Mentre la contestazione disciplinare deve avvenire a immediato ridosso dell’infrazione, la sanzione può essere applicata anche a distanza di tempo – Sempre nel rispetto del principio di buona fede – Mentre la contestazione disciplinare deve avvenire in ogni caso a immediato ridosso dell’infrazione-contestazione (ovvero della notizia che di essa abbia avuto il datore di lavoro), l’irrogazione della successiva eventuale sanzione può avvenire anche a distanza di tempo, sempre nel rispetto del principio della buona fede contrattuale. Questo specie quando il comportamento disciplinarmente contestato è sottoposto a verifiche in sede penale, il che rende opportuno, anche per una maggiore garanzia a difesa dell’incolpato, attenderne l’esito per una più obiettiva valutazione (Cassazione Sezione Lavoro n. 6137 del 22 marzo 2005, Pres. Ianniruberto, Rel. Balletti).
 


 

Non rispetta le procedure di sicurezza nell'uso del computer: deve pagare i danni
Dipendente pubblico condannato a risarcire oltre 6mila euro. Si era allontanato dalla postazione di lavoro con il computer acceso e la sua password era stata utilizzata indebitamente.
Dovrà pagare oltre 6mila euro alla Regione Siciliana il sig. A.C - dipendente dell’Agenzia delle Entrate - che, lasciando il proprio computer incustodito e con la sua password inserita, aveva di fatto permesso che fosse effettuato da terzi un indebito sgravio di imposta in favore di una azienda.

Lo ha stabilito la Corte dei Conti, con la sentenza n.390/2005 ( Sezione Giurisdizionale per la Regione Siciliana).
Indagini dell’Agenzia delle Entrate avevano rilevato che lo sgravio in questione era stato effettuato in assenza dei presupposti richiesti, utilizzando il terminale protetto dalla “password” personale del sig. A.C.

Quest’ultimo, pur negando di essere stato l’autore dello sgravio, aveva, tuttavia, ammesso la propria responsabilità, per avere lasciato il terminale attivo, consentendo l’illecita effettuazione dello sgravio.

La Corte dei Conti ha ritenuto che il danno erariale di 6.408,06 euro è riferibile al comportamento “gravemente colposo” del sig. A.C. “dalla cui postazione informatica, lasciata incustodita ed attiva (con la “password” personale assegnata al dipendente inserita), è stato operato illecitamente, […], l’indebito sgravio di imposta in favore di un contribuente.”

Al dipendente è stato contestato il fatto di non aver seguito le procedure aziendali di sicurezza.
La negligenza di A.C. è consistita “nella violazione delle disposizioni di servizio impartite dalla Direzione Centrale Audit e Sicurezza dell’Agenzia delle Entrate agli operatori incaricati del trattamento di dati sensibili mediante procedura informatica, […], che impongono lo spegnimento del personal computer al termine della giornata di lavoro, eseguendo l’apposita procedura di spegnimento e, nell’ipotesi di momentaneo allontanamento, l’attivazione della funzione di blocco della postazione oppure, ove non sia possibile il blocco, lo spegnimento dell’apparecchiatura.”
 

