Prevenzione in ambiente sanitario
Pubblicata una nuova norma ISO che precisa i requisiti per la sicurezza nei laboratori medici.
 
 
 Il personale dei laboratori di medicina può essere esposto quotidianamente ad agenti infettivi, a prodotti chimici tossici e a radiazioni.
Per realizzare ambienti di lavoro sicuri viene in aiuto una nuova norma internazionale pubblicata dall’ISO.
La ISO 15190:2003 "Medical laboratories - Requirements for safety" ha lo scopo di prevenire le infezioni contratte dal personale di laboratorio e l'emissione accidentale di agenti chimici che possano essere potenzialmente dannosi per l'uomo, gli animali, le piante.

“Le malattie, le infezioni, le lesioni contratte in laboratorio non solo danneggiano i lavoratori ed i loro colleghi, ma hanno anche un impatto sulle famiglie, sugli amici e sul pubblico“ - dice il dott. Michael Noble membro del gruppo di lavoro che ha curato la realizzazione della norma. “La norma aiuta a stabilire politiche e processi che facciano dei laboratori luoghi sicuri di lavoro pur permettendo il proseguimento dell'attività diagnostica”.
La ISO 15190 specifica i requisiti per creare e mantenere un ambiente di lavoro sicuro. Copre tutti gli aspetti di sicurezza di un laboratorio, dalla gestione dei requisiti di sicurezza e la responsabilità del personale alla protezione contro le radiazioni e le precauzioni contro l'incendio.
La ISO 15190 può essere usata nei laboratori di medicina di ogni tipo, dai grandi centri di ricerca e di studio a piccoli laboratori. La norma non copre le speciali esigenze dei laboratori che lavorano con particolari agenti infettivi che richiedono elevati livelli di protezione
 

 
30/03/2004 - Cassazione: scuolabus lascia a piedi alunna, autista in carcere
Autore: Adnkronos

L'autista dello scuolabus e' come un papa' o una mamma. Pertanto ha il dovere di attendere gli scolari all'uscita dalle lezioni, sempre e comunque. Se fa scendere un alunno dallo scuolabus prima del tempo, o lascia affrontare il viaggio di ritorno a piedi, e' chiamato a rispondere penalmente di 'abbandono di minore'. Rischia il carcere. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione che ha confermato la condanna a 2 mesi e 20 giorni di reclusione, oltre al risarcimento del danno morale, a Mario S., autista 48enne napoletano, 'reo' di aver fatto scendere dall'autobus della scuola Roberta P., di nove anni, ''cosi' lasciando che la minore affrontasse il viaggio di ritorno a casa in una condizione di pericolo rappresentata dalle condizioni di luogo e di tempo'', in una strada a scorrimento veloce fuori dal centro urbano, sotto la pioggia. Per la Suprema Corte, la responsabilita' dell'autista di scuolabus e' tale che un comportamento di questo tipo e' da equiparata al reato di 'abbandono! di minore' ''perche' la situazione esige la protezione della minore dalla esposizione al pericolo che lo stesso trasporto e' finalizzato a scongiurare''. Condannato sia dal gup del Tribunale di Benevento, che dalla Corte d'appello di Napoli, nel febbraio del 2003, l'autista ha protestato in Cassazione, sostenendo che, anche se l'alunna era stata ospitata dal mezzo nel viaggio di andata alla scuola, non c'era la prova che fosse salita sullo scuolabus per il viaggio di ritorno. Ma la Quinta sezione penale non ha condiviso la linea difensiva e, respingendo il ricorso, ha confermato la responsabilita' penale dell'autista.

 
23/03/2004 - Il passeggero non allaccia le cinture? Colpa di chi guida.
Autore: Cristina Matricardi

La terza Sezione Penale della Corte di Cassazione (sentenza n.4993/04) ha stabilito che il conducente che e' alla guida di un veicolo ha l'obbligo di pretendere da chi viaggia con lui l'uso delle cinture di sicurezza. In mancanza il conducente sara' tenuto al pagamento dei danni che le persone trasportare subiscano a causa di eventuali incidenti stradali. I giudici del palazzaccio hanno sottolineato che il conducente e' tenuto ad esigere che il passeggero indossi la cintura di sicurezza e, in mancanza di rifiutarne il trasporto o sospendere la marcia

Cassazione: le dimissioni per mobbing possono essere annullate
Autore: Cristina Matricardi

