“Ti aspetto fuori” è una minaccia che, se rivolta al superiore gerarchico, può giustificare il licenziamento – Per grave insubordinazione – L’espressione “ti aspetto fuori” usata da un lavoratore nel contestare una disposizione del superiore gerarchico costituisce nel linguaggio corrente una vera e propria minaccia e non un semplice invito a vedersi fuori dall’azienda. Tale comportamento può configurare grave insubordinazione tale da giustificare il licenziamento (Cassazione Sezione Lavoro n. 22532 del 1 dicembre 2004, Pres. Sciarelli, Rel. Stile).

 


IL DIRITTO ALLA SALUTE PREVALE SULL’OBBLIGO DI RESTARE A CASA NELLE ORE DELLA “FASCIA DI CONTROLLO” L’allontanamento può essere giustificato da esigenze terapeutiche (Cassazione Sezione Lavoro n. 22065 del 23 novembre 2004, Pres. Senese, Rel. De Matteis).
          Maria Rita C., lavoratrice subordinata, ha subito, alla fine dell’ottobre 1995, un intervento chirurgico di safenectomia. All’inizio del dicembre 1995, mentre era assente per malattia, ella ha chiesto al medico di fiducia che l’aveva operata la prevista visita di controllo. Il medico le ha dato appuntamento a tal fine per il giorno 7 dicembre alle 16. La lavoratrice si è sottoposta alla visita, ma sia perché ha dovuto attendere, sia perché lo studio del medico era distante oltre 30 chilometri, ella è rientrata a casa alle 18, assentandosi pertanto dal domicilio nelle ore delle c.d. “fascia di controllo” (dalle 17 alle 19) riservata agli accertamenti dell’INPS. Poiché il medico incaricato del controllo non l’ha trovata in casa, l’INPS le ha negato l’indennità economica di malattia. Nel giudizio che ne è seguito, il Pretore di Ascoli Piceno ha dato ragione all’INPS, osservando che la lavoratrice, considerata l’ora della visita e la distanza dello studio del suo medico di fiducia, ha in sostanza accettato il rischio di non essere presente presso la propria abitazione al momento delle visite di controllo INPS. Il Pretore ha inoltre rilevato che non risultava che la lavoratrice si fosse adoperata per ricercare altri medici specialisti in grado di visitarla in orario compatibile con la fascia di controllo ovvero che la necessità della visita del  7 dicembre fosse sorta improvvisamente. La Corte di Appello ha confermato questa decisione. Maria Rita C. ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza della Corte di Appello per difetto di motivazione e violazione di legge.
          La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 22065 del 23 novembre 2004, Pres. Senese, Rel. De Matteis) ha accolto il ricorso, richiamando la sua costante giurisprudenza secondo cui “l’assenza alla visita di controllo, per non essere sanzionata dalla perdita del trattamento economico di malattia ai sensi dell’art. 5, comma 14, del D.L. n. 463 del 1983, convertito nella legge n. 638 del 1983, può essere giustificata oltre che dal caso di forza maggiore, da ogni situazione, la quale, ancorché non insuperabile e nemmeno tale da determinare, ove non osservata, la lesione di beni primari, abbia reso indifferibile altrove la presenza personale dell’assicurato, come la concomitanza di visite mediche, prestazioni sanitarie o accertamenti specialistici, purché il lavoratore dimostri l’impossibilità di effettuare tali visite in orario diverso da quello corrispondente alle fasce orarie di reperibilità”.
         
