La
contestazione dell’addebito disciplinare deve consentire
l’esatta individuazione dell’infrazione attribuita al lavoratore – Si tratta
di una garanzia procedimentale desumibile dal carattere generale del “giusto
procedimento” – La contestazione degli addebiti, assolvendo allo
scopo di consentire al lavoratore incolpato una immediata ed adeguata difesa,
non solo deve contenere la non equivoca manifestazione dell’intenzione del
datore di lavoro di considerare gli addebiti come illecito disciplinare ma
deve anche rivestire il carattere della specificità, cioè deve contenere i
dati e gli aspetti essenziali del fatto nella sua materialità, in modo che,
pur senza una precisa menzione delle norme legali o contrattuali che si
assumono violate, sia consentita l’esatta individuazione della infrazione
contestata e del comportamento nel quale il datore di lavoro ravvisa
l’addebito disciplinare sanzionabile. La funzione della previa contestazione
dell’addebito è quella di consentire al dipendente incolpato di indicare le
sue giustificazioni e di fissare, con carattere di immutabilità, la condotta
della quale è incolpato il lavoratore: per cui si è esattamente ritenuto che
la contestazione disciplinare – correttamente intimata secondo termini
specifici – costituisce una garanzia procedimentale desumibile dal carattere
generale del “giusto procedimento”, ripetutamente riconosciuta dalla Corte
Costituzionale come un principio di “civiltà giuridica” e sintetizzata nella
prescrizione “audietur et altera pars” (Cassazione Sezione Lavoro n.
8303 del 21 aprile 2005, Pres. Senese, Rel. Balletti).
La sciatalgia (acuta) è un legittimo impedimento a comparire in udienza - Cassazione Penale, Sezione VI, Sentenza n. 12386 del 06/04/2005
Valutando l'affezione come idonea a impedire il pieno
esercizio del diritto di difesa, i giudici di piazza Cavour annullano con
rinvio (e incombe la prescrizione) le condanne di un magistrato militare che
usava l'auto blu per andare a far spese personali
Con un verdetto inusitatamente garantista - in tema di legittimo impedimento
dell'imputato a comparire - la Cassazione apre la porta alla sciatalgia,
seppur acuta, per farla entrare nel novero delle affezioni gravi che
precludono la possibilita’, per chi e’ rinviato a giudizio, di comparire in
udienza in quanto fanno venire meno la necessaria "lucidita’ mentale", oltre a
provocare una notevole sofferenza.
Infatti, la Suprema Corte - con la sentenza 12836 della Sesta sezione penale -
ha annullato con rinvio la condanna a due mesi e 20 giorni di reclusione
(commutati in 3.098 euro di multa) inflitti in appello (il 5 aprile 2002) ad
Agostino Quistelli, presidente del Tribunale militare di Roma, processato per
peculato per aver piu’ volte utilizzato l'auto blu per farsi accompagnare a
comperare piastrelle e materiale edilizio per una casa di sua proprieta’ in
corso di ristrutturazione.
L'annullamento deciso dalla Cassazione e’ dovuto al fatto che, in primo grado,
i giudici del Tribunale di Roma non concessero a Quistelli - che aveva una
sciatalgia acuta - il rinvio dell'udienza, ritenendo che il malessere non
fosse cosi’ grave da rimandare il processo.
Ma la Suprema Corte non e’ stata dello stesso parere ed ha annullato sia la
sentenza di primo grado che quella d'appello. Ora il processo a Quistelli
ricomincera’ da capo e, probabilmente, sara’ interrotto dalla prescrizione
perche’ i fatti - in base a quanto emerso dalle testimonianze degli autisti
che accompagnarono Quistelli nello shopping illecito - risalgono al dicembre
'97 e al febbraio '
Per quanto riguarda le motivazioni del rinvio deciso da Piazza Cavour, gli
ermellini sottolineano che "la sciatalgia acuta da cui era affetto l'imputato
e’ per sua natura una infermita’ che, secondo lo stesso portato lessicale,
inevitabilmente provoca al paziente forti dolori a ogni movimento corporeo".
"Richiedere all'imputato che versi in tali condizioni e che voglia comparire
all'udienza - aggiungono i magistati di legittimita’ - di impegnarsi
mentalmente e materialmente per assicurarsi il tempestivo ausilio di mezzi di
trasporto che sopperiscano integralmente alla sua incapacita’ locomotoria, e
pretendere per di piu’ che egli assista all'udienza, in simili condizioni di
sofferenza, va al di la’ di cio’ che puo’ legittimamente richiedersi a chi
voglia esercitare effettivamente, con la necessaria tranquillita’ d'animo e
capacita’ intellettiva, il suo diritto di difesa".
