Per la pubblica
amministrazione il termine per iniziare il procedimento
disciplinare nei confronti dei dipendenti sottoposti a processo penale decorre
dalla comunicazione della sentenza irrevocabile – E non dalla conclusione del
processo – E’ costituzionalmente illegittimo l’art. 10 comma 3 della
legge 27 marzo 2001 n. 97, (Norme sul rapporto tra procedimento penale e
procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei
dipendenti delle amministrazioni pubbliche), nella parte in cui prevede, per i
fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore di detta legge,
l’instaurazione dei procedimenti disciplinari entro centoventi giorni dalla
conclusione del procedimento penale con sentenza irrevocabile di condanna,
anziché entro il termine di novanta giorni dalla comunicazione della sentenza
all’amministrazione o all’ente competente per il procedimento disciplinare.
In tema di rapporti tra processo penale e procedimento disciplinare,
la citata legge n. 97 del 2001 ha previsto una normativa a regime e una
transitoria. La normativa a regime è sancita dall’art. 5, comma 4, della
suddetta legge, secondo il quale “il procedimento disciplinare deve avere
inizio o, in caso di intervenuta sospensione, proseguire entro il termine di
novanta giorni dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione o
all’ente competente per il procedimento disciplinare”. La disciplina
transitoria è dettata dall’art. 10, comma 3, della citata legge, il quale
prevede che i procedimenti disciplinari per fatti commessi anteriormente alla
data di entrata in vigore della legge stessa “devono essere instaurati entro
centoventi giorni dalla conclusione del procedimento penale con sentenza
irrevocabile”. E’ anche da far presente che, con sentenza n. 394 del 2002, la
Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.
10, comma 1, della legge n. 97 del 2001, per contrasto con gli articoli 3 e 24
della Costituzione, nella parte in cui disponeva l’applicabilità degli
articoli 1 e 2 della legge (concernenti gli effetti della sentenza di
applicazione della pena su richiesta delle parti nel giudizio disciplinare) ai
patteggiamenti perfezionatisi anteriormente all’entrata in vigore della stessa
legge. Ne consegue che rientrano nella disciplina transitoria i procedimenti
disciplinari che hanno ad oggetto fatti commessi prima dell’entrata in vigore
della legge n. 97 del 2001 e che concernono sentenze di applicazione della
pena su richiesta pronunciate dopo l’entrata in vigore della legge medesima.
Con le novità introdotte dalla legge n. 97 del 2001, sia la sentenza
penale irrevocabile di condanna, sia la sentenza di applicazione della pena su
richiesta sono destinate ad esplicare effetti nel giudizio disciplinare. Si
assicura, in questa maniera, non solo una sostanziale coerenza tra sentenza
penale ed esito del procedimento amministrativo, ma soprattutto una linea di
maggiore rigore per garantire il corretto svolgimento dell’azione
amministrativa. Se questa è la finalità della disciplina in esame, la
citata norma transitoria che fa decorrere il termine per l’instaurazione del
procedimento disciplinare dalla conclusione del giudizio penale con sentenza
irrevocabile, anziché dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione,
appare irragionevole e contraria al principio di buon andamento. Essa,
infatti, non prevedendo che l’amministrazione sia posta a conoscenza del
termine iniziale (sentenza penale irrevocabile di condanna) per
l’instaurazione del procedimento disciplinare, ed imponendo altresì lo
svolgimento di un’attività per la conoscenza di questo dato, espone
l’amministrazione stessa al rischio dell’infruttuoso decorso del termine
decadenziale, rendendo così più difficoltosa ed incerta la stessa applicazione
delle sanzioni disciplinari.
In sostanza, nel ponderare l’interesse del dipendente pubblico ad
ottenere una sollecita definizione della propria situazione disciplinare e
l’esigenza dell’amministrazione di instaurare tale procedimento, il
legislatore ha adottato una soluzione sbilanciata a vantaggio del dipendente
pubblico, nel senso che gioca a favore di quest’ultimo lo scorrere del tempo
necessario per venire in possesso di una notizia (sentenza penale di condanna)
che invece dovrebbe essere comunicata ab initio all’amministrazione. Si
realizza così un contrasto con la ratio della norma, che, come si è
visto, è quella di assicurare un maggiore rigore nello svolgimento
dell’attività amministrativa.
Va pertanto
dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge
n. 97 del 2001, nella parte in cui prevede, per i fatti commessi anteriormente
alla data di entrata in vigore di detta legge, l’instaurazione dei
procedimenti disciplinari entro centoventi giorni dalla conclusione del
procedimento penale con sentenza irrevocabile di condanna, anziché entro il
termine di novanta giorni dalla comunicazione della sentenza
all’amministrazione o all’ente competente per il procedimento disciplinare
(Corte Costituzionale n. 186 del 24 giugno 2004, Pres. Onida, Red. Maddalena).
