Il pubblico impiegato che svolga mansioni superiori a quelle previste per la sua qualifica ha diritto al corrispondente trattamento economico – Ma non alla promozione automatica – Nell’ambito della c.d. contrattualizzazione o privatizzazione dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, la materia dello svolgimento delle mansioni superiori è stata disciplinata, a seguito della novellazione del d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29 operata dal d.lgs. 31 marzo 1998 n. 80, dall’art. 56 del primo di detti decreti, nel testo di cui all’art. 25 del secondo decreto. Peraltro il sesto comma è stato modificato dall’art. 15 del d.lgs. 29 ottobre 1998 n. 387. Il conseguente tenore dell’art. 56 citato è stato riprodotto dall’art. 52 del d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165 (norme generali dell’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche).
           La normativa in esame ha riconfermato anche nell’ambito nel nuovo regime del lavoro dei pubblici dipendenti il principio secondo cui l’esercizio di fatto di mansioni diverse da quelle della qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini dell’inquadramento del lavoratore. A parte tale recisa esclusione, quanto allo svolgimento dei mansioni proprie di qualifiche superiori, l’art. 56 contiene due diversi ordini di disposizioni. In primo luogo si indicano i casi in cui è legittima la temporanea assegnazione a mansioni superiori, con la precisa specificazione dei relativi presupposti e dei limiti temporali e la previsione del diritto del lavoratore al trattamento previsto per la qualifica superiore, per il periodo di effettiva prestazione. In secondo luogo si prende in considerazione l’ipotesi dell’assegnazione “a mansioni proprie di una qualifica superiore” al di fuori delle condizioni previste dalle precedenti disposizioni, per stabilire da un lato la nullità di detta assegnazione e dall’altro il diritto del lavoratore alla differenza di trattamento economico con la qualifica superiore (comma 5). 
           In quest’ultima disposizione l’espressione “qualifica superiore” ha valore generico e omnicomprensivo, e non può ritenersi equivalente alla dizione “qualifica immediatamente superiore” utilizzata dal secondo comma nel delineare i presupposti dell’assegnazione legittima a mansioni superiori. Una diversa conclusione non è giustificata né dalla lettera della disposizione in esame, né dalla sua ratio, che è quella di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualifica del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all’art. 36 Cost.. Deve anche ricordarsi che il sesto comma del novellato art. 56 prevedeva che “le disposizioni del presente articolo si applicano in sede di attuazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi con la decorrenza da questi stabilita (…). Fino a tale data, in nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza, può comportare il diritto a differenze retributive o ad avanzamenti automatici nell’inquadramento professionale del lavoratore”. Tuttavia il citato art. 15 del d.lgs. n. 387/1998 ha eliminato la parte della disposizione relativa alla (transitoria) esclusione del diritto a differenze retributive per lo svolgimento di mansioni superiori e la Suprema Corte con la recente sentenza 8 gennaio 2004 n. 91 ha precisato che a tale disposizione correttiva deve attribuirsi carattere interpretativo e retroattivo, considerata la sua incidenza su una norma transitoria e la sua ratio di eliminare una ragione di illegittimità costituzionale del precedente tenore della disposizione (Cassazione Sezione Lavoro n. 20692 del 25 ottobre 2004, Pres. Mileo, Rel. Toffoli).

 

 

 


 

 

 

 

LA SOTTOSCRIZIONE, DA PARTE DEL LAVORATORE, DI UN FOGLIO DI PRESENZA CON L’INDICAZIONE DELL’ORARIO DI LAVORO COSTITUISCE CONFESSIONE STRAGIUDIZIALE – Può essere impugnata per errore o violenza (Cassazione Sezione Lavoro n. 15618 dell’11 agosto 2004, Pres. Mercurio, Rel. La Terza).
         Sottoscrivendo i fogli di presenza con l’indicazione dell’orario di lavoro, il dipendente rende una dichiarazione che, se prodotta dall’azienda in una causa di lavoro, ha il valore di una confessione stragiudiziale e forma quindi piena prova contro chi l’ha sottoscritta. Per inficiare il valore probatorio di questa dichiarazione non è sufficiente dimostrare, mediante prova per testi, che l’effettiva durata della prestazione lavorativa è stata superiore a quella risultante dai fogli di presenza. Si applica infatti l’art. 2732 cod. civ. secondo cui la confessione non può essere revocata se non si prova che è stata determinata da errore di fatto o da violenza. Pertanto il lavoratore che voglia contestare le risultanze del foglio di presenza in materia di orario, non dovrà limitarsi a provare per testi, di avere osservato un orario più lungo, ma dovrà anche dimostrare di avere firmato il documento per errore o perché a ciò indotto contro la sua volontà.