Cosi’ la Suprema Corte ha riscontrato la violazione, da parte dei giudici di
merito, del diritto di difesa per aver dichiarato contumace Quistelli e per
averlo considerato assente ingiustificato. Anche il rappresentante della
Procura del Palazzaccio, Giuseppe Veneziano, si era espresso in tal senso
IL MANCATO ESERCIZIO
DEL POTERE DISCIPLINARE NON ESCLUDE L’ESISTENZA DELLA SUBORDINAZIONE –
Ove sia dipeso dall’assenza, in concreto, di infrazioni
(Cassazione Sezione Lavoro n. 7025 del 5 aprile 2005, Pres. Mattone, Rel.
Filodoro).
Valeria P. ha lavorato quotidianamente nell’agenzia
Ippica V. per circa nove anni, in base a un formale contratto di
collaborazione autonoma, come addetta al totalizzatore con il compito di
ricevere gli importi delle scommesse, rilasciare le relative ricevute, pagare
le vincite e registrare le operazioni al computer. La durata dell’impegno
lavorativo era stabilita settimanalmente dal responsabile dell’agenzia. Il
compenso giornaliero era di 60 mila lire per una prestazione di 7 ore e mezza
e di 40mila lire per una prestazione di cinque ore; frequentemente era
contattata telefonicamente a casa dai responsabili dell’agenzia per lo
spostamento di turni o per sostituzioni di personale assente. Ella ha chiesto
al Pretore di Varese di accertare l’esistenza di un rapporto di lavoro
subordinato e di condannare l’azienda al pagamento delle differenze di
retribuzione dovutele in base al contratto collettivo di categoria. Il
giudice, dopo aver sentito alcuni testimoni, ha accolto la domanda,
condannando l’agenzia al pagamento della somma di lire 107 milioni per
differenze di retribuzione.
Questa decisione è stata integralmente riformata dalla
Corte di Appello di Milano che ha escluso l’esistenza di un rapporto di lavoro
subordinato, rilevando che dalla prova testimoniale non era emerso che la
lavoratrice fosse assoggettata a specifiche disposizioni concernenti
l’intrinseco svolgimento della prestazione e al potere disciplinare
dell’azienda. Valeria P. ha proposto ricorso per cassazione, censurando la
decisione della Corte di Appello per vizi di motivazione e violazione di
legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro
n. 7025 del 5 aprile 2005, Pres. Mattone, Rel. Filadoro) ha accolto il
ricorso. La mancata manifestazione del potere disciplinare – ha osservato la
Corte – non è idonea ad escludere la subordinazione, quando il potere non sia
esercitato per l’assenza, in concreto, di fatti rilevanti sotto il profilo
disciplinare.
Essa ha richiamato due precedenti decisioni secondo cui:
-
In materia di qualificazione giuridica del rapporto di personale
addetto alla ricezione di scommesse in sala corse, elementi di fatto dai quali
è desumibile la natura subordinata del rapporto di lavoro, sono l’inserimento
del lavoratore nell’organizzazione aziendale, con prestazione di sole energie
lavorative, corrispondenti all’attività dell’impresa, nel rispetto di un
orario strettamente collegato con gli orari di apertura e chiusura della sala
corse, nonché il pagamento della retribuzione non in base al risultato
raggiunto, ma secondo le ore prestate nei diversi turni, mentre resta
irrilevante la discontinuità della prestazione, che non sia dovuta ad una
libera scelta del lavoratore, ma che risponda, al contrario, a criteri di
distribuzione del lavoro in turni prefissati al lavoratore e con modalità di
erogazione prestabilita in considerazione delle esigenze aziendali (Cass.
1° marzo 2001 n. 2970);
-
“In materia di qualificazione giuridica del rapporto di lavoro di
personale addetto alla ricezione di scommesse in sala corse, non sono
ravvisabili contraddizioni o vizi giuridici nella motivazione con cui il
giudice di merito, accertata una serie di elementi indicativi di un vincolo di
subordinazione (localizzazione e natura delle prestazioni, presenza di
vigilanza e controllo per quanto necessario, turni ed orari di lavoro,
struttura e disciplina dei compensi) ritenga la natura subordinata del
rapporto, non solo con riguardo ai lavoratori a tempo pieno ed a quelli
stabilmente occupati a tempo parziale, ma anche rispetto a quelli cui era
riconosciuta la facoltà, ogni volta, di accettare o meno il turno predisposto,
ed, in caso di impossibilità sopravvenuta, di avvertire il datore di lavoro o
di attivarsi per cercare un sostituto nell’ambito del gruppo dei lavoratori a
disposizione, in quanto – in quest’ultimo caso – non viene meno la personalità
della prestazione, essendo la retribuzione corrisposta all’effettivo erogatore
della prestazione lavorativa, e comunque è richiamabile in questo caso
l’ipotesi del lavoro a tempo parziale ad orario flessibile”
La Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata,
rimandando la causa, per nuovo esame, alla Corte di Appello di Brescia.