Nella prassi sindacale le “ipotesi di accordo” possono costituire l’espressione di un’effettiva volontà contrattuale – In altri casi esse rappresentano la documentazione dello stato raggiunto dalle trattative – Nella prassi sindacale le cosiddette “ipotesi di accordo” possono avere una portata diversa a seconda dei casi. Talvolta esse rappresentano la mera documentazione dello stato finale raggiunto dalle trattative (ovvero una mera “puntuazione” delle clausole in funzione preparatoria della effettiva sottoscrizione del contratto). In altri casi le “ipotesi di accordo” costituiscono l’espressione di un’effettiva volontà contrattuale restando giustificata in tal caso l’adozione del termine “ipotesi” di accordo dal fatto che viene fatta salva una sorta di fase di ratifica della conclusa stipulazione negoziale, soprattutto nell’interesse della parte che rappresenta i lavoratori. Tale ratifica è destinata in genere ad avere efficacia retroattiva, anche se varia può essere l’effettiva natura giuridica della medesima, e non può escludersi che essa possa svolgere il ruolo di una condizione sospensiva, rappresentata dall'approvazione dell’accordo da parte delle assemblee dei lavoratori; si pensi per esempio alla approvazione di un accordo aziendale da parte di un’assemblea degli iscritti al sindacato. Naturalmente è compito del giudice di merito accertare quale natura possa attribuirsi ad una “ipotesi di accordo” nel caso specifico, sulla base della volontà delle parti, che può essere anche implicita e, in particolare, essere desunta da prassi – aziendali, settoriali, ed eventualmente anche nazionali – sufficientemente concludenti (Cassazione Sezione Lavoro n. 11464 del 19 giugno 2004, Pres. Mattone, Rel. Toffoli).
ANCHE I COMPENSI CORRISPOSTI
PER FESTIVITA’ NON FRUITE IN QUANTO CADENTI DI DOMENICA
DEVONO ESSERE INCLUSI NEL CALCOLO DEL TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO –
Perché non hanno carattere occasionale (Cassazione Sezione Lavoro n. 11448
del 19 giugno 2004, Pres. Mattone, Rel. Cataldi).
Domenico R. dipendente dalla Fiato Auto S.p.A. ha percepito,
durante il rapporto di lavoro, compensi corrisposti a titolo di festività non
fruite in quanto cadenti di domenica; ciò si è verificato solo quando, per
ragioni di calendario, le festività sono per l’appunto cadute di domenica.
Quando il rapporto è cessato, l’azienda non ha incluso nel calcolo del
trattamento di fine rapporto, per il periodo successivo al 31 maggio 1982,
tali compensi, in quanto non aventi carattere continuativo. Il lavoratore si è
rivolto al Tribunale di Torino sostenendo che, trattandosi di compensi non
occasionali, essi andavano inclusi nel t.f.r. in base all’art. 2120 cod. civ.
nel testo modificato dalla legge 29 maggio 1982 n. 297. Questa norma
stabilisce che, salvo diversa previsione dei contratti collettivi, la
retribuzione, ai fini del calcolo della quota annuale di t.f.r., “comprende
tutte le somme, compreso l’equivalente di prestazioni in natura, corrisposte
in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con
esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese”. Sia il
Tribunale, che la Corte di Appello di Torino hanno ritenuto fondata la
domanda, riconoscendo il diritto del lavoratore a percepire le differenze
richieste. La Corte di Appello ha rilevato che il compenso in questione non
aveva natura occasionale in quanto il concetto di occasionalità si riferisce a
quegli emolumenti non direttamente collegabili alla prestazione lavorativa che
trovavano nel rapporto di lavoro solo la loro occasione, e che la scarsa
frequenza dell’erogazione dei compensi non costituiva valido parametro per
escluderne l’incidenza sul t.f.r. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione
censurando la sentenza della Corte di Torino per violazione dell’art. 2120
cod. civ.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 11448 del 19 giugno
2004, Pres. Mattone, Rel. Cataldi) ha rigettato il ricorso, affermando che i
giudici di merito hanno esattamente definito “non occasionali” i compensi
corrisposti a titolo di festività non fruite, in quanto cadenti di domenica.
