Il pubblico impiegato che svolga mansioni
superiori a quelle previste per la sua qualifica ha diritto al corrispondente
trattamento economico – Ma non alla promozione automatica –
Nell’ambito della c.d. contrattualizzazione o privatizzazione dei rapporti di
lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, la materia dello
svolgimento delle mansioni superiori è stata disciplinata, a seguito della
novellazione del d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29 operata dal d.lgs. 31 marzo 1998
n. 80, dall’art. 56 del primo di detti decreti, nel testo di cui all’art. 25
del secondo decreto. Peraltro il sesto comma è stato modificato dall’art. 15
del d.lgs. 29 ottobre 1998 n. 387. Il conseguente tenore dell’art. 56 citato è
stato riprodotto dall’art. 52 del d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165 (norme generali
dell’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche).
La normativa in esame ha riconfermato anche nell’ambito nel nuovo
regime del lavoro dei pubblici dipendenti il principio secondo cui l’esercizio
di fatto di mansioni diverse da quelle della qualifica di appartenenza non ha
effetto ai fini dell’inquadramento del lavoratore. A parte tale recisa
esclusione, quanto allo svolgimento dei mansioni proprie di qualifiche
superiori, l’art. 56 contiene due diversi ordini di disposizioni. In primo
luogo si indicano i casi in cui è legittima la temporanea assegnazione a
mansioni superiori, con la precisa specificazione dei relativi presupposti e
dei limiti temporali e la previsione del diritto del lavoratore al trattamento
previsto per la qualifica superiore, per il periodo di effettiva prestazione.
In secondo luogo si prende in considerazione l’ipotesi dell’assegnazione “a
mansioni proprie di una qualifica superiore” al di fuori delle condizioni
previste dalle precedenti disposizioni, per stabilire da un lato la nullità di
detta assegnazione e dall’altro il diritto del lavoratore alla differenza di
trattamento economico con la qualifica superiore (comma 5).
In quest’ultima disposizione l’espressione “qualifica superiore” ha
valore generico e omnicomprensivo, e non può ritenersi equivalente alla
dizione “qualifica immediatamente superiore” utilizzata dal secondo comma nel
delineare i presupposti dell’assegnazione legittima a mansioni superiori. Una
diversa conclusione non è giustificata né dalla lettera della disposizione in
esame, né dalla sua ratio, che è quella di assicurare comunque al
lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualifica del lavoro prestato,
in ossequio al principio di cui all’art. 36 Cost.. Deve anche ricordarsi che
il sesto comma del novellato art. 56 prevedeva che “le disposizioni del
presente articolo si applicano in sede di attuazione della nuova disciplina
degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi con la
decorrenza da questi stabilita (…). Fino a tale data, in nessun caso lo
svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza, può
comportare il diritto a differenze retributive o ad avanzamenti automatici
nell’inquadramento professionale del lavoratore”. Tuttavia il citato art. 15
del d.lgs. n. 387/1998 ha eliminato la parte della disposizione relativa alla
(transitoria) esclusione del diritto a differenze retributive per lo
svolgimento di mansioni superiori e la Suprema Corte con la recente sentenza 8
gennaio 2004 n. 91 ha precisato che a tale disposizione correttiva deve
attribuirsi carattere interpretativo e retroattivo, considerata la sua
incidenza su una norma transitoria e la sua ratio di eliminare una
ragione di illegittimità costituzionale del precedente tenore della
disposizione (Cassazione Sezione Lavoro n. 20692 del 25 ottobre 2004, Pres.
Mileo, Rel. Toffoli).
LA SOTTOSCRIZIONE, DA PARTE DEL LAVORATORE, DI UN
FOGLIO DI PRESENZA CON L’INDICAZIONE DELL’ORARIO DI LAVORO COSTITUISCE
CONFESSIONE STRAGIUDIZIALE – Può essere impugnata per errore o
violenza (Cassazione Sezione Lavoro n. 15618 dell’11 agosto 2004, Pres.
Mercurio, Rel. La Terza).
