Il mobbing può essere riconosciuto "d'ufficio". Il giudice ha il potere di rilevarlo anche se non menzionato nell'atto introduttivo - Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza n. 6326 del 23/03/2005  

Il mobbing puo’ essere fatto valere anche nel corso del giudizio. Se il lavoratore, infatti, nell'atto introduttivo di primo grado non ha ricondotto espressamente il comportamento del datore alle fattispecie di mobbing, questo puo’ comunque essere rilevato dal giudice. Anche se non e’ stato contestato immediatamente. E soprattutto quando, come nel caso in esame, il dipendente ha posto la lesione della sua integrita’ psicofisica in relazione non solo al demansionamento, ma al "globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro".
Lo ha chiarito la sezione lavoro della Cassazione nella sentenza 6326/05, depositata il 23 marzo e qui integralmente leggibile tra i documenti correlati. In particolare, i Supremi giudici hanno osservato che l'accertamento, da parte della Corte d'appello di Roma, del complessivo comportamento antigiuridico del datore e’ stato sufficiente, in quanto tale, alla contestazione anche "retroattiva" del mobbing. Tra l'altro i rapporti personali del ricorrente con gli altri dipendenti, si erano fatti particolarmente tesi: il lavoratore, infatti, era continuamente soggetto a "scherzi verbali, azioni di disturbo, via via appesantitesi nel tempo e di cui era certamente a conoscenza il capo del contabile della ragioneria il quale non si adopero’ perche’ cessassero". Pertanto, si legge nella sentenza 6326/05: "in ordine alla dedotta novita’ della domanda relativa al "mobbing" - rilevato che, come e’ pacifico, la diversa qualificazione del fatto giuridico non comporta "domanda nuova" - si osserva che la Corte territoriale, con motivazione congrua e logica, ha innanzitutto evidenziato che il lavoratore, nell'atto introduttivo del giudizio, ha posto la lesione della sua integrita’ psico-fisica in relazione non solo al subito demansionamento, ma al globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro". Successivamente, ha poi evidenziato che "anche se la qualificazione del detto "comportamento globale", quale mobbing, era successiva alla introduzione del giudizio, non trattatasi di domanda "nuova", tanto piu’ che il concetto di "mobbing" aveva carattere metagiuridico ed al momento mancava di una espressa previsione normativa".

 
 

 
IL LAVORATORE IN SERVIZIO NON PUO’ DISPORRE DEL SUO TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO – Perché il relativo diritto non è ancora sorto (Cassazione Sezione Lavoro n. 4822 del 7 marzo 2005, Pres. Mercurio, Rel. Maiorano).
            Giuseppe S., socio lavoratore della cooperativa IMP., dopo la cessazione del rapporto ha promosso, nei confronti della società, un giudizio diretto fra l’altro ad ottenere il pagamento di una somma a titolo di differenza di t.f.r.
            L’azienda si è difesa sostenendo che durante il rapporto, il lavoratore aveva aderito ad una delibera assembleare, con la quale i soci avevano rinunciato, a favore della cooperativa, alla parte del t.f.r. all’epoca maturata, al fine di ripianare perdite di esercizio. Il Tribunale ha accolto la domanda, ma la sua decisione è stata riformata dalla Corte d’Appello di Caltanissetta, che ha ritenuto valida la rinuncia operata dal lavoratore a una parte del t.f.r. Giuseppe S. ha proposto ricorso per cassazione sostenendo, tra l’altro, che la rinuncia non poteva essere ritenuta valida dal momento che il diritto rinunciato non poteva ritenersi sorto al momento della delibera assembleare, intervenuta quando il rapporto di lavoro non era ancora cessato.
            La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 4822 del 7 marzo 2005, Pres. Mercurio, Rel. Maiorano) ha accolto il ricorso. Al momento della rinuncia – ha osservato la Corte – il diritto del lavoratore al t.f.r. non era ancora maturato, perché il rapporto di lavoro non era cessato; deve pertanto applicarsi il principio secondo cui “la rinuncia del lavoratore subordinato a diritti futuri ed eventuali è radicalmente nulla, ai sensi dell’art. 1418 cod. civ., e non annullabile previa impugnazione da proporsi nel termine di cui all’art. 2113 cod. civ., riferendosi tale ultima norma ad atti dispositivi di diritti già acquisiti e non ad una rinuncia preventiva, come tale incidente sul momento genetico dei suddetti diritti”.