Il bene della salute – ha osservato la Corte – è tutelato dall’art. 32 della Costituzione non solo come interesse della collettività, ma anche e soprattutto come diritto fondamentale dell’individuo, sicché si configura come diritto primario e assoluto; in conformità con il precetto costituzionale l’ordinamento statuale garantisce la libertà di scelta del medico (art. 25, L. 23 dicembre 1978 n. 833, art. 88, D.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124). Risulta gravemente erronea, in quanto costituisce capovolgimento della gerarchia dei valori protetti – ha aggiunto la Cassazione – l’affermazione del primo giudice, la cui motivazione il giudice di appello condivide, secondo cui la lavoratrice avrebbe dovuto farsi seguire non dal medico specialista prescelto, ma da uno qualsiasi prossimo alla propria abitazione, in modo da potere essere reperibile nelle fasce orarie, così attribuendo a tale funzione una posizione prioritaria rispetto alla cura della salute. La sentenza impugnata è afflitta poi da varie contraddizioni ed illogicità: omette di considerare che la visita dal medico di fiducia era stata fissata fuori dalle fasce orarie, addebita illogicamente all’assistita il ritardo dovuto agli impegni del medico; cade poi in contraddizione, quando ripete, con il primo giudice, che la Maria Rita. C., scegliendo un medico lontano 30 Km dalla propria abitazione, aveva assunto il rischio del ritardo o dell’assenza alla visita fiscale, in quanto la stessa sentenza riferisce che la Maria Rita C. si era premurata di far presente ad una precedente visita di controllo (positiva) la sua esigenza di continui controlli presso il proprio medico, ricevendone risposta rassicurante. Non considera poi la sentenza impugnata – ha osservato la Corte – se, date le fasce orarie (10-12 e 17-19), dati i tempi di percorrenza e di attesa nell’ambulatorio privato, dati gli orari consueti dei medici privati e quelli specifici dello specialista prescelto, dati i possibili contrattempi evocati dallo stesso giudice del merito, fosse stato possibile fissare siffatta visita privata in modo da non interferire con le fasce; infine, posto che la visita fiscale può essere effettuata in qualsiasi giorno del periodo di assenza per malattia, se corrisponde a un criterio logico l’affermazione che il lavoratore avrebbe potuto differire la visita del medico di fiducia ad altro giorno dello stesso periodo di malattia. La Cassazione ha rinviato la causa, per nuovo esame alla Corte di Appello di Bologna.

 

_________________________________________________________________________________________________________

 

 

 

 

 

 

 

La determinazione del risarcimento del danno morale in misura di una frazione del danno  biologico può essere ritenuta legittima – Purché il giudice dimostri di aver tenuto conto delle circostanze del caso concretoLa giurisprudenza di merito utilizza in modo prevalente il criterio di determinazione della somma dovuta a titolo di risarcimento del danno morale in una frazione dell’importo riconosciuto per il risarcimento del danno biologico. Ciò non è di per sé illegittimo, se il giudice abbia tenuto conto della peculiarità del caso concreto, effettuando la necessaria “personalizzazione” del criterio adottandolo al caso concreto ed apportando, se del caso, gli eventuali consequenziali correttivi in aumento o in diminuzione.
         Il criterio, infatti, è ispirato alle stesse esigenze che giustificano la liquidazione del danno alla salute in base al sistema cosiddetto del “valore del punto di invalidità” ed è quindi volto proprio ad evitare che la valutazione inevitabilmente equitativa del danno non patrimoniale assuma connotazioni ogni volta diverse, imprevedibili e suscettibili di apparire arbitrarie, anche in ragione dell’insopprimibile difficoltà di offrire appaganti e controllabili ragioni giustificative di una determinazione quantitativa che ha funzione meramente surrogante e compensativa delle sofferenze indotte dal fatto lesivo costituente reato. Il dichiarato ricorso a tale criterio è pertanto legittimo solo ove il giudice abbia mostrato, per quanto con motivazione sintetica, di aver tenuto adeguato conto delle particolarità del caso concreto e di non aver rimesso la liquidazione del danno ad un puro automatismo (Cassazione Sezione Terza Civile n. 20814 del 27 ottobre 2004, Pres. Giuliano, Rel. Segreto).

 

 

 

 


Un contratto collettivo entrato in vigore dopo la cessazione dal servizio di un lavoratore, non può incidere, con effetto retroattivo, sui suoi diritti - Eliminando un emolumento dovutogli in base al precedente contratto - Un contratto collettivo entrato in vigore dopo la cessazione dal servizio di un lavoratore non può incidere, con effetto retroattivo, sui suoi diritti, eliminando un emolumento a lui dovuto in base al precedente contratto. 
          Il fenomeno della successione dei contratti collettivi nel tempo non è assimilabile a quello della successione tra norme giuridiche, per cui il contratto collettivo posteriore non modifica l’assetto precedente, ma sostituisce una nuova regolamentazione a quella divenuta inefficace per scadenza del termine o per volontà degli stessi stipulanti; ne consegue che, per i rapporti di lavoro cessati nel vigore di una determinata fonte collettiva, i diritti attribuiti dal contratto non possono essere influenzati dalla stipulazione dei successivi contratti (il cui oggetto è limitato ai rapporti di lavoro in atto), salvo che i lavoratori cessati dal servizio non abbiano conferito specifico mandato alle organizzazioni sindacali stipulanti, o ratificato, anche mediante comportamenti concludenti, la relativa attività negoziale (Cassazione Sezione Lavoro n. 22005 del 22 novembre 2004, Pres. Ciciretti, Rel. Picone).