Sottoscrivendo i fogli di
presenza con l’indicazione dell’orario di lavoro, il dipendente rende una
dichiarazione che, se prodotta dall’azienda in una causa di lavoro, ha il
valore di una confessione stragiudiziale e forma quindi piena prova contro chi
l’ha sottoscritta. Per inficiare il valore probatorio di questa dichiarazione
non è sufficiente dimostrare, mediante prova per testi, che l’effettiva durata
della prestazione lavorativa è stata superiore a quella risultante dai fogli
di presenza. Si applica infatti l’art. 2732 cod. civ. secondo cui la
confessione non può essere revocata se non si prova che è stata determinata da
errore di fatto o da violenza. Pertanto il lavoratore che voglia contestare le
risultanze del foglio di presenza in materia di orario, non dovrà limitarsi a
provare per testi, di avere osservato un orario più lungo, ma dovrà anche
dimostrare di avere firmato il documento per errore o perché a ciò indotto
contro la sua volontà.
L’ESISTENZA DEL DANNO DA DEQUALIFICAZIONE PUO’
ESSERE ACCERTATA DAL GIUDICE ANCHE IN VIA PRESUNTIVA –
In base alla durata ed alle altre
circostanze del caso concreto (Cassazione Sezione Lavoro n. 20240 del 13
ottobre 2004, Pres. Mattone, Rel. Stile).
Enrico L., dipendente della
s.r.l. Oto Melara, dopo avere svolto, con la qualifica di impiegato di settimo
livello, le mansioni di preposto all’ufficio export artiglieria navale, è
stato collocato in cassa integrazione straordinaria dal marzo all’agosto 1992.
Rientrato in servizio egli è stato distaccato all’ufficio militare con
mansioni di archivista, per essere poi collocato nuovamente in cigs, nel
maggio 1994, sino al termine del rapporto. Egli si è rivolto al Pretore della
Spezia denunciando l’illegittimità di entrambi i provvedimenti di collocazione
in cigs nonché della sua destinazione, dall’agosto 1992 al maggio 1994, a
mansioni di semplice archivista, nettamente inferiori a quelle in precedenza
svolte come preposto all’ufficio export artiglieria e pertanto altamente
dequalificanti; egli ha pertanto chiesto la condanna dell’azienda a
corrispondergli la differenza tra l’importo del trattamento di cigs e la
retribuzione dovutagli, nonché a risarcirgli il danno da dequalificazione in
misura di duecento milioni di lire. La società si è difesa sostenendo, tra
l’altro, che il lavoratore aveva accettato le mansioni di archivista per poter
rientrare dalla cigs e che comunque non v’era la prova che la dequalificazione
gli avesse prodotto un danno. Sia il Pretore che la Corte di Appello di Genova
hanno escluso l’illegittimità dei due provvedimenti di collocamento in cigs,
mentre hanno ritenuto che il lavoratore abbia subito una illegittima
dequalificazione per effetto dell’assegnazione delle mansioni di archivista.
In particolare la Corte di Genova ha escluso che il lavoratore abbia prestato
consenso alla dequalificazione ed ha determinato il risarcimento del danno in
misura di venti mensilità di retribuzione, pari alla durata del periodo di
assegnazione a mansioni inferiori. L’azienda ha proposto ricorso per
cassazione censurando la sentenza della Corte di Genova, tra l’altro, per aver
escluso la necessità della prova della esistenza di un effettivo danno
prodotto dalla dequalificazione.
La Suprema Corte (Sezione
Lavoro n. 20240 del 13 ottobre 2004, Pres. Mattone, Rel. Stile) ha rigettato
il ricorso, osservando che la Corte di Genova non si è limitata a ravvisare,
nella dequalificazione, un danno in sé da ravvisarsi nel pregiudizio recato
alla personalità del lavoratore, ma ha accertato che nel caso in esame la
dequalificazione aveva assunto connotati di grave entità e di rilevante
permanenza nel tempo, precisando che “l’impossibilità di svolgere il proprio
lavoro comporta quantomeno un mancato incremento della professionalità, se non
addirittura un decremento, non essendo per un certo periodo esercitate ed
utilizzate le acquisite conoscenze teoriche e pratiche”. Con tale motivazione
– ha osservato la Cassazione – i giudici di secondo grado hanno applicato i
principi stabiliti dal consolidato orientamento giurisprudenziale (espresso da
varie decisioni tra cui Cass. 2 novembre 2001 n. 13580) secondo cui, in caso
di accertato demansionamento del lavoratore in violazione dell’art. 2103 cod.
civ., il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in
cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del relativo
danno, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo
logico-giuridico attenente alla formazione della prova, anche presuntiva, in
base agli elementi di fatto relativi alla durata della dequalificazione e alle
altre circostanze del caso concreto. La Cassazione ha anche ritenuto che la
Corte di Genova abbia correttamente motivato la determinazione dell’importo
del risarcimento.