 
 
 
 
 
 
 
 

LA GRAVITA’ DELL’INSUBORDINAZIONE PUO’ ESSERE ESCLUSA QUANDO IL LAVORATORE ABBIA REAGITO A UN COMPORTAMENTO PROVOCATORIO DEL SUPERIORE – Si configura un’attenuante, di cui va tenuto conto nell’accertamento della giusta causa di licenziamento (Cassazione Sezione Lavoro n. 3994 del 25 febbraio 2005, Pres. Senese, Rel. Curcuruto).
            Nicolino P. dipendente della s.p.a. Fiat Auto, con mansioni di operaio, è stato sottoposto a procedimento disciplinare nell’ottobre del 1999 per insubordinazione, con l’addebito di essersi rifiutato, durante il turno lavorativo del 15 settembre 1999 di cambiare posto di lavoro come richiestogli per esigenze organizzative dell’azienda, rimanendo poi inoperoso per circa due ore e di aver rivolto, nel corso del turno lavorativo del 7 ottobre 1999, al supriore gerarchico Michelino D. espressioni minacciose ed offensive. Egli si è difeso sostenendo, tra l’altro, che il suo cambiamento di posto era stato deciso dal capo reparto non per esigenze lavorative, ma per motivi di ostilità personale e che, in occasione del secondo episodio contestatogli egli aveva reagito ad un’ingiusta provocazione dello stesso capo reparto. L’azienda lo ha licenziato. L’operaio si è rivolto al Tribunale di Larino contestando gli addebiti e sostenendo comunque la non proporzionalità della sanzione inflittagli. Egli ha chiesto l’annullamento del licenziamento, la reintegrazione nel posto di lavoro e la condanna dell’azienda al risarcimento del danno. Il Tribunale, dopo aver sentito alcuni testimoni, ha accolto le domande. Questa decisione è stata confermata dalla Corte di Appello di Campobasso che ha escluso la gravità dell’insubordinazione anche in considerazione dell’atteggiamento provocatorio tenuto dal superiore del lavoratore.
            Quanto al primo dei due episodi, la Corte territoriale ha ritenuto accertato che: la mattina del 15 settembre 1999 Nicolino P. impegnato nel turno di lavoro dalle 6.00 alle 14.00 era stato assegnato sulle linee terza e quarta velocità dal responsabile del turno smontante; il capo reparto Michelino D. nel prendere servizio alle ore 7.45 aveva disposto lo spostamento di Nicolino P. sulle linee di prima e seconda velocità, assumendo che ciò si era reso necessario per il ritardo di altra lavoratrice non presentatasi tempestivamente sul posto di lavoro; Nicolino P. si era rifiutato di cambiare postazione di lavoro, assumendo a sua volta che il cambio di assegnazione era avvenuto quando già aveva iniziato il turno di lavoro presso altra postazione e che le linee di prima e seconda velocità cui era stato destinato comportavano un impegno lavorativo più gravoso; a fronte del rifiuto opposto da Nicolino P., Michelino D. aveva contattato il capo gestione T., impegnato in una riunione, e ne aveva ricevuto l’indicazione di far presente al lavoratore che avrebbe dovuto riprendere a lavorare, altrimenti non sarebbe stato retribuito; Nicolino P., dopo essersi rifiutato di cambiare postazione era rimasto inoperoso per oltre due ore rimanendo fermo nei pressi della scrivania di Michelino D.; terminata la riunione, il capo gestione T. si era recato nel reparto, dove aveva trovato Nicolino P. seduto accanto alla scrivania dello stesso Michelino D., ed, ascoltate le ragioni del rifiuto al cambio di postazione, aveva ottenuto che il lavoratore riprendesse il lavoro, prendendo posto peraltro nelle linee di prima e seconda velocità, come stabilito dal capo reparto.
            La Corte di Appello ha osservato che, contrariamente alla contestazione mossa dal datore di lavoro, il comportamento di Nicolino P. non era contrassegnato dall’arbitrarietà e quindi dalla gravità ritenute dal datore di lavoro. Secondo il Giudice di merito occorreva non trascurare al riguardo anzitutto che Nicolino P., come affermato da un teste, era frequentemente soggetto a spostamenti di posizione, il che portava a non escludere del tutto la prospettazione dello stesso circa comportamenti non certo obiettivi tenuti nei suoi confronti dai superiori e in particolare da Michelino D. Inoltre, contrariamente a quanto affermato da quest’ultimo, il cambio di postazione nella mattinata del 15 settembre 1999 non sembrava effettuato in presenza delle “esigenze di ottimizzazione del lavoro” segnalate dallo stesso capo reparto. Questi infatti era giunto nel reparto alle 7.45 mentre il turno di lavoro cui partecipava Nicolino P. aveva avuto inizio alle ore 6.00 e la destinazione di Nicolino P. alle linee terza e quarta velocità era stata stabilita dal capo reparto smontante del turno precedente. Quindi, visto che l’esigenza di sostituire l’operaia ritardataria si era evidentemente già verificata all’inizio del turno, senza che il capoturno smontante ritenesse necessario adibire Nicolino P. alla prestazione di lavoro delle linee di prima e seconda velocità, non era dato comprendere per quale specifica ragione una esigenza del genere si fosse presentata solo con l’arrivo nel reparto di Michelino D., quasi due ore dopo l’inizio del turno quando ormai erano state già assegnate le postazioni a ciascun lavoratore. Il rifiuto di Nicolino P. non poteva quindi essere considerato frutto di mero arbitrio, quantomeno nella soggettiva valutazione che egli poteva aver fatto dell’ordine impartitogli, considerandolo come espressione di ostilità nei suoi confronti, il che peraltro – come riferito da un teste – non era la prima volta che accadeva.
            L’inoperosità del lavoratore nel periodo fra le ore 8.00 e le ore 10.15 non appariva poi – secondo la Corte di Appello – espressione di un deliberato proposito di non espletare i propri compiti, sembrando invece l’effetto di una situazione contingente, dovuta al fatto che il capo reparto, di fronte al rifiuto di Nicolino P. aveva contattato telefonicamente il capo gestione ed aveva ritenuto anch’egli di attenderne l’arrivo, ciò che aveva causato la lunga attesa di Nicolino P. presso la scrivania del superiore. Tale conclusione, del resto, era confermata dalla circostanza che, dopo il chiarimento con il capo gestione, Nicolino P. non aveva frapposto ostacoli a raggiungere proprio la postazione di lavoro assegnategli dal capo reparto. In conclusione, l’episodio non poteva essere ricondotto ad un caso di insubordinazione e, sotto il profilo del necessario rapporto di proporzionalità, non giustificava la sanzione del licenziamento. Quanto all’episodio successivo, esso, secondo la Corte di merito, doveva esser ricostruito come segue.
            Nella mattina del 2 ottobre 1999 Nicolino P. impegnato nel turno dalle 6.00 alle 14.00, prima di iniziare il lavoro aveva ricevuto disposizione dal capo reparto di cambiare postazione rispetto a quella occupata il giorno precedente e, in particolare, di porsi nella linea di prima anziché in quella di seconda velocità. Poiché la postazione di lavoro della prima velocità era più gravosa rispetto a quella della seconda, ed essendo ricorrenti spostamenti del genere nei suoi confronti, Nicolino P. si era rifiutato di eseguire l’ordine. A fronte del rifiuto il capo reparto gli si era rivolto con la frase “Vuoi fare la fine dell’altra volta?”, ripetendola subito dopo. Nicolino P. aveva quindi manifestato il proposito di riferire l’accaduto al “gestore operativo” e di “fare un’autocertificazione” per allontanarsi dal posto di lavoro. A questo punto il capo reparto, facendosi largo fra gli operai presenti, aveva afferrato violentemente Nicolino P. per un braccio strattonandolo e dicendogli: “Vieni con me se ha coraggio” e Nicolino P. aveva reagito esclamando: “Come ti permetti di mettermi le mani addosso! Ti denuncio! Esci fuori se hai coraggio” aggiungendo frasi ingiuriose all’indirizzo del capo reparto, che gli aveva risposto “ce ne vogliono dieci come te”. Nicolino P. era stato quindi colto da malore ed aveva ottenuto il permesso di uscita per indisposizione.
            In conclusione, secondo la Corte di merito, il comportamento di Nicolino P., benché censurabile, aveva trovato la sua genesi in un atteggiamento chiaramente provocatorio del superiore, e non poteva venir qualificato come grave insubordinazione suscettibile di essere sanzionata con il licenziamento. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza impugnata, tra l’altro, per avere disatteso gli “standard valutativi” stabiliti dalla giurisprudenza della Suprema Corte ai fini del giudizio sulla configurabilità di una giusta causa di licenziamento. 
           
