|
_________________________________________________________________________________________________________
La determinazione del
risarcimento del danno morale in misura di una frazione
del danno biologico può essere ritenuta legittima – Purché il giudice
dimostri di aver tenuto conto delle circostanze del caso concreto –
La giurisprudenza di merito utilizza in modo
prevalente il criterio di determinazione della somma dovuta a titolo di
risarcimento del danno morale in una frazione dell’importo riconosciuto per il
risarcimento del danno biologico. Ciò non è di per sé illegittimo, se il
giudice abbia tenuto conto della peculiarità del caso concreto, effettuando la
necessaria “personalizzazione” del criterio adottandolo al caso concreto ed
apportando, se del caso, gli eventuali consequenziali correttivi in aumento o
in diminuzione.
Il criterio, infatti, è ispirato
alle stesse esigenze che giustificano la liquidazione del danno alla salute in
base al sistema cosiddetto del “valore del punto di invalidità” ed è quindi
volto proprio ad evitare che la valutazione inevitabilmente equitativa del
danno non patrimoniale assuma connotazioni ogni volta diverse, imprevedibili e
suscettibili di apparire arbitrarie, anche in ragione dell’insopprimibile
difficoltà di offrire appaganti e controllabili ragioni giustificative di una
determinazione quantitativa che ha funzione meramente surrogante e
compensativa delle sofferenze indotte dal fatto lesivo costituente reato. Il
dichiarato ricorso a tale criterio è pertanto legittimo solo ove il giudice
abbia mostrato, per quanto con motivazione sintetica, di aver tenuto adeguato
conto delle particolarità del caso concreto e di non aver rimesso la
liquidazione del danno ad un puro automatismo (Cassazione Sezione Terza Civile
n. 20814 del 27 ottobre 2004, Pres. Giuliano, Rel. Segreto).
Un contratto collettivo
entrato in vigore dopo la cessazione dal servizio di un
lavoratore, non può incidere, con effetto retroattivo, sui suoi diritti -
Eliminando un emolumento dovutogli in base al precedente contratto -
Un contratto collettivo entrato in vigore
dopo la cessazione dal servizio di un lavoratore non può incidere, con effetto
retroattivo, sui suoi diritti, eliminando un emolumento a lui dovuto in base
al precedente contratto.
Il fenomeno della successione dei
contratti collettivi nel tempo non è assimilabile a quello della successione
tra norme giuridiche, per cui il contratto collettivo posteriore non modifica
l’assetto precedente, ma sostituisce una nuova regolamentazione a quella
divenuta inefficace per scadenza del termine o per volontà degli stessi
stipulanti; ne consegue che, per i rapporti di lavoro cessati nel vigore di
una determinata fonte collettiva, i diritti attribuiti dal contratto non
possono essere influenzati dalla stipulazione dei successivi contratti (il cui
oggetto è limitato ai rapporti di lavoro in atto), salvo che i lavoratori
cessati dal servizio non abbiano conferito specifico mandato alle
organizzazioni sindacali stipulanti, o ratificato, anche mediante
comportamenti concludenti, la relativa attività negoziale (Cassazione Sezione
Lavoro n. 22005 del 22 novembre 2004, Pres. Ciciretti, Rel. Picone).
Un lavoratore autonomo puo' ottenere il rilascio dell’autorizzazione a svolgere l’attività di vigilanza privata? |
Il tema è stato affrontato in una recente sentenza del
TAR dell’Emilia Romagna.
|
Con una sentenza del luglio
scorso, depositata nel mese di novembre, il TAR dell'Emilia Romagna (prima
sezione) ha accolto il ricorso presentato da un cittadino contro la decisione
del Prefetto di Modena che gli aveva negato l’autorizzazione a svolgere
l’attività di guardia giurata quale lavoratore autonomo, ritenendo che tale
figura non fosse contemplata dal Testo Unico delle Leggi di Pubblica
Sicurezza.
Secondo il Prefetto, "in base al disposto dell’articolo 133 del T.U.L.P.S."
l’attività di vigilanza poteva essere svolta unicamente da guardie giurate o
direttamente dipendenti da proprietari privati o enti pubblici ovvero
indirettamente alle dipendenze di istituti di vigilanza.
Il TAR non ha condiviso tale interpretazione, “non ravvisandosi nel dettato
degli articoli 133 e 134 alcuna ragione ostativa al rilascio – a favore del
ricorrente - di autorizzazione a svolgere attività di vigilanza come
lavoratore autonomo senza vincoli di subordinazione.”
Il TAR ha quindi accolto il ricorso ed ha annullato la decisione del Prefetto.
IN CASO DI SEPARAZIONE O
DIVORZIO L’OBBLIGO DI MANTENERE IL FIGLIO NON CESSA
AUTOMATICAMENTE QUANDO EGLI RAGGIUNGE LA MAGGIORE ETA’ – Se, senza sua colpa, non ha
conseguito l’indipendenza economica (Cassazione Sezione Prima Civile n. 22214
del 24 novembre 2004, Pres. Olla, Rel. Salvato).
In caso di separazione o di divorzio
l’obbligo di mantenimento del figlio non cessa, ipso facto, per
il raggiungimento della maggiore età. Quest’ultima è, infatti, una circostanza
che, di per sé, non costituisce condizione sufficiente a determinare il venir
meno dell’obbligo del genitore di concorrere al mantenimento del figlio che
permane anche qualora questi, senza sua colpa, divenuto maggiorenne, sia
tuttavia ancora dipendente dai genitori.
L’obbligo di mantenimento del figlio
maggiorenne, gravante sul genitore (tanto separato quanto divorziato) non
convivente sotto forma di obbligo di corresponsione di un assegno ex art. 156
cod. civ., cessa soltanto all’atto del conseguimento, da parte del figlio, di
uno status di autosufficienza economica consistente nella percezione di un
reddito corrispondente alla professionalità acquisita in relazione alle
normali e concrete condizioni di mercato.
Affinché possano ritenersi venuti meno i presupposti di tale obbligo, grava
sul genitore interessato alla declaratoria della sua cessazione l’onere di
provare che il figlio ha raggiunto l’indipendenza economica, ovvero che il
mancato svolgimento di un’attività che gli permetta di sostenersi da sé
dipenda da un atteggiamento di inerzia, ovvero di rifiuto ingiustificato di
provvedere in detto senso. Il relativo accertamento deve essere improntato a
criteri di relatività, in quanto va necessariamente ancorato alle aspirazioni,
al percorso scolastico, universitario e post-universitario del soggetto ed
alla situazione del mercato del lavoro, occorrendo avere specifico riguardo al
settore nel quale il soggetto ha indirizzato la propria formazione e la
propria specializzazione.
L’AUTOCERTIFICAZIONE HA
VALIDITA’ PROBATORIA SOLO NEI RAPPORTI CON LA PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE – Non nelle controversie giudiziarie tra privati
(Cassazione Sezione Terza Civile n. 18856 del 20 settembre 2004, Pres.
Nicastro, Rel. Malzone).
L’autocertificazione della
qualità di erede ha attitudine certificativa e probatoria solo nei confronti
della Pubblica Amministrazione. Essa è priva di efficacia in sede
giurisdizionale nelle controversie tra privati. La qualità di erede della
persona deceduta può essere peraltro desunta dal certificato pubblico di stato
di famiglia.