DICHIARAZIONI LESIVE DELL’ALTRUI REPUTAZIONE, ANCHE SE FATTE AD UNA SOLA PERSONA, POSSONO PRODURRE UN DANNO NON PATRIMONIALE RISARCIBILE – Non è necessario che si configuri il reato di diffamazione (Cassazione Sezione Terza Civile n. 5677 del 16 marzo 2005, Pres. Nicastro, Rel. Trifone).
            Il dott. Angelo S., sostituto procuratore della Repubblica, ha chiesto al Tribunale civile di Napoli di condannare il generale dei Carabinieri Carlo A. al risarcimento del danno per apprezzamenti lesivi della sua reputazione espressi dall’ufficiale durante un colloquio con il procuratore capo  della Repubblica dell’ufficio cui egli era addetto,  in merito ad una indagine in corso.
            Il Tribunale ha rigettato la domanda rilevando che le dichiarazioni lesive erano state fatte nel corso di un colloquio riservato, cui non avevano assistito altre persone, onde non era configurabile il reato di diffamazione, che si verifica allorché le dichiarazioni offensive vengano comunicate a più persone. Questa decisione è stata confermata dalla Corte di Appello di Napoli, che pur riconoscendo la portata offensiva delle dichiarazioni rese dal generale (che aveva attribuito al magistrato Angelo S. comportamenti viziati da dipendenza e parzialità) ha escluso la possibilità di una condanna al risarcimento del danno non patrimoniale, in mancanza di un reato. Angelo S. ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza della Corte di Appello per vizi di motivazione e violazione di legge. 
            La Suprema Corte (Sezione Terza Civile n. 5677 del 16 marzo 2005, Pres. Nicastro, Rel. Trifone) ha accolto il ricorso, richiamando l’orientamento espresso nelle sue sentenze n. 8827 e 8828 del 2003 secondo cui il danno non patrimoniale, conseguente alla ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona costituzionalmente garantito, non è soggetto, ai fini della risarcibilità, al limite derivante dalla  riserva di legge correlata all’art. 185 cod. pen. e non presuppone pertanto la qualificabilità del fatto illecito come reato.
            Anche la Corte costituzionale – ha osservato la Cassazione – con la sentenza n. 233 del 2003, ha segnalato l’indubbio pregio del suddetto indirizzo, che riconduce a razionalità e coerenza il tormentato capitolo della tutela risarcitoria del danno alla persona e che, nel superamento della tradizionale affermazione per cui il danno non patrimoniale riguardato dall’art. 2059 cod. civ. si identificherebbe con il cosiddetto danno  morale soggettivo, prospetta del medesimo art. 2059 l’interpretazione costituzionale orientata, tesa a ricomprendere nell’ambito di operatività della norma ogni danno di natura non patrimoniale derivante dalla lesione di valori inerenti alla persona e, dunque, anche il danno morale soggettivo.
            L’attribuzione ad un magistrato di determinati comportamenti di dipendenza e di parzialità, implicando la radicale negazione dello stesso ruolo istituzionale del giudice – ha affermato la Corte – esprime di per sé una valenza lesiva della sua dimensione morale e professionale, anche quando il discredito, trattandosi di magistrato del pubblico ministero, sia stato manifestato soltanto al capo dell’ufficio requirente.
           
La Corte ha cassato la decisione impugnata e ha rinviato la causa, per nuovo esame, alla Corte d’Appello di Roma, cui ha prescritto di applicare – ai fini dell’accertamento dell’esistenza di un danno non patrimoniale – i principi affermati nelle sue sentenze n. 827 e 828 del 2003.
 


Per la determinazione del risarcimento del danno biologico non è obbligatorio fare ricorso alle tabelle in uso presso alcuni uffici giudiziari – Il danno temporaneo può essere liquidato insieme a quello permanente –Per la quantificazione del risarcimento del danno biologico subito dal lavoratore per mancato rispetto, da parte dell’impresa, degli obblighi di tutela previsti dall’art. 2087 cod. civ. non è obbligatorio fare ricorso alle tabelle in uso presso alcuni uffici giudiziari. Tali tabelle non rientrano nelle nozioni di fatto di comune esperienza di cui all’art. 115, secondo comma, cod. proc. civ., né sono canonizzate in norme di diritto, appartenenti necessariamente alla conoscenza del giudice. Il danno biologico temporaneo può essere liquidato insieme a quello permanente, non esistendo alcuna norma che imponga di differenziare le relative voci (Cassazione Sezione Lavoro n. 6586 del 29 marzo 2005, Pres. Senese, Rel. Filadoro).