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 3994 del 25 febbraio 2005, Pres. Senese, Rel. Curcuruto) ha rigettato il ricorso, dichiarando di non condividere l’indirizzo giurisprudenziale e dottrinale secondo cui le decisioni del giudice di merito, in materia di configurabilità della giusta causa, sarebbero censurabili per violazione di legge nel caso in cui si discostino dai c.d. “principi cornice” o “standard valutativi” desumibili dalla giurisprudenza della Cassazione. L’accertamento della giusta causa – ha affermato la Corte – va ricondotto ad un tipico giudizio di fatto che, nel caso in esame, è stato correttamente motivato. Per quanto concerne in particolare la frasi ingiuriose attribuite al lavoratore – ha osservato la Corte – il giudice del merito ha accertato che esse furono pronunciate quale reazione alla condotta violenta e minacciosa tenuta dal suo superiore ed ha pertanto tenuto conto del principio costantemente affermato dalla giurisprudenza, secondo cui occorre tener conto di ogni aspetto, soggettivo ed oggettivo, del comportamento attribuito al dipendente; la reazione all’altrui atteggiamento aggressivo o minaccioso è idonea a configurare un’attenuante. 
 
 

 
Anche il “single”, che abbia riportato lesioni in un incidente stradale, ha diritto al risarcimento del danno per riduzione della capacità di accudire alle faccende domestiche – Non solo la casalinga – La giurisprudenza della Suprema Corte ha più volte affermato il diritto della casalinga, che abbia riportato lesioni in incidente stradale, al risarcimento del danno per riduzione della capacità lavorativa specifica. La casalinga, pur non percependo reddito monetizzato, svolge purtuttavia un’attività suscettibile di valutazione economica, sicché va legittimamente inquadrato nella categoria del danno patrimoniale (come tale risarcibile autonomamente rispetto al danno biologico) quello subito in conseguenza della riduzione della propria capacità lavorativa. Il fondamento di tale diritto, specie quando la casalinga sia componente di un nucleo familiare legittimo (ma anche quando lo sia in riferimento ad un nucleo di convivenza comunque stabile), è, difatti, pur sempre di natura costituzionale, ma riposa sui principi di cui agli artt. 4 e 37 della Costituzione (che tutelano, rispettivamente, la scelta di qualsiasi forma di lavoro, e di diritti della donna lavoratrice), mentre il fondamento della risarcibilità del danno biologico si fonda sul diverso principio della tutela della salute. 
            Peraltro, la radicale evoluzione dei costumi non consente più di confinare la problematica in questione alla casalinga, essendo ormai ben possibile il sorgere del danno in questione anche con riferimento ad una donna che oltre a lavorare fuori dalle mura domestiche, svolga anche attività di casalinga nonché con riferimento ad un danneggiato di sesso maschile.
            Finora il lavoro domestico è stato considerato prevalentemente con riferimento all’utilità che ne ricavano altri, ed in particolare i familiari del soggetto in questione; e non con riferimento all’utilità che ne ricava direttamente quest’ultimo; ma è evidente che se un soggetto abituato a svolgere detto lavoro solo (ovvero anche) in proprio favore (si pensi ad una figura sempre più comune: il cosiddetto “single”; ed in particolare ad un “single” che pulisce il proprio appartamento, lava e stira la propria biancheria, cucina i suoi pasti ecc. senza ricorrere a “colf”, ristoranti, lavanderie, ovvero a soluzioni più radicali come alberghi o pensioni; ecc.) viene a trovarsi privato in tutto od in parte della propria capacità provvedere a dette sue necessità, insorge un evidente danno emergente (tipicamente patrimoniale) derivante dal fatto che dovrà cominciare a ricorrere (in misura maggiore o minore a seconda dell’invalidità subita) a “colf”, ristoranti, lavanderie ecc.; quindi, dato che oggi una percentuale sempre maggiore di persone (anche se con attività lavorativa retribuita) dedica parte delle proprie energie lavorative a faccende domestiche una sopravvenuta incapacità ad attendere alle medesime comporta di regola un danno patrimoniale sotto il profilo del danno emergente.

            Non può peraltro escludersi che detta incapacità comporti anche un lucro cessante; basta pensare infatti, ad es., che nell’impresa familiare (art. 230 bis c.c.) la prestazione lavorativa può (pacificamente) consistere anche in lavori domestici (purché – secondo una tesi – si riflettano sull’andamento dell’impresa accrescendone la produttività) e che ai sensi del primo comma della norma predetta i diritti (anche di contenuto più tipicamente patrimoniale; e quindi inerente ad introiti che in caso di cessazione danno luogo ad un tipico caso di lucro cessante) del patrimonio all’impresa medesima sono proporzionali alla quantità e qualità del lavoro prestato; e quindi sono suscettibili di diminuzione qualora la capacità di lavoro diminuisca (v. in particolare il primo comma dell’art. 230 bis cit.: “salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistai con essi nonché agli incrementi della azienda, anche in ordine all’avviamento in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato …”).
            Da quanto sopra esposto emerge altresì che l’insorgere di un danno patrimoniale non è in linea generale (salve le eventuali eccezioni) configurabile se il soggetto danneggiato, già prima dell’incidente, non svolgeva lavori domestici (va rilevato che l’espressione “lavori domestici” va intesa in senso ampio e quindi comprensivo anche di quell’attività di “coordinamento, “lato sensu”, della vita familiare” in quanto questi erano integralmente devoluti a colf, o per altre ragioni, mentre è invece eccezionalmente configurabile nell’ipotesi, indubbiamente infrequente, che la persona danneggiata affermi e riesca poi a dimostrare che all’epoca del sinistro era in procinto di mutare le proprie abitudini (per un cambiamento delle proprie condizioni economiche o per altre ragioni) nel senso che stava per iniziare a provvedere personalmente, in tutto od in parte, a lavori prima demandati a colf.
            Emerge inoltre che in linea generale (fatte salve le eccezioni come quella sopra citata di cui all’art. 230 bis cit.) un danno patrimoniale del danneggiato è possibile solo in relazione ai lavori domestici svolti in suo favore; mentre con riferimento ai lavori svolti gratuitamente in favore di altri, gli eventuali soggetti danneggiati possono essere eventualmente solo questi ultimi.
            In conclusione va enunciato il seguente principio di diritto: “in tema di invalidità permanente o temporanea il soggetto che perde in tutto od in parte la propria capacità di svolgere lavori domestici in precedenza effettivamente svolti in proprio favore ha diritto al risarcimento del conseguente danno patrimoniale provato (danno emergente ed, eventualmente, anche lucro cessante)” (Cassazione Sezione Terza Civile n. 4657 del 3 marzo 2005, Pres. Giuliano, Rel. Talevi).