Per ottenere la restituzione di somme corrisposte al lavoratore in eccesso alla retribuzione prevista dal contratto collettivo, l’azienda deve dimostrare di essere incorsa in errore essenziale e riconoscibile – In base agli articoli 1429 e 1431 cod. civ. - Il solo fatto di aver corrisposto al dipendente una retribuzione eccedente quella prevista dal contratto collettivo non costituisce per l’azienda titolo per ottenerne la restituzione. Ove il datore di lavoro richieda la restituzione delle somme erogate in eccesso rispetto alle retribuzioni previste dal contratto collettivo, non può limitarsi a provare che il detto contratto preveda, per le prestazioni svolte, retribuzioni inferiori, ma deve dimostrare che la maggiore retribuzione erogata è stata frutto di un errore essenziale e riconoscibile dall’altro contraente, ossia di un errore che presenti i requisiti ex artt. 1429 e 1431 cod. civ. (Cassazione Sezione Lavoro n. 7020 del 5 aprile 2005, Pres. Mercurio, Rel. Balletti).
L’insegnante di scuola pubblica non può essere condannato
al risarcimento del danno subito dall’allievo per omessa vigilanza – Ne
risponde l’Amministrazione - L’art. 61 L. 11.7.1980 n. 312 prevede la
sostituzione dell’Amministrazione al personale scolastico nella obbligazione
risarcitoria verso i terzi danneggiati, con esclusione quindi della
legittimazione passiva degli insegnanti. Al riguardo la Suprema Corte (sent.
n. 12501/2000 e n. 7517/99) ha affermato che l’insegnante della scuola
pubblica è privo di legittimazione passiva nel giudizio avente ad oggetto il
risarcimento dei danni subiti da un allievo ed imputati a culpa in
vigilando dell’insegnante stesso, unico legittimato essendo il Ministero
della Pubblica Istruzione, ai sensi dell’art. 61 L. n.11.7.1980, n. 312.
Questa norma ha innovato la disciplina della responsabilità della
scuola per i danni prodotti ai terzi, nell’esercizio delle funzioni di
vigilanza degli alunni sotto l’aspetto sia sostanziale che processuale
(Cassazione Sezione Terza Civile n. 6723 del 30 marzo 2005, Pres. Preden, Rel.
Levi).
IL DIRIGENTE
DELLO STATO ASSUNTO A TEMPO INDETERMINATO, SE VIENE
COLLOCATO A DISPOSIZIONE NON HA DIRITTO A UN NUOVO INCARICO DIRIGENZIALE
– In materia le scelte
dell’Amministrazione sono discrezionali (Cassazione Sezione Lavoro n. 7131 del
6 aprile 2005, Pres. Ravagnani, Rel. Filadoro).
Andrea F., assunto nel
marzo del 1989 a tempo indeterminato con qualifica dirigente presso il
Ministero delle Finanze, come direttore dell’Ufficio IVA di Lucca, nel gennaio
2000 è stato collocato nel ruolo unico a disposizione della Presidenza del
Consiglio dei Ministri, con provvedimento del Direttore Generale del
Dipartimento delle Entrate del Ministero delle Finanze, che, valutata la
pregressa attività del dirigente, non ha ravvisato le condizioni necessarie
per confermarlo nel precedente incarico o per attribuirgli altri incarichi
dirigenziali nell’ambito del Dipartimento delle Entrate.
Andrea F. si è rivolto al Tribunale di Lucca
per ottenere l’accertamento della illegittimità di tale provvedimento nonché
l’accertamento del suo diritto ad un nuovo incarico dirigenziale di seconda
fascia, di livello pari o superiore al precedente.
Il Tribunale di Lucca
ha rigettato il ricorso. Questa decisione è stata confermata dalla Corte di
Appello di Firenze, la quale ha, tra l’altro, ritenuto non sussistente in capo
al dirigente alcun diritto soggettivo al conferimento dell’incarico; egli – ha
osservato la Corte – dopo aver compiuto il decennio di permanenza a Lucca come
direttore dell’Ufficio IVA è stato sottoposto alla valutazione del Direttore
Generale del Dipartimento delle Entrate del Ministero delle Finanze, il quale
non ha ritenuto di confermarlo nel detto incarico o di attribuirgli altri
incarichi dirigenziali nell’ambito del dipartimento delle Entrate, e pertanto
è stato correttamente collocato nel ruolo unico, di cui al D.P.R. n. 150 del
1999, che prevede appunto l’ipotesi della messa a disposizione del dirigente,
in attesa di un nuovo incarico da parte di una delle Amministrazioni dello
Stato interessate.