La sentenza impugnata – ha
osservato la Suprema Corte – giustifica la sua determinazione non solo
evidenziando la rilevante durata del periodo di demansionamento – venti mesi –
ma rimarcandone la specifica incidenza in relazione alla materia di armamenti
“in cui è necessario un costante aggiornamento ed una attuale e specifica
conoscenza del mercato”; ed ha, in questo contesto, reputato equo stabilire il
risarcimento in misura pari all’intera retribuzione corrispondente al 7°
livello, “così valutando il danno nella misura che le parti sociali hanno
attribuito alla qualifica del lavoratore, poiché la sua professionalità è
stata portata a zero ed è quindi stata interamente persa”.
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NELLE CAUSE DI LAVORO
LA SOSTITUZIONE DEL GIUDICE NON COMPORTA LA NECESSITA’ DI
RINNOVARE L’ISTRUTTORIA – Non si applica il modello del processo
penale (Corte Costituzionale n. 317 del 28 ottobre 2004, Pres. Onida, Red.
Amirante).
In una causa di lavoro davanti al Tribunale di Milano, il Giudice,
dopo avere completato l’istruttoria con l’assunzione delle prove testimoniali
e fissato l’udienza per la decisione, è passato ad altro ufficio ed è stato
sostituito da un altro magistrato. Il nuovo Giudice ha ritenuto di non poter
emettere la sentenza e ha sollevato la questione della legittimità
costituzionale degli articoli 420, 161 secondo comma e 429 primo comma del
codice di procedura civile nella parte in cui, nell’ipotesi di mutamento della
persona fisica del giudice rispetto a quello originariamente designato, non
prevedono, rispettivamente, la rinnovazione dell’assunzione delle prove,
l’emissione della sentenza da parte dello stesso giudice che ha provveduto
all’istruzione e la sanzione della nullità per la sentenza pronunciata da un
Giudice diverso da quest’ultimo. La questione è stata sottoposta alla Corte
Costituzionale con riferimento agli articoli 3 (principio di eguaglianza) 24
(diritto di difesa) e 111 (giusto processo) della Costituzione. Il Tribunale
ha tra l’altro rilevato che nel processo penale nel quale, come nelle cause di
lavoro, si applica il principio dell’oralità, il mutamento della persona
fisica del giudice comporta la necessità di rinnovare l’istruttoria
dibattimentale.
La Corte
Costituzionale, con ordinanza n. 317 del 28 ottobre 2004 (Pres. Onida, Red.
Amirante) ha dichiarato la questione manifestamente infondata. Gli impugnati
artt. 420 e 429, primo comma, del codice di procedura civile – ha affermato la
Corte – disciplinano la fase decisoria del processo del lavoro in coerenza con
i principi ispiratori di tale rito, senza che la garanzia di cui all’art. 24
della Costituzione risulti compromessa dalla decisione della controversia non
da parte del giudice che l'ha istruita ma da quello dinanzi a cui si è svolta
la discussione della causa, il quale ha conoscenza degli atti già acquisiti al
processo e conserva, comunque, in ordine alle prove, i poteri istruttori
previsti dall’art. 421 dello stesso codice; tale possibilità appaga le
esigenze di concentrazione ed immediatezza, laddove il principio di oralità è
comunque rispettato dalla necessaria identità tra chi assiste alla discussione
e chi decide. I modelli del processo civile e di quello penale – ha osservato
la Corte – per la loro intrinseca diversità, non consentono alcuna
comparazione né le soluzioni per garantire un giusto processo devono seguire
linee direttive necessariamente identiche per i due tipi di processo.
IL LAVORATORE CHE SI ASTIENE
DALLA PRESTAZIONE LAVORATIVA PER REAZIONE AD UNA DEQUALIFICAZIONE HA DIRITTO
ALLA RETRIBUZIONE E AL RISARCIMENTO DEL DANNO – Se si è comportato
secondo buona fede (Tribunale Civile di Palermo, Sezione Lavoro, sentenza del
13 ottobre 2004, Giudice dott. Martino).