La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione (Sent. 515/2004) ha stabilito che le dimissioni di un lavoratore esasperato dal mobbing possono essere annullate. I Giudici di Piazza Cavour hanno precisato che il grave turbamento psicologico di un lavoratore, derivante dalla condotta persecutoria del datore di lavoro o dei suoi superiori gerarchici, puo' assumere la forma di una vera e propria incapacita' di intendere e di volere, che rende invalidi tutti gli atti compiuti dallo stesso e, quindi, anche le dimissioni. Con questa pronuncia la Corte ha deciso il caso di una dattilografa che, in seguito a un periodo di forte pressione psicologica da parte dei suoi superiori, aveva lasciato il posto di lavoro

 

L’INFARTO CAUSATO DA STRESS PER ATTIVITA’ LAVORATIVA PARTICOLARMENTE INTENSA PUO’ COSTITUIRE “CAUSA VIOLENTA” DI INFORTUNIO SUL LAVORO – Con conseguente obbligo per l’INAIL di corrispondere il trattamento assicurativo previsto dalla legge (Cassazione Sezione Lavoro n. 14085 del 26 ottobre 2000, Pres. De Musis, Rel. Cuoco).
G.L., dipendente della Camera del Lavoro di Genova con funzioni direttive, ha avuto nel febbraio del 1992 un periodo di intensa attività lavorativa (da 12 a 14 ore al giorno) per la preparazione dell’inaugurazione della nuova sede.
Al termine delle manifestazioni che hanno accompagnato la cerimonia inaugurale, svoltasi il 15 febbraio, ha confidato a un collega di lavoro di essere “distrutto” per l’attività compiuta; dopo essere rincasato è stato colpito da un attacco cardiaco che ha reso necessario il suo ricovero nell’ospedale, dove nel giro di poche ore è deceduto per infarto del miocardio.
La sua vedova ha chiesto all’INAIL il trattamento previsto per il decesso causato da infortunio sul lavoro. L’Istituto ha respinto la domanda in quanto ha escluso l’applicabilità dell’art. 2 D.P.R. n. 1124/1965 secondo cui il trattamento assicurativo è dovuto solo in caso di decesso “per causa violenta in occasione di lavoro”. Secondo l’INAIL la cardiopatia che aveva determinato il decesso non poteva ritenersi “causa violenta”.
Nel giudizio che ne è seguito davanti al Pretore di Reggio Emilia, l’INAIL si è difeso sostenendo, tra l’altro, che la morte non doveva attribuirsi ad infortunio bensì ad altri fattori di rischio, tra cui la personalità iperemotiva del lavoratore, una grave arteriosclerosi coronarica, un pregresso infarto, un’ipertensione arteriosa, il forte tabagismo nonché l’attività impegnativa e frenetica svolta istituzionalmente e non solo contingentemente; altre circostanze da tenere presenti erano, secondo l’INAIL, il fatto che l’evento era avvenuto presso l’abitazione di G.L. dopo alcune ore dalla cessazione dell’attività lavorativa ed era stato determinato non da un evento improvviso, bensì dalla lunga azione logorante, ad effetto graduale e diluito, esercitata dalle gravose e disagevoli condizioni di lavoro.
Il Pretore ha sentito alcuni testimoni ed ha disposto una consulenza tecnica d’ufficio, dalla quale è emerso che concausa della morte era stata una condizione straordinaria di intenso stress psico-fisico; pur nella presenza di fattori di rischio (patologia coronaria, tabagismo, attività lavorativa logorante), G.L. nei giorni immediatamente precedenti l’evento era stato sottoposto a prestazioni lavorative di gran lunga superiori a quelle ordinarie (era significativo, al termine del lavoro, il suo sentirsi “distrutto”). Determinante causa dell’evento – ha accertato il Pretore - era stato lo stress emotivo (costituito dall’ansia di dare adeguato svolgimento alle manifestazioni, per le conseguenze che queste avrebbero avuto sull’immagine e, forse, sulle prospettive della sua carriera).
In considerazione dei risultati dell’istruttoria il Pretore ha accolto la domanda e la sua decisione è stata confermata, in grado di appello, dal Tribunale di Reggio Emilia.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 14085 del 26 ottobre 2000, Pres. De Musis, Rel. Cuoco) ha rigettato il ricorso dell’INAIL, affermando che determinante ai fini del riconoscimento del diritto al trattamento assicurativo previsto dalla legge è la connessione causale e topografica fra l’attività lavorativa e la lesione; la connessione non è esclusa dal contributo causale di fattori preesistenti o contestuali, di ogni altra origine.
Nell’ambito delle cause violente – ha precisato la Corte - è da inquadrare l’infarto, in quanto, per il suo attuarsi in un brevissimo arco temporale, ha il carattere della “violenza”; ed assume rilievo come causa di infortunio sul lavoro, ove sia legato all’attività lavorativa con una connessione causale; e pertanto un breve intervallo temporale fra lavoro e lesione (infarto) non esclude questa contiguità, ove sia inequivocabilmente riconducibile all’attività svolta in un tempo immediatamente precedente.
L’eventuale (pur frequente) preesistenza di fattori patologici sui quali l’infarto si innesti, la sua natura “interna”, ed il suo svilupparsi con occulto processo protratto nel tempo, anche per ritenuti meccanismi di stress - ha aggiunto la Corte - pur contribuendo casualmente al suo verificarsi, non escludono che il fatto (infarto), ove sia casualmente o topograficamente connesso con l’attività lavorativa, assuma il determinante rilievo della causa violenta in occasione di lavoro. E, poiché l’atto lavorativo può esaurirsi anche in un’azione che non esuli “dalle condizioni abituali e tipiche delle mansioni alle quali il lavoratore è addetto”, ove la morte sia stata determinata dall’infarto lo “sforzo” non è fattore necessario: l’attività lavorativa può anche rientrare nella normale quotidiana misura del lavoro. La violenza (minima misura temporale) non è dell’atto lavorativo, bensì della causa (la lesione) che determina la “morte od inabilità permanente”.
Nel caso in esame, - ha concluso la Corte - poiché è stato accertato che concausa dell’infarto era stata una condizione straordinaria di intenso stress psico-fisico, il fatto che l’attività lavorativa avesse contribuito alla determinazione della lesione attraverso un’azione “lenta e progressiva”, e con “meccanismi di stress ripetutisi nel tempo”, resta irrilevante; poiché attraverso la consulenza tecnica d’ufficio era stato accertato che concausa dell’infarto era stata la situazione di stress immediatamente precedente, la breve separazione temporale e spaziale fra attività lavorativa e lesione, non escludendo la connessione causale, resta irrilevante.