 


 

 

 

L'attività degli ausiliari del traffico deve essere limitata alle aree in concessione - Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 7336 del 07/04/2005

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Nuovo altola’ della Cassazione - dopo quello del 1998 sugli ausiliari del traffico - all'abuso del "potere di multa" da parte dei "vigilini" privati.
Gli ausiliari della sosta - ossia i dipendenti di societa’ private che hanno ricevuto dai Comuni, in concessione, le aree di parcheggio a pagamento - non possono piu’, infatti, fare le multe ai motorini, alle moto e agli scooter posteggiati sui marciapiedi "limitrofi" ai parcheggi in fascia blu. Il parere e’ espresso dalla Prima sezione civile della Cassazione con la sentenza 7336, depositata il sette aprile.
Con questa decisione ha ottenuto ragione il ricorso di un motociclista fiorentino che sosteneva che il personale di tali imprese private - assunto per controllare la circolazione nelle aree urbane con ticket orario - non ha alcun potere di accertamento di violazioni, al codice della strada, avvenute sui marciapiedi.
In particolare, la Prima sezione, ha accolto il reclamo presentato da Piero P. contro il Comune di Firenze, rappresentato dal sindaco Leonardo Domenici. Il motociclista fiorentino, multato dal personale della "Societa’ Firenze Parcheggi" per aver lasciato la moto sul marciapiede di via Benedetto Varchi, si era rivolto al Giudice di Pace dicendo "che l'infrazione non poteva essere accertata dai dipendenti della succitata societa’". Il Comune di Firenze resisteva in giudizio. La sanzione venne confermata: per il giudice di merito gli ausiliari della sosta potevano fare le multe ai motorini sui marciapiedi limitrofi ai parcheggi a pagamento.
La Cassazione, pero’, non ha assolutamente condiviso tale punto di vista e ha spiegato che gli ausiliari della sosta non possono fare queste multe, a meno che il marciapiede non sia compreso tra le fasce blu o sia una zona di transito per i veicoli in sosta a pagamento. Questi, tuttavia, sono casi eccezionali perche’ il marciapiede - ricorda la stessa Cassazione con un'ampia rassegna, sul tema, di circolari del Ministero dell'Interno - "e’ quella parte della strada esterna alla carreggiata, rialzata e destinata ai pedoni". In proposito i supremi giudici affermano che "la violazione del divieto di sosta sul marciapiede puo’ essere accertata dal personale in esame, esclusivamente nel caso in cui sussista la deroga al divieto di sosta sul marciapiede o il marciapiede sia eventualmente compreso nell'area oggetto della concessione, oppure, eccezionalmente, se vi possano accedere i veicoli".
Se tutte queste condizioni non si verificano - aggiunge Piazza Cavour - "il marciapiede non deve essere considerata una zona destinata alla sosta ed alla circolazione, con la conseguenza che, anche se limitrofo all'area oggetto della concessione, non puo’ costituire una superficie utilizzabile per compiere le manovre indispensabili a garantire la fruizione del parcheggio". Pertanto - conclude la Suprema corte - solo i vigili urbani possono fare le multe ai ciclomotori posteggiati sui marciapiedi, mentre i dipendenti degli autoparking non hanno le carte in regola per fare questo tipo di contravvenzioni.
Con riferimento agli ausiliari della sosta, gli "ermellini" spiegano che il loro "potere" deve "ritenersi limitato all'accertamento delle sole violazioni in materia di sosta che interessano l'area oggetto della concessione". "La ratio dell'attribuzione di questi poteri - prosegue ancora la sentenza 7336 - e’ individuata nell'esigenza di garantire la piena funzionalita’ del parcheggio", ma, in generale, le norme che conferiscono poteri a soggetti "estranei all'apparato della pubblica amministrazione" devono ritenersi di "stretta interpretazione". E una lettura rigorosa delle norme che hanno conferito poteri di accertamento anche a chi non e’ pubblico ufficiale - dotando i suoi atti di fede pubblica - non ammette l'inclusione del marciapiede nell'area di ingerenza dei 'vigili privati'.
Alla stregua di questo orientamento la Cassazione ha annullato con rinvio, al Giudice di pace di Firenze, in persona di un altro magistrato, la multa inflitta al centauro fiorentino. Ora il giudice designato dovra’ attenersi alle indicazioni di Piazza Cavour e stracciare la multa se il marciapiede di Via Varchi - come la maggior parte dei marciapiedi - era riservato solo ai pedoni e non alle macchine.
Anche il rappresentante della Procura del 'Palazzaccio', Antonio Martone, si era espresso per l'accoglimento del reclamo.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