Riportiamo di seguito, la motivazione della decisione:
“Va anzitutto premesso, riguardo al requisito della “non
occasionalità” di cui all’art. 2120, secondo comma c.c., che è opinione
condivisa in dottrina e giurisprudenza che detto requisito sia più favorevole
al lavoratore perché meno rigoroso di quello della continuità, previsto per la
vecchia indennità di anzianità (cfr. ex plurimis: Cass. 5 giugno 2000 n. 7488;
Cass. 24 febbraio 1993 n. 2254; Cass. 17 novembre 1989 n. 4933). In
dottrina sul significato da attribuire alla espressione “titolo non
occasionale” si sono formati due diversi indirizzi.
“Il primo orientamento, dando alla norma codicistica una
lettura in termini quantitativi, ha sostenuto che debbano considerarsi non
occasionali quegli emolumenti dotati del requisito della “reiterabilità”. Il
secondo orientamento ha, di contro, preferito far leva sulla “qualità”
dell’emolumento corrisposto, ed ha dato così rilevanza al titolo della
erogazione, riscontrando detta connessione ogni volta che una norma (legale o
pattizia) ricolleghi ad un certo evento correlato al rapporto lavorativo
l’emolumento stesso, ed escludendo, invece, dal computo del trattamento di
fine rapporto ogni somma corrisposta al lavoratore per ragioni alle quali il
rapporto di lavoro funga soltanto da mera occasione. L’abbandono da parte del
legislatore del 1982 della nozione di “continuità” ravvisabile nel vecchio
testo dell’art. 2121 c.c. e la sostituzione del sistema di determinazione del
trattamento di fine rapporto non più basato, come in passato, sull’ultima
retribuzione percepita ma sulla sommatoria di quote di retribuzione annua
accantonata, mostrano i limiti del primo, ed in verità, minoritario indirizzo
perché appare privo di logica coerenza assegnare rilievo alla ripetitività e/o
alla frequenza delle erogazioni in un assetto ordinamentale incentrato su di
un segmentazione del rapporto lavorativo e su di una consequenziale
determinazione delle varie componenti del trattamento di fine rapporto, in
relazione al quale risulta di certo più omogeneo e funzionale un metodo di
computo – quale quello patrocinato dal secondo e maggioritario orientamento
dottrinario – che assegni decisivo rilievo alla derivazione eziologia tra
erogazione della prestazione e rapporto lavorativo. Con riferimento a questo
secondo orientamento si è evidenziato che la “non occasionalità” configura una
qualità intrinseca della somma corrisposta dal datore di lavoro, a prescindere
dalla cadenza della corresponsione: viene escluso così dal computo del
trattamento di fine rapporto quanto derivi al lavoratore per ragioni rispetto
alle quali il rapporto di lavoro si presenti come mera occasione.
“La giurisprudenza, aderendo all’opinione da ultimo
esposta, ha statuito che la nozione di retribuzione accolta dal secondo comma
dell’art. 2120 c.c. non richiede, a differenza del vecchio testo della norma
codicistica, la ripetitività, regolare e continua, e la frequenza delle
prestazioni e dei relativi compensi, i quali vanno esclusi dal calcolo del
trattamento di fine rapporto solo in quanto sporadici ed occasionali, per tali
dovendosi intendere solo quelli collegati a ragioni aziendali del tutto
imprevedibili e fortuite e dovendosi, all’opposto, computare ai fini della
determinazione del trattamento di fine rapporto, gli emolumenti riferiti ad
eventi collegati al rapporto lavorativo o connessi all’organizzazione del
lavoro (Cass. 22 agosto 2002 n. 12411; 5 giugno 2000 n. 7488; 12 settembre
1995 n. 9267).
"Consegue
da quanto finora detto che la sentenza impugnata non merita alcuna censura per
essersi adeguata a corretti principi giuridici allorché – premesso che con
l’espressione “a titolo non occasionale” il legislatore ha voluto escludere
soltanto quei compensi non direttamente ricollegabili alla prestazione
lavorativa, ma che trovino nel rapporto di lavoro solo l’occasione per la loro
erogazione e che la scarsa frequenza dell’erogazione non costituisce un valido
parametro per valutarne l’incidenza sul trattamento di fine rapporto – ha
ritenuto, sulla base di tali considerazioni, che non rientrano tra le
prestazioni occasionali i compensi per le festività non fruite in quanto
cadenti di domenica, con la conseguente loro computabilità nel trattamento
finale del rapporto lavorativo.”