Il giornalista Enzo B., dipendente dalla S.p.A. Giornale di
Sicilia Editoriale Poligrafica con qualifica di capo servizio, dopo essere
stato preposto, per cinque anni, alla redazione di Messina, provvedendo alla
realizzazione di sei pagine quotidiane di informazione locale e coordinando il
lavoro di tre redattori e circa 50 collaboratori e svolgendo anche attività
di articolista, è stato trasferito a Palermo, nella redazione centrale, dove è
stato destinato alla preparazione delle pagine della c.d. “cronaca in classe”
ove venivano pubblicati temi di studenti su argomenti di attualità. Dopo avere
promosso, inutilmente, un procedimento di urgenza davanti al Pretore di
Palermo, egli ha comunicato all’azienda che, in considerazione della portata
dequalificante delle mansioni assegnategli presso la redazione centrale, egli
si sarebbe astenuto dal lavoro, pur dichiarandosi pronto a svolgere mansioni
di capo servizio e articolista equivalenti a quelle prestate in Messina.
Poiché l’editore non ha modificato le mansioni assegnategli, il giornalista si
è astenuto dal presentarsi in redazione.
L’azienda ha reagito sospendendo, con effetto dal marzo 1999,
il pagamento della retribuzione. Il giornalista ha promosso, davanti al
Tribunale di Palermo, un giudizio ordinario diretto ad ottenere, tra l’altro,
la condanna dell’azienda ad adibirlo alle mansioni di capo servizio e
articolista, nonché a pagargli, anche a titolo di risarcimento del danno, la
retribuzione non corrisposta con effetto dal 1 marzo 1999 e a risarcirgli
anche il danno da dequalificazione. L’azienda si è difesa sostenendo che le
mansioni di addetto alle pagine della “cronaca in classe” erano adeguate alla
qualifica ed alla esperienza professionale del ricorrente e che il
giornalista, non avendo svolto attività lavorativa, non aveva diritto a
percepire la retribuzione. Dopo avere espletato l’istruttoria con l’escussione
di alcuni testi, il giudice dott. Dante Martino ha pronunciato, il 19 maggio
2004, il seguente dispositivo: “In parziale accoglimento del ricorso,
condanna la società convenuta ad adibire il ricorrente a mansioni di capo
servizio o equivalenti alla suddetta qualifica. Condanna, altresì, la società
a corrispondere allo stesso, a titolo di risarcimento del danno, una somma
pari al 50% della retribuzione globale di fatto maturata dal 1.3.1996 al
1.3.1999, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalla maturazione
di ogni rata di credito al pagamento. Condanna, infine, la convenuta a
corrispondere, sempre a titolo di risarcimento del danno, una somma pari al
150% della retribuzione globale di fatto, maturata dal 1.3.1999 fino alla data
della presente decisione, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali
dalla maturazione di ogni rata di credito al pagamento”.
Nella motivazione della sentenza, depositata il 13 ottobre
2004, il Giudice ha rilevato tra l’altro che la complessa e meticolosa
attività di coordinamento espletata dal ricorrente a Messina non era per nulla
avvicinabile all’attività, svolta a Palermo, di collaborazione e correzione
degli elaborati predisposti dagli alunni delle scuole locali; queste ultime
mansioni – ha osservato il giudice – devono ritenersi dequalificanti anche
perché non comportano lo svolgimento dell’attività di articolista in
precedenza prestate da Enzo B. In ordine al risarcimento del danno il Giudice
ha motivato la sua decisione come segue: “La condanna alla reintegrazione
nelle mansioni precedenti, peraltro, non esclude, anche alla luce della
giurisprudenza di legittimità sopra richiamata il diritto del lavoratore al
risarcimento dei danni patiti a causa del demansionamento. Al riguardo, pur
non volendo approfondire la complessa problematica teorica relativa alla
tipologia dei danni derivanti dalla dequalificazione, è, a parere di questo
decidente, possibile distinguere una duplice tipologia di danni. Da un lato è
evidenziabile un danno di natura patrimoniale, consistente nella lesione della
sfera professionale del lavoratore, ovvero nel depauperamento del bagaglio di
acquisizioni teoriche e capacità pratiche acquisite dallo stesso nel corso del
tempo ed aventi un valore economico nel mercato del lavoro. Dall’altro, v’è
invece, quella più vasta (ed indefinita) categoria di danni, incidente sulla
sfera personale del lavoratore, comprendente tutti quei beni quali la dignità,
libertà, personalità, salute del lavoratore, riconducibili ai diritti
fondamentali del cittadino-lavoratore riconosciuti dalla carta costituzionale
e non aventi, in senso proprio, un “valore economico”.