 

SEZIONE I CIVILE

 

SENTENZA 7 aprile 2005 n. 7336

 


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

 

P.P. proponeva opposizione innanzi al GdP di Firenze avverso il verbale di accertamento della violazione dell’articolo 158 Cds, redatto a suo carico dal personale della “società Firenze parcheggi” (infra, società), per avere egli parcheggiato il proprio ciclomotore su un marciapiede sito in Via Benedetto Varchi, in Firenze.

Il ricorrente deduceva la nullità del verbale, in quanto l’infrazione contestata non avrebbe potuto essere accertata dai dipendenti della succitata società.

Il comune di Firenze contestava la fondatezza dell’opposizione e ne chiedeva il rigetto.

Il GdP di Firenze, con sentenza dell’8/15 gennaio 2001, rigettava l’opposizione, dichiarando compensate tra le parti le spese del giudizio.

Per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso P.P., affidato a due motivi, illustrati con memoria depositata ex articolo 378 Cpc; ha resistito con controricorso il comune di Firenze, in persona del direttore del corpo di polizia municipale, che ha poi depositato, ex articolo 372, comma 2, Cpc, atto di ratifica del Sindaco pro-tempore, con autorizzazione della delibera di Giunta municipale e designazione di un nuovo difensore, in sostituzione di uno dei due inizialmente designati.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1- Il ricorrente, con due motivi, trattati contestualmente, denuncia “violazione e falsa applicazione degli articoli 17 comma 132, legge 127/97, dell’articolo 68 della legge 488/99 e dell’articolo 158 Cds”, nonché “omessa insufficiente e contraddittoria motivazione sopra un punto decisivo della controversia”.

P.P. sostiene che l’articolo 17, comma 132, legge 127/97, stabilisce che “i comuni possono, con provvedimento del sindaco, conferire funzioni di prevenzione e accertamento delle violazioni in materia di sosta a dipendenti comunali o delle società di gestione dei parcheggi, limitatamente alle aree oggetto di concessione”, mentre l’articolo 68, comma 3, legge 488/99 ha disposto che “al personale di cui al comma 132 … dell’articolo 17 della legge 127/97, può essere conferita anche la competenza a disporre la rimozione dei veicoli, nei casi previsti, rispettivamente, dalle lettere b) e c) e dalla lettera d) del comma 2 dell’articolo 158 del D.Lgs 285/92”.

A suo avviso, il GdP ha erroneamente applicato queste norme al caso di specie, poiché il ciclomotore era stato parcheggiato su di un marciapiede e non nell’area oggetto della concessione comunale. Inoltre, la contestazione non riguardava la violazione della segnaletica a terra indicante l’area riservata alla sosta, né i tempi della sosta, ed il motoveicolo neppure impediva l’accesso o l’uscita da queste aree, sicchè l’infrazione non avrebbe potuto essere accertata dal personale dipendente della società.

Secondo il ricorrente, la sentenza impugnata avrebbe erroneamente rigettato l’opposizione, ritenendo che la circolare del ministero dell’Interno 300/26467/120/26 abbia legittimamente esteso il potere di accertamento, della violazione anche alle aree immediatamente limitrofe a quella oggetto della concessione e che il sindaco di Firenze, con ordinanza del 22 febbraio 2000, legittimamente abbia attribuito al personale dipendente della Società il potere di accertare la violazione prevista dall’articolo 158, lett.h), D.Lgs 285/92, che appunto sanziona la sosta sui marciapiedi.