  


L’ESISTENZA DEL DANNO DA DEQUALIFICAZIONE PUO’ ESSERE ACCERTATA DAL GIUDICE ANCHE IN VIA PRESUNTIVA In base alla durata ed alle altre circostanze del caso concreto (Cassazione Sezione Lavoro n. 20240 del 13 ottobre 2004, Pres. Mattone,  Rel. Stile).
           Enrico L., dipendente della s.r.l. Oto Melara, dopo avere svolto, con la qualifica di impiegato di settimo livello, le mansioni di preposto all’ufficio export artiglieria navale, è stato collocato in cassa integrazione straordinaria dal marzo all’agosto 1992. Rientrato in servizio egli è stato distaccato all’ufficio militare con mansioni di archivista, per essere poi collocato nuovamente in cigs, nel maggio 1994, sino al termine del rapporto. Egli si è rivolto al Pretore della Spezia denunciando l’illegittimità di entrambi i provvedimenti di collocazione in cigs nonché della sua destinazione, dall’agosto 1992 al maggio 1994, a mansioni di semplice archivista, nettamente inferiori a quelle in precedenza svolte come preposto all’ufficio export artiglieria e pertanto altamente dequalificanti; egli ha pertanto chiesto la condanna dell’azienda a corrispondergli la differenza tra l’importo del trattamento di cigs e la retribuzione dovutagli, nonché a risarcirgli il danno da dequalificazione in misura di duecento milioni di lire. La società si è difesa sostenendo, tra l’altro, che il lavoratore aveva accettato le mansioni di archivista per poter rientrare dalla cigs e che comunque non v’era la prova che la dequalificazione gli avesse prodotto un danno. Sia il Pretore che la Corte di Appello di Genova hanno escluso l’illegittimità dei due provvedimenti di collocamento in cigs, mentre hanno ritenuto che il lavoratore abbia subito una illegittima dequalificazione per effetto dell’assegnazione delle mansioni di archivista. In particolare la Corte di Genova ha escluso che il lavoratore abbia prestato consenso alla dequalificazione ed ha determinato il risarcimento del danno in misura di venti mensilità di retribuzione, pari alla durata del periodo di assegnazione a mansioni inferiori. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza della Corte di Genova, tra l’altro, per aver escluso la necessità della prova della esistenza di un effettivo danno prodotto dalla dequalificazione. 
           La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 20240 del 13 ottobre 2004, Pres. Mattone, Rel. Stile) ha rigettato il ricorso, osservando che la Corte di Genova non si è limitata a ravvisare, nella dequalificazione, un danno in sé da ravvisarsi nel pregiudizio recato alla personalità del lavoratore, ma ha accertato che nel caso in esame la dequalificazione aveva assunto connotati di grave entità e di rilevante permanenza nel tempo, precisando che “l’impossibilità di svolgere il proprio lavoro comporta quantomeno un mancato incremento della professionalità, se non addirittura un decremento, non essendo per un certo periodo esercitate ed utilizzate le acquisite conoscenze teoriche e pratiche”. Con tale motivazione – ha osservato la Cassazione – i giudici di secondo grado hanno applicato i principi stabiliti dal consolidato orientamento giurisprudenziale (espresso da varie decisioni tra cui Cass. 2 novembre 2001 n. 13580) secondo cui, in caso di accertato demansionamento del lavoratore in violazione dell’art. 2103 cod. civ., il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del relativo danno, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico-giuridico attenente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla durata della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto. La Cassazione ha anche ritenuto che la Corte di Genova abbia correttamente motivato la determinazione dell’importo del risarcimento.
           La sentenza impugnata – ha osservato la Suprema Corte – giustifica la sua determinazione non solo evidenziando la rilevante durata del periodo di demansionamento – venti mesi – ma rimarcandone la specifica incidenza in relazione alla materia di armamenti “in cui è necessario un costante aggiornamento ed una attuale e specifica conoscenza del mercato”; ed ha, in questo contesto, reputato equo stabilire il risarcimento in misura pari all’intera retribuzione corrispondente al 7° livello, “così valutando il danno nella misura che le parti sociali hanno attribuito alla qualifica del lavoratore, poiché la sua professionalità è stata portata a zero ed è quindi stata interamente persa”.

