella sentenza risulti incompleto, incoerente e
illogico, e non già quando il giudice abbia semplicemente attribuito
agli elementi valutati un valore e un significato difformi dalle
aspettative e dalle deduzioni di parte.
Nella specie, la Corte d’appello, coerentemente con la premessa che
costituiva onere degli attori dimostrare l’interversione della
detenzione in possesso, ha sottolineato che dagli elementi acquisiti non
risultava che il detentore avesse compiuto degli atti che manifestassero
inequivocamente al possessore il mutamento del suo animus, giacchè
l’attività materiale da lui compiuta non era tale da rendere
riconoscibile all’avente diritto la sua intenzione, ma evidenziava
soltanto l’uso che aveva fatto dell’immobile da lui detenuto.
Nessun vizio di insufficienza o contraddittorietà è riscontrabile negli
argomenti esposti, che consentono di identificare il procedimento logico
posto alla base della decisione, né risulta violato il principio
dell’onere della prova, posto che la dimostrazione della mancanza della
tolleranza del possessore gravava sul detentore che intendeva far valere
l’interversione, e la difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle
prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte
che si sottrae al sindacato di legittimità.
Va dichiarato inammissibile, invece, per carenza di interesse il terzo
motivo, con il quale i ricorrenti denunciano l’omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione in punto di opponibilità dell’intervenuta
usucapione al terzo acquirente, giacchè, avendo la sentenza impugnata
ritenuto assorbito l’esame della relativa questione, non vi è stata
relativamente ad essa alcuna loro soccombenza. Infondato, infine, è il
quarto motivo di ricorso principale che investe la regolamentazione
delle spese del giudizio di appello sul rilievo della omessa,
insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla condanna
degli appellanti all’integrale pagamento, nonostante la parziale
soccombenza dell’appellante incidentale e l’avvenuto riconoscimento
della durata ultraventennale della detenzione. In materia di spese
giudiziali, infatti, il ricorso per cassazione può investire solo gli
errori della pronuncia che si risolvano in un vizio logico di
motivazione o nella violazione di una norma giuridica, e nessuna di
queste ipotesi ricorre nella specie, avendo la Corte d’appello fatto
carico degli oneri processuali agli appellanti principali esprimendo un
insindacabile apprezzamento discrezionale sullo scarso peso,
nell’economia del giudizio, dell’appello incidentale.
Resta assorbito l’esame del primo motivo di ricorso incidentale, con il
quale la società lamenta, condizionatamente, l’omessa e/o
contraddittoria motivazione della decisione di secondo grado in ordine
all’avvenuta cessazione, il 31 dicembre 1976, della detenzione
dell’immobile per motivi di servizio, atteso che dalle prove
testimoniali assunte risultava che il caseificio aveva continuato
l’attività ben oltre tale termine.
Con il secondo motivo, il ricorrente incidentale, denunciando l’omessa
e/o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia,
nonché la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1126 c.c.,
lamenta che la Corte d’appello, pur avendo affermato che nell’ipotesi di
occupazione senza titolo di un immobile il proprietario del bene subisce
un danno per l’impossibilità di disporre del bene, abbia ritenuto che
tale presupposto nono poteva ritenersi sufficiente alla liquidazione in
via equitativa del danno medesimo e all’esonero della società dalla
prova del loro ammontare.
Il motivo è infondato.
Come già costantemente affermato da questa Corte, l’esercizio del potere
discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al
giudice dagli artt. 1126 c.c. e 2056 c.c. dà luogo non già ad un
giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla
c.d. equità giudiziale correttiva od integrativa, che , da un lato è
subordinato alla condizione che risulti obiettivamente impossibile, o
particolarmente difficile per la parte interessata provare il danno nel
suo preciso ammontare, e, dall’altro, non ricomprende anche
l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta,
presupponendo già assolto l’onere della parte di dimostrare sia la
sussistenza, sia l’entità materiale del danno (cfr.: Cass. civ., sez. II,
sent. 18 novembre 2002, n.16202; Cass civ., sez. II, sent. 28 giugno
2000, n.8795; Cass. civ. sez. III, sent. 25 settembre 1998, n. 9588;
Cass. civ., sez. III, sent. 2 luglio 1991, n. 7262).
La parte danneggiata non è esonerata, quindi, dal fornire gli elementi
probatori e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre,
affinché l’apprezzamento equitativo sia per quanto possibile ricondotto
alla sua funzione di colmare solo le lacune insuperabili nell’iter della
determinazione dell’equivalente pecuniario del danno stesso, e la
necessità della prova di un concreto pregiudizio economico sussiste
anche nell’ipotesi di danno in re ipsa, in cui la presunzione si
riferisce solo all’an debeatur e non anche all’entità del danno ai fini
della determinazione quantitativa e della liquidazione dello stesso per
equivalente pecuniario.
Coerentemente con tale principio, dunque, il giudice di secondo grado ha
escluso che l’indisponibilità dell’immobile fosse di per sé sufficiente
a giustificare una liquidazione equitativa del danno e, con una
valutazione insindacabile nel merito in quanto congruamente motivata, ha
negato l’esistenza degli elementi di fatto necessari per una sua
valutazione, che ha esemplificato nell’utilità che il possessore avrebbe
voluto ritrarre dall’immobile nella quantità e nella qualità dei danni
subiti in fatto e nell’utilizzazione al quale uil bene era concretamente
destinato.
All’infondatezza o inammissibilità dei motivi segue il rigetto del
ricorso principale e di quello incidentale autonomo, mentre va
dichiarato assorbito l’esame del ricorso incidentale condizionato.
Sussistono i motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio di
legittimità.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi.
Rigetta il ricorso principale e quello incidentale autonomo e dichiara
assorbito il ricorso incidentale condizionato.
Compensa le spese del giudizio.
Così deliberato in camera di consiglio, in Roma il 14 gennaio 2005.
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