Il P. sostiene che i succitati atti non possono modificare la legge e, in ogni caso, non può essere considerata “area limitrofa” a quella oggetto della concessione il marciapiede anche perché, come ammette il comune di Firenze, l’estensione del potere di accertamento delle infrazioni anche a queste aree è stata giustificata dalla necessità di potere “compiere tutte le manovre utili alla concreta fruizione del parcheggio in concessione”, con la conseguenza che il marciapiede non può certo essere ritenuta zona utilizzabile a questo scopo. Pertanto, l’opposizione avrebbe dovuto essere accolta, in quanto l’accertamento dell’infrazione deve ritenersi illegittimo, perché effettuato da personale non abilitato.

2- I due motivi, da esaminare congiuntamente, in quanto giuridicamente e logicamente connessi, sono fondati e devono essere accolti.

In linea preliminare, va osservato che, in riferimento al comune di Firenze, il deposito degli atti indicati in narrativa da parte del sindaco pro-tempore, ed anche della delibera della Gm di autorizzazione alla proposizione del controricorso, permettono di ritenere ininfluente la questione, altrimenti da esaminare, dell’ammissibilità del conferimento della procura alle liti da parte di un dirigente comunale, quindi rituale la difesa svolta dal controricorrente delle cui argomentazioni il collegio ha tenuto conto.

Nel merito, va osservato che l’articolo 17, comma 132, legge 127/97, ha stabilito che “i comuni possono, con provvedimento del sindaco, conferire funzioni di prevenzione e accertamento delle violazioni in materia di sosta a dipendenti comunali o delle società di gestione dei parcheggi, limitatamente alle aree oggetto di concessione”.

L’articolo 68, comma 1, legge 488/99, ha successivamente chiarito che “i commi 132 e 133 dell’articolo 17 della legge 127/97, si interpretano nel senso che il conferimento delle funzioni di prevenzione e accertamento delle violazioni, ivi previste, comprende, ai sensi del comma 1, lettera e), dell’articolo 12 del D.Lgs 285/92, e successive modificazioni, i poteri di contestazione immediata nonché di redazione e sottoscrizione del verbale di accertamento con l’efficacia di cui agli articoli 2699 e 2700 Cc” (comma 1). La norma ha, inoltre, stabilito che queste funzioni, “con gli effetti di cui all’articolo 2700 Cc, sono svolte solo da personale nominativamente designato dal sindaco previo accertamento dell’assenza di precedenti o pendenze penali, nell’ambito delle categorie indicate dai medesimi commi 132 e 133 dell’articolo 17 della citata legge 127/97” (comma 2), disponendo, altresì, che a detto personale “può essere conferita anche la competenza a disporre la rimozione dei veicoli, nei casi previsti, rispettivamente, dalle lettere b) e c) e dalla lettera d) del comma 2 dell’articolo 158 del D.Lgs 285/92” (comma 3).

2.1- Le norme non sono state esaminate da questa Corte in riferimento alla questione qui in esame. Precedenti pronunce hanno infatti avuto ad oggetto il verbale redatto nell’ambito della competenza puntualmente assegnata all’ausiliare del traffico (Cassazione, 18150/02), ovvero sono anteriori all’emanazione dell’articolo 68, ult.cit. (Cassazione, 11949/99, che peraltro riguardava un caso di mera collaborazione dell’ausiliare con i vigili urbani).