 


 


L’indennità dovuta al lavoratore per mancata fruizione dei riposi settimanali è soggetta alla ritenuta Irpef – Poiché ha natura retributiva e quindi reddituale – Le somme erogate dal datore di lavoro al dipendente a titolo di indennità per la mancata fruizione di riposi settimanali devono essere assoggettate a ritenuta per Irpef come l’indennità per ferie non godute. Si tratta infatti di somme che hanno natura retributiva e quindi reddituale, in quanto erogate in dipendenza del rapporto di lavoro, rapportate ad una certa quantità di prestazioni svolte, anche se in violazione di un diritto indisponibile e quindi rientranti a pieno titolo nella previsione degli articoli 46 e 48 del D.P.R. n. 917 del 1986 (e già degli articoli 46 e 48 del D.P.R. n. 597 del 1973) (Cassazione Sezione Tributaria n. 20384 del 18 ottobre 2004, Pres. Riggio,  Rel. Ebner).

  


 

 

NELLE CAUSE DI LAVORO LA SOSTITUZIONE DEL GIUDICE NON COMPORTA LA NECESSITA’ DI RINNOVARE L’ISTRUTTORIA – Non si applica il modello del processo penale (Corte Costituzionale n. 317 del 28 ottobre 2004, Pres. Onida, Red. Amirante).
           In una causa di lavoro davanti al Tribunale di Milano, il Giudice, dopo avere completato l’istruttoria con l’assunzione delle prove testimoniali e fissato l’udienza per la decisione, è passato ad altro ufficio ed è stato sostituito da un altro magistrato. Il nuovo Giudice ha ritenuto di non poter emettere la sentenza e ha sollevato la questione della legittimità costituzionale degli articoli 420, 161 secondo comma e 429 primo comma del codice di procedura civile nella parte in cui, nell’ipotesi di mutamento della persona fisica del giudice rispetto a quello originariamente designato, non prevedono, rispettivamente, la rinnovazione dell’assunzione delle prove, l’emissione della sentenza da parte dello stesso giudice che ha provveduto all’istruzione e la sanzione della nullità per la sentenza pronunciata da un Giudice diverso da quest’ultimo. La questione è stata sottoposta alla Corte Costituzionale con riferimento agli articoli 3 (principio di eguaglianza) 24 (diritto di difesa) e 111 (giusto processo) della Costituzione. Il Tribunale ha tra l’altro rilevato che nel processo penale nel quale, come nelle cause di lavoro, si applica il principio dell’oralità, il mutamento della persona fisica del giudice comporta la necessità di rinnovare l’istruttoria dibattimentale.
          
La Corte Costituzionale, con ordinanza n. 317 del 28 ottobre 2004 (Pres. Onida, Red. Amirante) ha dichiarato la questione manifestamente infondata. Gli impugnati artt. 420 e 429, primo comma, del codice di procedura civile – ha affermato la Corte – disciplinano la fase decisoria del processo del lavoro in coerenza con i principi ispiratori di tale rito, senza che la garanzia di cui all’art. 24 della Costituzione risulti compromessa dalla decisione della controversia non da parte del giudice che l'ha istruita ma da quello dinanzi a cui si è svolta la discussione della causa, il quale ha conoscenza degli atti già acquisiti al processo e conserva, comunque, in ordine alle prove, i poteri istruttori previsti dall’art. 421 dello stesso codice; tale possibilità appaga le esigenze di concentrazione ed immediatezza, laddove il principio di oralità è comunque rispettato dalla necessaria identità tra chi assiste alla discussione e chi decide. I modelli del processo civile e di quello penale – ha osservato la Corte – per la loro intrinseca diversità, non consentono alcuna comparazione né le soluzioni per garantire un giusto processo devono seguire linee direttive necessariamente identiche per i due tipi di processo.