 

Non commette sottrazione di minore il genitore affidatario che si reca all'estero con il minore eludendo il diritto di visita del coniuge - Cassazione penale, Sezione I, Sentenza n. 6014 del 21/03/2005

La Massima:

 

Il trasferimento del minore all'estero, deciso legittimamente dal genitore affidatario, non potrebbe mai qualificarsi illecito ed essere disciplinato alla stregua delle disposizioni previste per il cosiddetto  
legal kidnapping,  dato che la Convenzione ricollega l'illiceita’ del trasferimento o del mancato rientro del minore esclusivamente alla violazione di un diritto di affidamento. Quando e’ il genitore affidatario a sottrarre il minore all'altro genitore, quest'ultimo non puo’ domandare il ritorno immediato del figlio, stante la liceita’ del suo trasferimento in conseguenza di una decisione sulla scelta della residenza che legittimamente spetta al genitore affidatario. Egli puo’ invece sollecitare l'autorita’ centrale, a norma dell'articolo 21 della Convenzione, a compiere tutti « i passi necessari per rimuovere, per quanto possibile, ogni ostacolo all'esercizio del suo diritto » .
Dal complesso di tali indicazioni normative, appare pertanto evidente come per le vicende relative alla sottrazione internazionale di minore siano tracciati percorsi assai differenti in ragione della natura del diritto del genitore che si assume leso; in caso di violazione di un diritto di custodia, attribuito al genitore in via esclusiva o congiunta, obiettivo della Convenzione e’ ripristinare la situazione preesistente alla sottrazione, consentendo al minore di tornare il prima possibile a vivere con il genitore a cui e’ stato illecitamente sottratto. Nel caso invece in cui a essere compromesso, con il trasferimento del minore all'estero, sia il diritto di visita del genitore non affidatario, l'obiettivo della Convenzione — difettando il presupposto dell'illiceita’ del trasferimento a norma dell'articolo 5 — e’ garantire a quest'ultimo, con l'ausilio dell'Autorita’ centrale, l'effettivita’ dell'esercizio del suo diritto o, in alternativa, una ridefinizione dei suoi rapporti con il figlio alla luce del nuovo contesto ambientale in cui il medesimo si e’ trasferito.

 


 