Il giudice può stabilire la misura di un compenso aggiuntivo per il quale il contratto collettivo si limiti ad indicare un minimo e un massimo – In base all’art. 2099 cod. civ. - Quando il contratto collettivo stabilisca, per un compenso aggiuntivo connesso alla qualifica, un minimo e un massimo, senza indicare i criteri per la determinazione, in concreto, della misura spettante ai singoli lavoratori, il giudice può stabilire l’entità del compenso dovuto anche in misura superiore a quella attribuita dal datore di lavoro. Si applica in materia l’art. 2099 cod. civ. secondo cui, in mancanza di accordo, la retribuzione è determinata dal giudice. Questa norma trova applicazione non solo in mancanza di contratti collettivi che determinino la retribuzione e i relativi compensi aggiuntivi, ma anche in mancanza di accordo tra le parti sulla interpretazione o sulla attuabilità di una clausola collettiva, per la determinazione o del compenso, quando tale clausola sia caratterizzata da indeterminatezza o genericità (Cassazione Sezione Lavoro n. 11624 del 22 giugno 2004, Pres. Ciciretti, Rel. Capitanio).
LA MANCANZA DEL POSTO IN
ORGANICO NON PRECLUDE IL RICONOSCIMENTO DEL DIRITTO ALLA
PROMOZIONE AUTOMATICA PER SVOLGIMENTO DI MANSIONI SUPERIORI – In
base all’art. 2103 cod. civ. (Cassazione Sezione Lavoro n. 12103 del 1
luglio 2004, Pres. Mattone, Rel. Vigolo).
Gaetano M., dipendente della S.p.A. Poste Italiane, avendo
svolto per oltre tre mesi le mansioni di controllore nell’ufficio postale di
Agrigento ha chiesto al locale Tribunale il riconoscimento del suo diritto
alla qualifica di quadro di II livello prevista per tali mansioni.
L’azienda si è difesa sostenendo che la qualifica non poteva
essere riconosciuta al lavoratore perché l’organico dell’ufficio agrigentino
non prevedeva il posto di controllore, da tempo soppresso. Il Tribunale ha
accolto la domanda, dichiarando il diritto del lavoratore alla qualifica
rivendicata e condannando la società ad applicargli il relativo trattamento
economico. In seguito ad impugnazione proposta dall’azienda, questa decisione
è stata integralmente riformata dalla Corte di Appello di Palermo che, pur
dando atto della avvenuta prestazione, da parte del lavoratore, delle mansioni
superiori, ha escluso il suo diritto alla promozione automatica, in quanto il
relativo posto in organico era stato soppresso, sia pure temporaneamente e in
via sperimentale. Gaetano M. ha proposto ricorso per cassazione, censurando la
sentenza della Corte di Palermo per violazione dell’art. 2103 cod. civ. che
attribuisce al lavoratore il diritto alla qualifica superiore nel caso di
svolgimento delle relative mansioni per oltre tre mesi.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 12103 del 1 luglio 2004,
Pres. Mattone, Rel. Vigolo) ha accolto il ricorso. L’art. 2103 cod. civ. – ha
affermato la Corte – stabilendo che “nel caso di assegnazione a mansioni
superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività
svolta, e l’assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia
avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla
conservazione del posto” non presuppone affatto la previsione del posto
nell’organigramma, ma l’esistenza in concreto di una determinata funzione in
ambito aziendale, assegnata ad un lavoratore.
Nel caso in esame – ha osservato la Cassazione – appare del
tutto insufficiente, sotto il profilo giuridico, l’accertamento (ritenuto,
invece, determinante e assorbente, rispetto ad ogni altra indagine, dal
giudice di appello) che il direttore della Filiale di Agrigento (sia pure in
virtù di una generica direttiva degli organi centrali della società che
avevano semplicemente autorizzato, “in via sperimentale e in attesa della
modifica delle disposizioni vigenti in materia contabile, la soppressione dei
posti di controllore e di aiuto controllore”, con eccezione di determinati
uffici) aveva disposto, oralmente, “fino a nuovo ordine” la soppressione della
figura di controllore presso l’Ufficio promiscuo di Agrigento, quando non è
affermato che le relative funzioni fossero state effettivamente eliminate e ne
fosse stato distolto colui al quale in precedenza erano assegnate.
La Cassazione ha rinviato la causa,
per nuovo esame, alla Corte di Appello di Catania, enunciando il principio di
diritto secondo cui “ai
fini dell’acquisizione, da parte del prestatore di lavoro, del diritto
all’assegnazione definitiva alle mansioni superiori dopo un periodo fissato
dai contratti collettivi in conformità delle disposizioni di legge, ai sensi
degli artt. 2103 cod. civ. e 6 della legge 13 maggio 1985, n. 190, come
sostituito dall’art. 1 della legge 2 aprile 1986, n. 106, è irrilevante la
soppressione formale, nell’organigramma aziendale, della posizione lavorativa
corrispondente a quelle mansioni ove di fatto si sia protratta l’assegnazione
del lavoratore al loro espletamento