 

IL LAVORATORE CHE SI ASTIENE DALLA PRESTAZIONE LAVORATIVA PER REAZIONE AD UNA DEQUALIFICAZIONE HA DIRITTO ALLA RETRIBUZIONE E AL RISARCIMENTO DEL DANNO – Se si è comportato secondo buona fede (Tribunale Civile di Palermo, Sezione Lavoro, sentenza  del 13 ottobre 2004, Giudice dott. Martino).
            Il giornalista Enzo B., dipendente dalla S.p.A. Giornale di Sicilia Editoriale Poligrafica con qualifica di capo servizio, dopo essere stato preposto, per cinque anni, alla redazione di Messina, provvedendo alla realizzazione di sei pagine quotidiane di informazione locale e coordinando il lavoro di tre redattori e circa 50 collaboratori e svolgendo  anche attività di articolista, è stato trasferito a Palermo, nella redazione centrale, dove è stato destinato alla preparazione delle pagine della c.d. “cronaca in classe” ove venivano pubblicati temi di studenti su argomenti di attualità. Dopo avere promosso, inutilmente, un procedimento di urgenza davanti al Pretore di Palermo, egli ha comunicato all’azienda che, in considerazione della portata dequalificante delle mansioni assegnategli presso la redazione centrale, egli si sarebbe astenuto dal lavoro, pur dichiarandosi pronto a svolgere mansioni di capo servizio e articolista equivalenti a quelle prestate in Messina. Poiché l’editore non ha modificato le mansioni assegnategli, il giornalista si è astenuto dal presentarsi in redazione.
            L’azienda ha reagito sospendendo, con effetto dal marzo 1999, il pagamento della retribuzione. Il giornalista ha promosso, davanti al Tribunale di Palermo, un giudizio ordinario diretto ad ottenere, tra l’altro, la condanna dell’azienda ad adibirlo alle mansioni di capo servizio e articolista, nonché a pagargli, anche a titolo di risarcimento del danno, la retribuzione non corrisposta con effetto dal 1 marzo 1999 e a risarcirgli anche il danno da dequalificazione. L’azienda si è difesa sostenendo che le mansioni di addetto alle pagine della “cronaca in classe” erano adeguate alla qualifica ed alla esperienza professionale del ricorrente e che il giornalista, non avendo svolto attività lavorativa, non aveva diritto a percepire la retribuzione. Dopo avere espletato l’istruttoria con l’escussione di alcuni testi, il giudice dott. Dante Martino ha pronunciato, il 19 maggio 2004, il seguente dispositivo: “In parziale accoglimento del ricorso, condanna la società convenuta ad adibire il ricorrente a mansioni di capo servizio o equivalenti alla suddetta qualifica. Condanna, altresì, la società a corrispondere allo stesso, a titolo di risarcimento del danno, una somma pari al 50% della retribuzione globale di fatto maturata dal 1.3.1996 al 1.3.1999, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalla maturazione di ogni rata di credito al pagamento. Condanna, infine, la convenuta a corrispondere, sempre a titolo di risarcimento del danno, una somma pari al 150% della retribuzione globale di fatto, maturata dal 1.3.1999 fino alla data della presente decisione, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalla maturazione di ogni rata di credito al pagamento”.
            Nella motivazione della sentenza, depositata il 13 ottobre 2004, il Giudice ha rilevato tra l’altro che la complessa e meticolosa attività di coordinamento espletata dal ricorrente a Messina non era per nulla avvicinabile all’attività, svolta a Palermo, di collaborazione e correzione degli elaborati predisposti dagli alunni delle scuole locali; queste ultime mansioni – ha osservato il giudice – devono ritenersi dequalificanti anche perché non comportano lo svolgimento dell’attività di articolista in precedenza prestate da Enzo B. In ordine al risarcimento del danno il Giudice ha motivato la sua decisione come segue: “La condanna alla reintegrazione nelle mansioni precedenti, peraltro, non esclude, anche alla luce della giurisprudenza di legittimità sopra richiamata il diritto del lavoratore al risarcimento dei danni patiti a causa del demansionamento. Al riguardo, pur non volendo approfondire la complessa problematica teorica relativa alla tipologia dei danni derivanti dalla dequalificazione, è, a parere di questo decidente, possibile distinguere una duplice tipologia di danni. Da un lato è evidenziabile un danno di natura patrimoniale, consistente nella lesione della sfera professionale del lavoratore, ovvero nel depauperamento del bagaglio di acquisizioni teoriche e capacità pratiche acquisite dallo stesso nel corso del tempo ed aventi un valore economico nel mercato del lavoro. Dall’altro, v’è invece, quella più vasta (ed indefinita) categoria di danni, incidente sulla sfera personale del lavoratore, comprendente tutti quei beni quali la dignità, libertà, personalità, salute del lavoratore, riconducibili ai diritti fondamentali del cittadino-lavoratore riconosciuti dalla carta costituzionale e non aventi, in senso proprio, un “valore economico”.
            “Tale duplice tipologia di lesioni è riconosciuta dalla recente giurisprudenza di legittimità secondo la quale: “Il demansionamento professionale di un lavoratore dà luogo ad una pluralità di pregiudizi solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del lavoratore; esso, infatti, non solo viola lo specifico divieto di cui all’art. 2103 cod. civ., ma costituisce lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, con la conseguenza che al pregiudizio correlato a tale lesione – che incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato – va riconosciuta una indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa, pure nell’ipotesi in cui sia mancata la dimostrazione di un effettivo pregiudizio patrimoniale” (Cfr. Cassazione civile, sez.  lav. 6 novembre 2000, n. 14443).