Non commette sottrazione di minore il genitore affidatario che si reca all'estero con il minore, impedendo all'altro il legittimo esercizio del proprio diritto a visitare il figlio. E’ questa la conclusione cui arriva la Corte di cassazione con un'importante sentenza, la n. 6014 della I sezione civile, depositata il 21 marzo. La pronuncia interviene a interpretare le norme della convenzione dell'Aja del 1980 e disciplina un caso sempre piu’ frequente e oggetto di polemiche. Il caso sul quale e’ intervenuta la Suprema corte e’ infatti relativo alla richiesta di un cittadino messicano che chiedeva al procuratore della Repubblica presso il tribunale dei minorenni di Roma di ristabilire il diritto effettivo di visita sancito dall'autorita’ giudiziaria messicana in sede di separazione giudiziale. Il giudice italiano aveva accolto la richiesta dell'uomo osservando che era illegittima la decisione della madre affidataria di stabilirsi con i figli in Italia, visto che non era stata concordata con l'ex marito e non era indotta dal rischio che i minori potessero essere esposti a pericoli particolari derivanti dall'esercizio del diritto di visita.
La Cassazione ha ribaltato questa decisione accogliendo, invece, il ricorso della donna. E per farlo si e’ concentrata sul diverso grado di tutela giuridica che caratterizza il diritto di affidamento e quello di visita. Il primo, sulla base della stessa convenzione internazionale, « comprende i diritti concernenti la cura della persona del minore, e in particolare il diritto di decidere riguardo al suo luogo di residenza » . Il diritto di vista e’, invece, qualificato come « il diritto di condurre il minore in un luogo diverso dalla sua residenza abituale per un periodo limitato di tempo » . La convenzione stabilisce pero’ che l'immediato ritorno del minore puo’ essere previsto solo in caso di violazione del diritto di affidamento. La sentenza sottolinea poi che la stessa intesa dell'Aja mira a rendere effettivo il diritto di visita e impegna gli Stati contraenti in questo senso, ma senza stabilire particolari modalita’ esecutive.
Cosi’, per accertare se il genitore e’ legittimato a chiedere il rientro immediato del figlio occorre verificare se egli e’ titolare dei diritti tenuti presenti dalla stessa convenzione e, in particolare, se e’ genitore affidatario. Infatti, in caso contrario, alla Cassazione sembra chiaro che la misura dell'immediato rientro del minore non possa essere applicata al caso del mancato rispetto del diritto di visita. « Da nessun passo — avverte la Suprema Corte — delle disposizioni relative al ripristino del diritto di visita si fa cenno alla possibilita’ che, per rendere effettiva tale tutela, venga disposto il coattivo rientro in patria del minore affidato all'altro genitore » . Inoltre il diritto, eventualmente previsto dalle norme dello Stato di appartenenza del genitore titolare del diritto di visita, a essere consultato prima di qualsiasi modifica della residenza abituale del minore non equivale a una forma di affidamento congiunto.
La Cassazione pero’ non ignora che interpretando in questo modo le norme pattizie rimane esclusa dalla sfera di applicazione della convenzione una particolare forma di sottrazione internazionale di minori e che il « bene » del minore puo’ essere seriamente leso dal trasferimento in un Paese diverso da quello di sua residenza abituale ad opera del genitore affidatario con la conseguenza dell'interruzione, spesso totale, del rapporto con l'altro genitore e il cambiamento di tutte le consuetudini di vita. Tuttavia, non sembrano superabili ai giudici le ragioni dell'oggettiva sproporzione del rimpatrio immediato rispetto all'interesse da tutelare in caso di violazione del diritto di visita.
Al coniuge titolare del diritto di vista, oltre che attivare le autorita’ del proprio Paese e quelle dello Stato di nuova residenza dei figli, resta aperta la possibilita’ di adire il giudice della separazione e chiedere di rivalutare le condizioni dell'affidamento alla luce del sopravvenuto ( e non concordato) trasferimento della residenza del minore. « La circostanza — osserva la Corte — che il genitore affidatario abbia necessita’ di recarsi all'estero, pur non condizionando di per se’ l'affidamento, comporta indubbiamente una piu’ complessa e delicata indagine circa l'interesse del minore, stante l'inevitabile compressione dei rapporti che il genitore non affidatario dovra’ subire e le difficolta’ che al medesimo deriveranno nell'espletamento del suo diritto dovere di concorrere all'istruzione dei figli » .

 
 

 
Legittimo il riconoscimento "olfattivo" del rapinatore basato sul suo odore - Cassazione Penale, Sezione VI, Sentenza n. 7351 del 28/02/2005

Attribuita piena dignita’ - dalla Cassazione - al riconoscimento di un presunto colpevole effettuato anche con l'ausilio delle narici del testimone-vittima, memore del terribile lezzo emanato dal criminale nel corso della sua azione delittuosa. La sentenza che affronta questo particolare tipo di individuazione antropologica, e’ la 7531/05 della VI sezione penale, depositata il 28 febbraio e qui integralmente leggibile tra gli allegati.
Con questo verdetto la Suprema corte ha confermato - dopo alterni esiti in fase di merito - l'ordinanza cautelare a carico di un indagato per rapina, inchiodato dal ricordo della puzza nauseabonda che emanava e che uno dei testi della rapina, ai danni di un supermercato, aveva riconosciuto olfattivamente. In prima istanza, i giudici ritennero che il cattivo odore piu’ che essere un fattore che rendeva certo il riconoscimento, era, al contrario, un elemento che danneggiava la precisione del ricordo e non confermarono la misura cautelare. Il giudice del rinvio, invece, accolse il reclamo del pubblico ministero - contro la scarcerazione - e annullo’ l'ordinanza "per assoluta irrazionalita’ della motivazione, per avere trasformato un elemento utile alla identificazione dell'indagato (un odore particolarmente nauseabondo) in un argomento a discarico, in base alla congettura, peraltro contrastante con la comune esperienza, che proprio quell'odore avrebbe potuto trarre in inganno la vittima falsificandone la memoria". Invano - innanzi ai magistrati di legittimita’ - l'indagato ha cercato di insistere contro il riconoscimento "nasale". Piazza Cavour gli ha riposto che la valutazione del Tribunale del riesame non risulta "affatto illogica", dal momento che "uno specifico e forte lezzo emanante da una persona puo’ rappresentare, non gia’ un elemento di confusione mnemonica, bensi’ un formidabile fattore di sollecitazione della memoria a fine di riconoscimento".