 

 

 


Un lavoratore autonomo puo' ottenere il rilascio dell’autorizzazione a svolgere l’attività di vigilanza privata?

Il tema è stato affrontato in una recente sentenza del TAR dell’Emilia Romagna.

 

 

Con una sentenza del luglio scorso, depositata nel mese di novembre, il TAR dell'Emilia Romagna (prima sezione) ha accolto il ricorso presentato da un cittadino contro la decisione del Prefetto di Modena che gli aveva negato l’autorizzazione a svolgere l’attività di guardia giurata quale lavoratore autonomo, ritenendo che tale figura non fosse contemplata dal Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza.

Secondo il Prefetto, "in base al disposto dell’articolo 133 del T.U.L.P.S." l’attività di vigilanza poteva essere svolta unicamente da guardie giurate o direttamente dipendenti da proprietari privati o enti pubblici ovvero indirettamente alle dipendenze di istituti di vigilanza.

Il TAR non ha condiviso tale interpretazione, “non ravvisandosi nel dettato degli articoli 133 e 134 alcuna ragione ostativa al rilascio – a favore del ricorrente - di autorizzazione a svolgere attività di vigilanza come lavoratore autonomo senza vincoli di subordinazione.”

Il TAR ha quindi accolto il ricorso ed ha annullato la decisione del Prefetto.
 


 

IN CASO DI SEPARAZIONE O DIVORZIO L’OBBLIGO DI MANTENERE IL FIGLIO NON CESSA AUTOMATICAMENTE QUANDO EGLI RAGGIUNGE LA MAGGIORE ETA’ Se, senza sua colpa, non ha conseguito l’indipendenza economica (Cassazione Sezione Prima Civile n. 22214 del 24 novembre 2004, Pres. Olla, Rel. Salvato).
            In caso di separazione o di divorzio l’obbligo di mantenimento del figlio non cessa, ipso facto, per il raggiungimento della maggiore età. Quest’ultima è, infatti, una circostanza che, di per sé, non costituisce condizione sufficiente a determinare il venir meno dell’obbligo del genitore di concorrere al mantenimento del figlio che permane anche qualora questi, senza sua colpa, divenuto maggiorenne, sia tuttavia ancora dipendente dai genitori.
            L’obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne, gravante sul genitore (tanto separato quanto divorziato) non convivente sotto forma di obbligo di corresponsione di un assegno ex art. 156 cod. civ., cessa soltanto all’atto del conseguimento, da parte del figlio, di uno status di autosufficienza economica consistente nella percezione di un reddito corrispondente alla professionalità acquisita in relazione alle normali e concrete condizioni di mercato.
           
Affinché possano ritenersi venuti meno i presupposti di tale obbligo, grava sul genitore interessato alla declaratoria della sua cessazione l’onere di provare che il figlio ha raggiunto l’indipendenza economica, ovvero che il mancato svolgimento di un’attività che gli permetta di sostenersi da sé dipenda da un atteggiamento di inerzia, ovvero di rifiuto ingiustificato di provvedere in detto senso. Il relativo accertamento deve essere improntato a criteri di relatività, in quanto va necessariamente ancorato alle aspirazioni, al percorso scolastico, universitario e post-universitario del soggetto ed alla situazione del mercato del lavoro, occorrendo avere specifico riguardo al settore nel quale il soggetto ha indirizzato la propria formazione e la propria specializzazione.
         


 

L’AUTOCERTIFICAZIONE HA VALIDITA’ PROBATORIA SOLO NEI RAPPORTI CON LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Non nelle controversie giudiziarie tra privati (Cassazione Sezione Terza Civile n. 18856 del 20 settembre 2004, Pres. Nicastro, Rel. Malzone).
          L’autocertificazione della qualità di erede ha attitudine certificativa e probatoria solo nei confronti della Pubblica Amministrazione. Essa è priva di efficacia in sede giurisdizionale nelle controversie tra privati. La qualità di erede della persona deceduta può essere peraltro desunta dal certificato pubblico di stato di famiglia.