            A fronte di un'unica condotta illecita, quindi, sorgono due tipologie di danno, suscettibili entrambe di risarcimento per equivalente. In ordine alla prova dei suddetti danni può essere  condiviso quel consistente filone giurisprudenziale (cfr. tra le altre Cass. sez. lav. sent. n. 15868 del 12/11/2002 e Cass. sez. lav. sent. n. 7967 del 1/6/2002) secondo cui: “Dalla illegittima attribuzione ad un lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle assegnategli al momento dell’assunzione può derivare non solo la violazione dell’art. 2103 cod. civ., ma anche la violazione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, da cui deriva il diritto dell’interessato al risarcimento del danno patrimoniale conseguente al pregiudizio risentito nella vita professionale e di relazione, e la cui quantificazione può avvenire in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 cod. civ. anche in mancanza di uno specifico elemento di prova da parte del danneggiato, in quanto la liquidazione può essere operata in base all’apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi alla natura, all’entità e alla durata del demansionamento, nonché alle altre circostanze del caso concreto” (così da ultimo Cass. sez. lav. sent. n. 12553 del 27/08/2003). Nel caso di specie, la durata (oltre due anni) del demansionamento patito, la peculiarità delle mansioni giornalistiche, caratterizzate, come già evidenziato, da una costante esigenza di esercizio ed affinamento, l’età lavorativamente avanzata del ricorrente, portano a ritenere, seppure presuntivamente, provata l’esistenza di entrambi i profili di danno, patrimoniale e personale, sopra evidenziati. Il mancato espletamento delle mansioni di capo servizio e di articolista determina, infatti, sia una riduzione della notorietà del giornalista sia, per i motivi già evidenziati, un depauperamento delle sue capacità tecnico espressive, sì da incidere sul valore “di mercato” della sua professionalità”.
            Allo stesso modo, l’adibizione a mansioni inadeguate al ruolo posseduto intacca quel complesso di diritti della persona strumentali alla esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, riconosciuti dalla Carta Costituzionale (artt. 2 e 41) e ritenuti meritevoli di tutela dall’ordinamento.In ordine alla quantificazione concreta del risarcimento è opportuno ricordare come in assenza di parametri normativi, di origine legale o contrattuale, la prevalente giurisprudenza di merito abbia condivisibilmente posto a criterio base per la quantificazione del risarcimento l’intera retribuzione percepita dal lavoratore (Tribunale Roma 19.10.1993, Pretura Milano 7.6.1993, Pretura Milano 8.4.1992) o una parte di essa (Pretura Milano 28.10.1994, Pretura Milano 18.7.1995, Pretura Napoli 10.10.1992).
            Orbene, a parere di questo decidente, appare conforme ad equità, in considerazione della parziale (e non totale) riduzione delle mansioni assegnate al ricorrente, equiparare la somma dovuta a titolo di risarcimento alla metà della retribuzione globale di fatto percepita dal ricorrente per il periodo dal 1.3.1996 (data in cui è stato assegnato alla redazione di “cronaca in classe”) al 1.3.1999 (data in cui è cessata l’erogazione della retribuzione). La società va, quindi, condannata a corrispondere in favore del ricorrente, a titolo di risarcimento del danno per il demansionamento subito, una somma pari al 50% della retribuzione globale di fatto corrisposta allo stesso dal 1.3.1996 al 1.3.1999, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali.
            Per quanto riguarda il periodo successivo al 19.2.1999, data in cui il lavoratore ha comunicato alla società la propria volontà di volersi astenere “con effetto immediato dalla prestazione lavorativa da Voi richiestami,” considerandosi però “a Vostra disposizione per svolgere le mansioni di capo servizio della cronaca di Messina o altre equivalenti, può essere riconosciuto il diritto dello stesso alla corresponsione di una somma pari al 150% della retribuzione di cui il 50% quale risarcimento del persistente danno da dequalificazione.
            Al riguardo, va riportato il recente orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui: “L’illegittimo comportamento del datore di lavoro consistente nell’assegnazione del dipendente a mansioni inferiori a quelle corrispondenti alla sua qualifica può giustificare il rifiuto della prestazione lavorativa, in forza dell’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 cod. civ., purché la reazione risulti proporzionata e conforme a buona fede”. (cfr. Cassazione civile, sez. lav., 26 giugno 1999 n. 6663).
            Appare, dunque, legittima, in forza del generale strumento di autotutela disciplinato dall’art. 1460 cod. civ., la condotta del lavoratore, parte del contratto di lavoro a prestazioni corrispettive, che opponga all’inadempimento datoriale, consistente nell’illecito esercizio del c.d. “ius variandi”, il rifiuto della propria prestazione, sempre che tale rifiuto appaia proporzionato e conforme a buona fede. A quest’ultimo riguardo la Suprema Corte ha chiarito che il rifiuto “può considerarsi in buona fede solo se si traduca in un comportamento che, oltre a non contrastare con i principi generali della correttezza e della lealtà, risulti oggettivamente ragionevole e logico, nel senso di trovare concreta giustificazione nel raffronto tra prestazioni ineseguite e prestazioni rifiutate” (cfr. Cassazione civile, sez. lav., 2 novembre 1995 n. 12121).
            Nel caso di specie, il rifiuto del B., dopo ben tre anni dalla data di assegnazione alle dequalificanti mansioni sopra descritte e dopo l’infruttuoso ricorso alla tutela giurisdizionale in via d’urgenza, appare, specie di fronte alla persistente volontà datoriale (manifestata anche nel corso del procedimento cautelare) di non modificare la suddetta assegnazione, pienamente conforme a correttezza e buona fede. La società va, quindi, condannata a corrispondere in favore del ricorrente, anche a titolo di risarcimento del danno, una somma pari al 150% della retribuzione globale di fatto, maturata a partire dal 1.3.1999, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalla maturazione di ogni rata di credito al pagamento”.