 
 
Multe: il giudice di pace deve sempre motivare (nel merito) la decisione sul ricorso anche se la parte non si presenta - Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 4639 del 03/05/2005
 
 
Con la sentenza 4639/05 - depoistata il 3 marzo e qui leggibile tra gli allegati - la prima sezione civile della Cassazione ha cassato la decisione con cui il GdP di Catanzaro - stante l'assenza del procuratore del ricorrente alla prima udienza - aveva convalidato l'ordinanza ingiunzione prefettizia, ritenendo che "l'illegittimita’ del provvedimento impugnato, come denunziata dall'opponente non e’ rilevabile e non risulta dalla documentazione dallo stesso allegata".
Il quadro normativo di riferimento
La decisione in esame trova la sua base normativa nell'articolo 23, comma 5 lege 689/81, che disciplina il giudizio di opposizione alle sanzioni amministrative. In particolare, viene in rilievo il profilo della mancata comparizione dell'opponente alla prima udienza, comportamento processuale che, secondo l'originaria formulazione dell'articolo 23, legittimava il pretore - oggi il Gdp - ad emettere ordinanza (ricorribile per cassazione) di "convalida del provvedimento opposto, ponendo a carico dell'opponente anche le spese successive all'opposizione". Tale disposizione imponeva, quindi, di conferire, sempre e comunque, un sigillo di legittimita’ all'ordinanza ingiunzione impugnata, qualora - in assenza di un legittimo impedimento - l'opponente o il suo procuratore non comparivano all'udienza fissata ai sensi dell'articolo 23, comma 2.
All'indomani dell'entrata in vigore della citata disposizione, veniva sollevata - in relazione agli articoli 3 e 24 Costituzione - la questione di legittimita’ costituzionale dell'obbligo di convalidare la sanzione amministrativa anche nell'ipotesi in cui, dai vizi denunciati dall'opponente e dalla documentazione posta a fondamento del ricorso, fosse evidente l'illegittimita’ del provvedimento impugnato. Mutando un suo precedente orientamento (ordinanza 111/89), la Corte dichiarava "l'illegitimita’ costituzionale dell'articolo 23, comma 5, legge 689/81 nella parte in cui prevede che il pretore, in sede di applicazione di sanzioni amministrative, convalidi il provvedimento opposto, in caso di mancata presentazione dell'opponente o del suo procuratore alla prima udienza, senza addurre alcun legittimo impedimento, anche quando l'illegittimita’ del provvedimento risulti dalla documentazione allegata dall'opponente" (Corte costituzionale, 534/90).
A distanza di cinque anni, la Consulta veniva, nuovamente, chiamata a pronunciarsi sulla legittimita’ costituzionale della medesima norma - sempre in relazione agli articoli 3 e 24 Costituzione - nella parte in cui imponeva la convalida del provvedimento impugnato anche quando l'amministrazione opposta non produceva la documentazione idonea a provare la legittimita’ della sanzione. Seguendo le orme tracciate dalla sentenza del 1990 - che aveva fatto cadere la preclusione di analizzare il merito del ricorso qualora l'illegittimita’ della sanzione fosse risultata dalla documentazione prodotta dal ricorrente - stabiliva che "e’ costituzionalmente illegittimo - per contrasto con gli articoli 3 e 24 Costituzione - l'articolo 23 comma 5 legge 689/81, recante modifiche al sistema penale, nella parte in cui, in tema di opposizione ad ordinanza - ingiunzione che irroga sanzioni amministrative prevede che il pretore convalidi il provvedimento opposto in caso di mancata presentazione dell'opponente o del suo procuratore alla prima udienza senza addurre alcun legittimo impedimento, anche quando l'amministrazione irrogante abbia omesso il deposito dei documenti di cui al comma 2 dello stesso articolo 23, atti a comprovare la legittimita’ della pretesa sanzionatoria" (Corte costituzionale, 507/95).
Alla luce delle sentenze additive della Corte costituzionale, la pronuncia dell'ordinanza di convalida di cui all'articolo 23, comma 5, legge 689 e’, dunque, subordinata alla concomitante sussistenza di tre presupposti: 1) l'opponente o il suo difensore non debbono essere comparsi alla prima udienza senza addurre alcun legittimo impedimento, che, peraltro, puo’ essere provato anche dopo l'ordinanza di convalida, essendo "ammissibile l'istanza diretta ad ottenerne la revoca ed e’ pure deducibile come motivo di ricorso per cassazione avverso l'ordinanza stessa - indipendentemente dalla presentazione dell'istanza di revoca - l'esistenza del legittimo impedimento che non sia stato portato a conoscenza del giudice di merito entro l'udienza fissata per la comparizione" (Cassazione civile, Sezione prima, 6083/04); 2) l'autorita’ amministrativa che ha emesso il provvedimento impugnato deve aver depositato in cancelleria la documentazione di cui al comma 2 dell'articolo 23; 3) il giudice deve avere valutato i motivi dell'opposizione ed escluso che essi siano fondati sulla base del carteggio processuale, costituito dal ricorso in opposizione e dai documenti ad esso allegati, nonche’ dalla documentazione depositata dall'amministrazione resistente.