Il legislatore, con le norme sopra richiamate, ha stabilito che determinate funzioni, obiettivamente pubbliche, possano essere svolte anche da soggetti privati i quali abbiano una particolare investitura da parte della Pa, in relazione al servizio svolto, in considerazione “della progressiva rilevanza dei problemi delle soste e parcheggi” specie nei centri urbani (Corte costituzionale, ordinanza 157/01). Inoltre, con la norma interpretativa sopra richiamata (articolo 68, cit.) ha impresso ai verbali redatti dal succitato personale l’efficacia probatoria di cui agli articoli 2699 e 2700 Cc.

L’articolo 17, comma 132, cit, tenuto conto della rilevanza delle funzioni conferite a soggetti che, sebbene siano estranei all’apparato della Pa e non compresi nel novero di quelli ai quali esse sono ordinariamente attribuite (articolo 12, Cds), sono legittimati all’esercizio di compiti di prevenzione ed accertamento di violazioni del Cds sanzionate in via amministrativa, deve ritenersi norma di stretta interpretazione. Il legislatore, evidentemente proprio per queste ragioni, ha quindi avuto cura di puntualizzare che le funzioni riguardano soltanto le “violazioni in materia di sosta” e “limitatamente alle aree oggetto di concessione”, poiché la loro attribuzione è apparsa strumentale rispetto allo scopo di garantire la funzionalità dei parcheggi, che concorre a ridurre, se non ad evitare, il grave problema del congestionamento della circolazione nei centri abitati. In tal senso, è significativo che al personale in esame “può essere conferita anche la competenza a disporre la rimozione dei veicoli”, ma esclusivamente nei casi previsti dall’articolo 158, comma 2, lett. b), c) e d) (articolo 68, comma 3, cit.), ovvero “dovunque venga impedito di accedere ad un altro veicolo regolarmente in sosta, oppure lo spostamento dei veicoli in sosta”, “in seconda fila”, “negli spazi riservati allo stazionamento e alla fermata” dei veicoli puntualmente indicati.

Nei succitati casi e, in particolare, per quanto qui interessa, in quello previsto dall’articolo 158, comma 2, lett. b) Cds, la violazione pregiudica la piena funzionalità del parcheggio e, perciò, giustifica la attribuzione dei compiti in esame.

2.2- Delle ragioni e dei chiari e ben definiti limiti entro i quali sono stati attribuiti i compiti di prevenzione ed accertamento al personale in questione si è dimostrato consapevole il ministero dell’Interno, che costituisce l’autorità amministrativa di vertice titolare del potere di coordinamento dei servizi di polizia stradale da chiunque espletati (articolo 11, comma 3 Cds).

Il ministero dell’Interno, con due circolari, alle quali può farsi riferimento, in quanto recano una corretta interpretazione delle norme in esame, nell’immediatezza dell’emanazione della norma del 1997 ha ritenuto che al personale dipendente dalle società di gestione dei parcheggi – che è quello solo che interessa nella presente fattispecie – “è da riconoscersi un ambito circoscritto di competenza riconducibile essenzialmente all’accertamento delle violazioni di cui all’articolo 7, comma 15, e all’articolo 157, commi 5,6 e 8, del Cds, commesse in aree comunali, urbane o extraurbane, che con apposita delibera della giunta comunale sono state specificamente destinate al parcheggio o alla sosta sulla carreggiata e per la cui fruizione è imposto il pagamento di una somma di denaro. La loro competenza si estende anche a quelle aree poste al servizio di quelle a pagamento (su strade, piazze, ecc.), immediatamente limitrofe a esse e che costituiscono lo spazio minimo indispensabile e necessario per compiere le manovre che ne consentano in concreto l’utilizzo da parte degli utenti della strada: solo in tali zone, per relationem, deve intendersi estesa la facoltà di accertamento di tutte le violazioni relative alla fermata o alla sosta vietata da apposita segnaletica o dalle norme del codice della strada” (§1.a della circolare 25 settembre 1997, n. 300/a/26467/110/26).