“Tale duplice tipologia di lesioni è riconosciuta dalla
recente giurisprudenza di legittimità secondo la quale: “Il demansionamento
professionale di un lavoratore dà luogo ad una pluralità di pregiudizi solo in
parte incidenti sulla potenzialità economica del lavoratore; esso, infatti,
non solo viola lo specifico divieto di cui all’art. 2103 cod. civ., ma
costituisce lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della
personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, con la conseguenza che al
pregiudizio correlato a tale lesione – che incide sulla vita professionale e
di relazione dell’interessato – va riconosciuta una indubbia dimensione
patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche
equitativa, pure nell’ipotesi in cui sia mancata la dimostrazione di un
effettivo pregiudizio patrimoniale” (Cfr. Cassazione civile, sez. lav. 6
novembre 2000, n. 14443).
A fronte di un'unica condotta illecita, quindi, sorgono due
tipologie di danno, suscettibili entrambe di risarcimento per equivalente. In
ordine alla prova dei suddetti danni può essere condiviso quel consistente
filone giurisprudenziale (cfr. tra le altre Cass. sez. lav. sent. n. 15868 del
12/11/2002 e Cass. sez. lav. sent. n. 7967 del 1/6/2002) secondo cui: “Dalla
illegittima attribuzione ad un lavoratore di mansioni inferiori rispetto a
quelle assegnategli al momento dell’assunzione può derivare non solo la
violazione dell’art. 2103 cod. civ., ma anche la violazione del diritto
fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel
luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, da cui deriva
il diritto dell’interessato al risarcimento del danno patrimoniale conseguente
al pregiudizio risentito nella vita professionale e di relazione, e la cui
quantificazione può avvenire in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 cod.
civ. anche in mancanza di uno specifico elemento di prova da parte del
danneggiato, in quanto la liquidazione può essere operata in base
all’apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi
alla natura, all’entità e alla durata del demansionamento, nonché alle altre
circostanze del caso concreto” (così da ultimo Cass. sez. lav. sent. n. 12553
del 27/08/2003). Nel caso di specie, la durata (oltre due anni) del
demansionamento patito, la peculiarità delle mansioni giornalistiche,
caratterizzate, come già evidenziato, da una costante esigenza di esercizio ed
affinamento, l’età lavorativamente avanzata del ricorrente, portano a
ritenere, seppure presuntivamente, provata l’esistenza di entrambi i profili
di danno, patrimoniale e personale, sopra evidenziati. Il mancato espletamento
delle mansioni di capo servizio e di articolista determina, infatti, sia una
riduzione della notorietà del giornalista sia, per i motivi già evidenziati,
un depauperamento delle sue capacità tecnico espressive, sì da incidere sul
valore “di mercato” della sua professionalità”.
Allo stesso modo, l’adibizione a mansioni inadeguate al
ruolo posseduto intacca quel complesso di diritti della persona strumentali
alla esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro,
riconosciuti dalla Carta Costituzionale (artt. 2 e 41) e ritenuti meritevoli
di tutela dall’ordinamento.In ordine alla quantificazione concreta del
risarcimento è opportuno ricordare come in assenza di parametri normativi, di
origine legale o contrattuale, la prevalente giurisprudenza di merito abbia
condivisibilmente posto a criterio base per la quantificazione del
risarcimento l’intera retribuzione percepita dal lavoratore (Tribunale Roma
19.10.1993, Pretura Milano 7.6.1993, Pretura Milano 8.4.1992) o una parte di
essa (Pretura Milano 28.10.1994, Pretura Milano 18.7.1995, Pretura Napoli
10.10.1992).
Orbene, a parere di questo decidente, appare conforme ad
equità, in considerazione della parziale (e non totale) riduzione delle
mansioni assegnate al ricorrente, equiparare la somma dovuta a titolo di
risarcimento alla metà della retribuzione globale di fatto percepita dal
ricorrente per il periodo dal 1.3.1996 (data in cui è stato assegnato alla
redazione di “cronaca in classe”) al 1.3.1999 (data in cui è cessata
l’erogazione della retribuzione). La società va, quindi, condannata a
corrispondere in favore del ricorrente, a titolo di risarcimento del danno per
il demansionamento subito, una somma pari al 50% della retribuzione globale di
fatto corrisposta allo stesso dal 1.3.1996 al 1.3.1999, oltre rivalutazione
monetaria ed interessi legali.