L'assenza di uno solo di questi presupposti rende nulla l'ordinanza di convalida (Cassazione civile, Sezione prima, 16846/04; Cassazione civile, Sezione terza, 4586/99).
La decisione della Suprema Corte
Avendo riguardo al quadro normativo descritto, l'alto consesso ha accolto il primo motivo di ricorso - dichiarando assorbiti gli altri - ritenendo che "in base ai dettami della Corte Costituzionale [...] l'emanazione dell'ordinanza di convalida e’ subordinata alla duplice condizione della mancata comparizione dell'opponente o del suo procuratore e della non fondatezza dell'opposizione, da valutarsi in relazione ai motivi del ricorso dai quali e’ delimitato l'oggetto del giudizio di opposizione". Secondo l'articolo 23, cosi’ come integrato dalla sentenza additiva della Corte costituzionale 534/90, il giudice puo’, infatti, convalidare l'ordinanza ingiunzione prefettizia quando concorrono due indefettibili presupposti: a) la mancata comparizione dell'opponente o del suo procuratore, senza addurre alcun legittimo impedimento; b) la motivata valutazione che la documentazione allegata dall'opponente (e dall'amministrazione opposta, secondo quanto aggiunto dalla sentenza 507/95 Corte costituzionale) non dimostri(no), ictu oculi, la illegittimita’ del provvedimento impugnato o, piu’ in generale, che la fondatezza del ricorso non risulti ex actis (requisito, peraltro, da valutarsi in relazione ai motivi dedotti nel ricorso, che costituiscono la causa petendi dell'opposizione: Cassazione, Su, 3271/90).
Ora, nel caso in esame, il ricorrente sosteneva che la motivazione del provvedimento impugnato contenesse e soddisfacesse l'accertamento in ordine al presupposto sub a), ma non quello relativo alla persuasivita’ - sotto il profilo della completezza valutativa - del presupposto sub b), poiche’ l'espressione - "l'illegittimita’ del provvedimento impugnato, come denunziata dall'opponente non e’ rilevabile e non risulta dalla documentazione dallo stesso allegata" - utilizzata dal GdP per convalidare la sanzione amministrativa contestata, non era altro che una vuota formula che riproduceva, pedissequamente, il dictum della Corte costituzionale, senza esplicazione dei motivi di legittimita’ della sanzione.
Bene, la Suprema Corte ha accolto il rilievo denunciato, argomentando che una siffatta "motivazione deve ritenersi puramente apparente poiche’, quantunque non sia necessario fornire una articolata motivazione del riscontro di legittimita’ del provvedimento, e’ pur tuttavia necessario, sia pure in modo estremamente sintetico, citare gli elementi che inducono a tale valutazione", non essendo sufficiente - per il giudizio di non fondatezza dell'opposizione - il generico richiamo alla non evidente illegittimita’ del provvedimento opposto (Cassazione civile, Sezione prima, 8738/97; conforme Cassazione civile, Sezione terza, 6466/0). In altri termini, il giudice a quo avrebbe dovuto evidenziare l'iter logico-giuridico che conduceva alla legittimita’ del provvedimento sanzionatorio impugnato, motivando, succintamente, in ordine alla tempestivita’ e completezza argomentativa della decisione prefettizia, dovendosi, per contra, ritenere nulla la convalida emessa in assenza di tale motivata verifica (Cassazione civile, Sezione prima, 614/98).
Conclusioni
La decisione in commento si inserisce in quel solco di giurisprudenza secondo cui tutte le fasi del procedimento amministrativo devono essere sorrette da motivazione idonea a giustificare la legittimita’ della sanzione comminata; un dovere di motivazione che, dunque, si estende, via via, dagli agenti accertatori che hanno rilevato l'infrazione al codice della strada (Cassazione civile, Sezione prima, 16073/04), all'autorita’ amministrativa che sia stata chiamata a decidere il ricorso proposto avverso il verbale di accertamento (Cassazione civile, Sezione prima, 519/05), financo al GdP che ritenga di convalidare la sanzione nella particolare ipotesi prevista dall'articolo 23, comma 5, legge 689/81.