            
 


 

Cassazione: dai da bere ad un ubriaco? Il bar può essere chiuso

Dai da bere ad un ubriaco? Il giudice puo' imporre la chiusura temporanea del bar anche se a somministrare la bevanda alcolica non e' il titolare ma un aiutante barista. La linea dura arriva dalla Corte di Cassazione che ha reso definitiva ''la sospensione dell'esercizio'' di un bar di Piacenza ''per 15 giorni'', confermando l'ammenda di 517 euro nei confronti di Antonella L., 'rea' di aver somministrato ad una persona in evidente stato di ebbrezza una bevanda alcolica. Per la Suprema Corte per determinare la chiusura temporanea di un bar ''non e' necessario che il colpevole sia anche l'esercente del pubblico esercizio'', basta che chi e' di servizio al bancone faccia finta di non accorgersi della ''ubriachezza'' del cliente. Condannata dal giudice di pace di Piacenza nel settembre del 2003 Antonella L. si e' rivolta alla Cassazione lamentando l'''erronea applicazione dell'art. 691 Cp, in quanto il fatto non rientrava nellanorma contestata, la quale prevede l'ubriachezza e non l'ebbrezza prevista dal Codice della strada come fatto punibile. La difesa dell'imputata ha protestato inoltre contro la sanzione della chiusura del bar sostenendo di non essere la titolare dell'esercizio pubblico, ma soltanto l'amica della titolare sostituita temporaneamente. La quinta sezione penale non ha condiviso questi ragionamenti e ha respinto il ricorso di Antonella. Scrive il relatore Giuseppe Pica che ''la manifesta ubriachezza puo' essere accertata senza dover far ricorso ad accertamenti tecnici, essendo sufficiente, a tal fine, la sua immediata o diretta rilevabilità con riguardo al sintomatico comportamento tenuto dal soggetto''.