Il ministero dell’Interno, successivamente, ha avuto cura di precisare che “il personale dipendente dalla società di gestione dei parcheggi ha possibilità di accertare violazioni relative alla sosta o alla fermata anche nelle aree immediatamente limitrofe alle aree concesse solo a condizione che queste costituiscono lo spazio minimo indispensabile per compiere le manovre necessarie a garantire la concreta fruizione del parcheggio in concessione. Solo per queste situazioni sembra, perciò, potersi prescindere dal rapporto rigoroso che lega il personale operante all’area in concessione alla società da cui dipendono” (§A della circolare 17 agosto 1998 n. 300/a/55042/110/26).

2.3- Nel quadro di queste norme e di questi principi, va affermato che il potere di accertamento delle infrazioni in esame da parte del personale dipendente delle società di gestione dei parcheggi richiede: a) che l’area destinata alla sosta sia stata data in concessione dal comune alla società ex articolo 7, comma 8, Cds; b) che i dipendenti della società titolare del potere di accertamento dell’infrazione siano stati designati con le modalità sopra precisate.

Il potere del succitato personale, nel caso in cui sussistano i suddetti presupposti, deve ritenersi limitato all’accertamento delle sole violazioni in materia di sosta che interessano l’area oggetto della concessione (in particolare delle violazioni dell’articolo 7, comma 15, 157, commi 5, 6 ed 8), giusta l’espressa previsione dell’articolo 17, comma 132, legge 127/97. La ratio dell’attribuzione di questi compiti – individuata nell’esigenza di garantire la piena funzionalità del parcheggio – e, soprattutto, la considerazione che al personale in questione è stato attribuito anche il potere di rimuovere dei veicoli che impediscano di accedere ad un altro veicolo regolarmente in sosta, ovvero di spostare i veicoli in sosta (articolo 68, comma 3, legge 488/99), permette inoltre di ritenere che la funzione di accertamento comprende anche la violazione del divieto di sosta nelle aree immediatamente limitrofe a quelle oggetto della concessione, ma esclusivamente se ed in quanto precludano, nei termini precisati, la funzionalità del parcheggio. Soltanto in presenza di detti presupposti del personale in questione ha il potere di accertare l’infrazione, redigendo un verbale di accertamento dell’infrazione, redigendo un verbale di accertamento dell’infrazione che fa piena prova, ex articoli 2699 e 2770, Cc, fino a querela di falso, con riguardo ai fatti attestati come avvenuti in sua presenza e conosciuti senza alcun margine di apprezzamento o da lui compiuti, nonché alla provenienza del documento ed alle dichiarazioni delle parti, e, in mancanza, il documento non può avere l’efficacia stabilita dell’articolo 68, comma 2, legge 488/99 e fondare ex se l’irrogazione della sanzione amministrativa.

Il sindaco è titolare del potere di conferire ai dipendenti della società di gestione del parcheggio le funzioni di prevenzione ed accertamento delle violazioni in materia di sosta entro i limiti spaziali così identificati, e cioè con esclusivo riferimento all’area oggetto della concessione,comprendendo queste funzioni l’area a questa limitrofa, purchè sussistano le condizioni sopra indicate. Pertanto, il provvedimento che attribuisca le funzioni in esame al di fuori ed oltre detti limiti deve ritenersi in contrasto con le succitate norme e, perciò, illegittimo e suscettibile di disapplicazione.

Le norme esaminate impongono, quindi, di affermare che, poiché, ai sensi dell’articolo 3, comma 1, n.33 Cds, il “marciapiede” è quella “parte della strada esterna alla carreggiata, rialzata o altrimenti delimitata e protetta, destinata ai pedoni”, in relazione alla quale sono vietate la fermata e la sosta, “salvo diversa segnalazione” (articolo 158, comma 1, lettera h), Cds), la violazione del divieto di sosta sul marciapiede può essere accertata dal personale in esame, con un atto avente la natura e gli effetti si cui all’articolo 68, cit., esclusivamente nel caso in cui sussista la deroga al divieto o il marciapiede sia eventualmente compreso nell’area oggetto della concessione (nel senso che fa parte della superficie oggetto della concessione), ovvero allo stesso, eccezionalmente, possano accedere i veicoli. Se ciò non accada, il marciapiede non è, infatti, una zona destinata alla sosta ed alla circolazione, con la conseguenza che, anche se limitrofo all’area oggetto della concessione, non può costituire una superficie utilizzabile per compiere le manovre indispensabili a garantire la fruizione del parcheggio.