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Consiglio di Stato, V, 20 gennaio 2004, n. 138

DIPENDENTI DI ENTI PUBBLICI

Sospensione cautelare

Il periodo di sofferta sospensione cautelare dal servizio deve essere detratto dal periodo complessivo di sospensione dal servizio successivamente irrogato a titolo di sanzione disciplinare.

 

In riforma della sentenza n.112/96 del TAR Campania – Napoli – 4^ Sezione, il Consiglio di Stato accoglie il ricorso di un dipendente di una USL campana avverso il provvedimento di sospensione dal servizio e dallo stipendio per mesi sei ribadendo il principio per cui, in applicazione dell’articolo 96 del testo unico di cui al d.P.R. n. 1 del 1957 sul “computo della sospensione cautelare”, pacificamente applicabile a tutte le ipotesi di rapporto di impiego alle dipendenze della pubblica amministrazione, il periodo di tempo assoggettato al regime della sospensione cautelare deve essere computato (in una sorta di compensazione) nell’ulteriore periodo relativo all’irrogazione della sanzione disciplinare della sospensione dal servizio, in quanto se è vero che i due istituti hanno regime, natura e finalità diversi è altrettanto e prevalentemente vero (secondo lo spirito della richiamata norma), che il primo deve essere computato nel secondo per evidenti ragioni d’ordine equitativo che altrimenti il dipendente verrebbe ingiustamente penalizzato per una duplice negativa valutazione dello stesso evento.

 

 

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Competenza delle Regione sulla polizia giudiziaria e di sicurezza

 
Non esiste nel nostro ordinamento una competenza legislativa della Regione in materia di corpi di polizia giudiziaria e di corpi di polizia di sicurezza: è quanto afferma la Corte Costituzionale con la sentenza n. 313/2003 del 21 ottobre scorso con la quale è stata ritenuta fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata sul comma 3 dell'art. 4 della legge regionale n. 2 del 2002 della Regione Lombardia, che prevede l'attribuzione della qualifica di ufficiale o agente di polizia giudiziaria a norma dell'art. 57 del codice di procedura penale, al personale del Corpo forestale regionale appartenente alle qualifiche individuate dalla Giunta regionale.

(Corte Costituzionale, Ord. 21/10/2003, n.313)