Per quanto riguarda il periodo successivo al 19.2.1999, data
in cui il lavoratore ha comunicato alla società la propria volontà di volersi
astenere “con effetto immediato dalla prestazione lavorativa da Voi
richiestami,” considerandosi però “a Vostra disposizione per svolgere le
mansioni di capo servizio della cronaca di Messina o altre equivalenti, può
essere riconosciuto il diritto dello stesso alla corresponsione di una somma
pari al 150% della retribuzione di cui il 50% quale risarcimento del
persistente danno da dequalificazione.
Al riguardo, va riportato il recente orientamento della
giurisprudenza di legittimità secondo cui: “L’illegittimo comportamento del
datore di lavoro consistente nell’assegnazione del dipendente a mansioni
inferiori a quelle corrispondenti alla sua qualifica può giustificare il
rifiuto della prestazione lavorativa, in forza dell’eccezione di inadempimento
di cui all’art. 1460 cod. civ., purché la reazione risulti proporzionata e
conforme a buona fede”. (cfr. Cassazione civile, sez. lav., 26 giugno 1999 n.
6663).
Appare, dunque, legittima, in forza del generale strumento di
autotutela disciplinato dall’art. 1460 cod. civ., la condotta del lavoratore,
parte del contratto di lavoro a prestazioni corrispettive, che opponga
all’inadempimento datoriale, consistente nell’illecito esercizio del c.d. “ius
variandi”, il rifiuto della propria prestazione, sempre che tale rifiuto
appaia proporzionato e conforme a buona fede. A quest’ultimo riguardo la
Suprema Corte ha chiarito che il rifiuto “può considerarsi in buona fede solo
se si traduca in un comportamento che, oltre a non contrastare con i principi
generali della correttezza e della lealtà, risulti oggettivamente ragionevole
e logico, nel senso di trovare concreta giustificazione nel raffronto tra
prestazioni ineseguite e prestazioni rifiutate” (cfr. Cassazione civile, sez.
lav., 2 novembre 1995 n. 12121).
Nel caso di specie, il rifiuto del B., dopo ben tre anni dalla
data di assegnazione alle dequalificanti mansioni sopra descritte e dopo
l’infruttuoso ricorso alla tutela giurisdizionale in via d’urgenza, appare,
specie di fronte alla persistente volontà datoriale (manifestata anche nel
corso del procedimento cautelare) di non modificare la suddetta assegnazione,
pienamente conforme a correttezza e buona fede. La società va, quindi,
condannata a corrispondere in favore del ricorrente, anche a titolo di
risarcimento del danno, una somma pari al 150% della retribuzione globale di
fatto, maturata a partire dal 1.3.1999, oltre rivalutazione monetaria ed
interessi legali dalla maturazione di ogni rata di credito al pagamento”.
Cassazione: dai da bere ad un ubriaco? Il bar può essere chiuso |
Dai da bere ad un ubriaco? Il giudice puo' imporre la
chiusura temporanea del bar anche se a somministrare la bevanda alcolica
non e' il titolare ma un aiutante barista. La linea dura arriva dalla
Corte di Cassazione che ha reso definitiva ''la sospensione
dell'esercizio'' di un bar di Piacenza ''per 15 giorni'', confermando
l'ammenda di 517 euro nei confronti di Antonella L., 'rea' di aver
somministrato ad una persona in evidente stato di ebbrezza una bevanda
alcolica. Per la Suprema Corte per determinare la chiusura temporanea di
un bar ''non e' necessario che il colpevole sia anche l'esercente del
pubblico esercizio'', basta che chi e' di servizio al bancone faccia finta
di non accorgersi della ''ubriachezza'' del cliente. Condannata dal
giudice di pace di Piacenza nel settembre del 2003 Antonella L. si e'
rivolta alla Cassazione lamentando l'''erronea applicazione dell'art. 691
Cp, in quanto il fatto non rientrava nellanorma contestata, la quale
prevede l'ubriachezza e non l'ebbrezza prevista dal Codice della strada
come fatto punibile. La difesa dell'imputata ha protestato inoltre contro
la sanzione della chiusura del bar sostenendo di non essere la titolare
dell'esercizio pubblico, ma soltanto l'amica della titolare sostituita
temporaneamente. La quinta sezione penale non ha condiviso questi
ragionamenti e ha respinto il ricorso di Antonella. Scrive il relatore
Giuseppe Pica che ''la manifesta ubriachezza puo' essere accertata senza
dover far ricorso ad accertamenti tecnici, essendo sufficiente, a tal
fine, la sua immediata o diretta rilevabilità con riguardo al sintomatico
comportamento tenuto dal soggetto''. |