Andrea F. ha proposto ricorso per cassazione censurando
la sentenza impugnata per vizi di motivazione e violazione di legge. Egli, tra
l’altro, ha osservato che, seppure risponde a verità che l’istituzione del
ruolo unico della dirigenza dello Stato di cui art. 23 del D.Lgs 29/93 ha
effettivamente determinato una scissione tra il rapporto di lavoro con
l’amministrazione e l’incarico di dirigente concretamente assegnato, tutta la
normativa in materia ha espressamente previsto una serie di principi e di
regole procedimentali tali da far comunque attribuire al dirigente il diritto
ad un incarico dirigenziale, salvo le ipotesi di responsabilità e/o di revoca.
Andrea F. ha altresì dedotto che i giudici di appello non hanno considerato
che egli, in quanto dirigente già in servizio con contratto a tempo
indeterminato, in base alla vecchia disciplina non aveva bisogno di ricevere
alcun “nuovo” conferimento di incarico, ma aveva invece diritto (secondo la
previsione della lettera b) del D.M. n. 1907/VI del 23.12.1997) a partecipare,
a domanda, alla procedura di avvicendamento nell’incarico dirigenziale, sulla
base di criteri oggettivamente determinati. In base a queste disposizioni – ha
concluso il dirigente – gli sarebbe spettato, come minimo, un posto di
funzione dello stesso livello operativo dell’ufficio già ricoperto.
La Suprema Corte
(Cassazione Sezione Lavoro n. 7131 del 6 aprile 2005, Pres. Ravagnani, Rel.
Filadoro) ha rigettato il ricorso. Il provvedimento del Ministero delle
Finanze di mancata conferma del dirigente nell’incarico in precedenza
conferitogli, adottato nel 2000, – ha affermato la Corte – deve essere
esaminato alla luce delle disposizioni all’epoca in vigore, ossia l’art. 23
D.lgs. n. 29/93, come sostituito dall’art. 15 del D.Lgs. n. 80/98, inerente al
ruolo unico dei dirigenti, istituito e disciplinato dal D.P.R. 26.02.1999 n.
150, e le norme del contratto collettivo allora vigente. Secondo tali
disposizioni l’Amministrazione può ritenere di non doversi avvalere di un
determinato dipendente, mettendolo così a disposizione del ruolo unico dei
dirigenti, destinato a costituire la base di riferimento per il conferimento
degli incarichi dirigenziali nelle Amministrazioni dello Stato. Dopo la
riforma del 1998 l’area dei possibili destinatari degli incarichi si è estesa,
sia per quelli apicali, che per tutti gli altri, dai soli “dirigenti in
servizio presso l’Amministrazione interessata” ai quali faceva riferimento il
vecchio art. 19, alla più vasta area di dirigenti appartenenti al ruolo unico,
istituito in base all’art. 23, le cui modalità di costituzione e tenuta sono
regolate dal D.P.R. n. 150/99. Pertanto, il venir meno di un incarico – ha
precisato la Corte – non implica la fuoriuscita dalla dirigenza, perché
permane l’appartenenza al ruolo unico, in posizione di disponibilità.
Ulteriore conferma di ciò si ricava dal fatto che, in applicazione dei
suddetti principi, per espressa previsione normativa (art. 19, comma 10, D.Lgs.
n. 29/93), al dirigente privo di incarico possono essere assegnate funzioni
ispettive, di consulenza, studio e ricerca.
In conclusione – ha affermato la Suprema Corte – rispetto
alla scelta discrezionale dell’Amministrazione, la posizione soggettiva del
dirigente non può in alcun modo atteggiarsi come diritto soggettivo al
conseguimento di determinate funzioni. Il dato normativo, infatti, si limita a
delineare un’opzione organizzativa, rimessa alla valutazione del Direttore
generale del Dipartimento, rispetto alla quale l’interesse del dipendente ad
essere designato appare come interesse legittimo di diritto privato, non
direttamente tutelabile. Pertanto, in base alle disposizioni all’epoca
vigenti, era in facoltà dell’Amministrazione di non rinnovare automaticamente
gli incarichi di direzione ponendo il dirigente, temporaneamente, a
disposizione per altri eventuali compiti.