La sentenza impugnata non ha correttamente applicato questi principi.

Il GdP, interpretando inesattamente le norme sopra richiamate, ma anche la circolare ministeriale sopra indicata, ha infatti ritenuto che il potere di accertamento sia esteso alla violazione del divieto di sosta sui marciapiedi, “in quanto deve essere in esse consentito il compimento di tutte le manovre utili alla concreta fruizione dei parcheggi in concessione”, ritenendo, erroneamente, che il sindaco possa legittimamente estendere i compiti di prevenzione ed accertamento oltre i limiti precisati. Ed invece, egli avrebbe dovuto accertare, in concreto se, in riferimento al marciapiede, sussistesse o meno la deroga dell’articolo 158, comma 1, lettera h) Cds, nei termini sopra precisati, ovvero, in presenza di questa deroga, fosse compreso nella superficie oggetto della concessione, costituendo queste condizioni imprescindibili per la legittimità dell’accertamento, poiché, diversamente, non essendo il marciapiede destinato alla sosta, e neppure alla circolazione, la violazione del divieto di sosta che li concerne non può essere accertata dal personale in questione, mediante la redazione di un verbale che ha l’efficacia di cui all’articolo 68, cit.

Il ricorso va, quindi, accolto e la sentenza impugnata cassata, con rinvio della causa al GdP di Firenze, in persona di diverso magistrato, che provvederà al riesame della controversia, provvedendo altresì sulle spese di questa fase.

 

P.Q.M.

La Corte, accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia al GdP di Firenze, in persona di diverso magistrato, anche per le spese di questo giudizio.

Così deciso in Roma il 22 febbraio il 22 febbraio 2005.

 

Depositata in cancelleria il 7 aprile 2005

 

 

 

 


LE ASSENZE DEL LAVORATORE PER MALATTIA CAUSATA DA UN COMPORTAMENTO INGIUSTAMENTE PERSECUTORIO TENUTO DAL DATORE DI LAVORO NON DEVONO ESSERE CALCOLATE AI FINI DEL SUPERAMENTO DEL PERIODO DI COMPARTO – E non giustificano pertanto il licenziamento (Cassazione Sezione Lavoro n. 4959 dell’8 marzo 2005, Pres. Senese, Rel. Guglielmucci).
            Maria D., dipendente di un’impresa di pulizie, ha denunciato una violenza sessuale subita da parte di un superiore gerarchico. L’azienda non ha adottato provvedimenti nei confronti dell’autore della violenza, accertata in sede penale. La lavoratrice ha subito invece, dopo la denuncia, una serie di provvedimenti disciplinari per assenze o ritardi in base ad addebiti risultati in gran parte privi di fondamento. Le è stato inoltre frequentemente cambiato l’orario di lavoro. Tra l’altro all’orario continuato dalle ore 12 alle 18 in precedenza da lei osservato ne è stato sostituito uno spezzato, dalle 6 alle 9 e dalle 14 alle 17. La lavoratrice è stata colpita da stato ansioso depressivo e per tale malattia si è ripetutamente assentata. Quando il numero delle assenze ha superato 370 giorni, l’azienda l’ha licenziata per superamento del periodo di comparto previsto dal contratto collettivo. La lavoratrice ha impugnato il  licenziamento davanti al Pretore di Roma sostenendo che le sue assenze dal lavoro erano dipese da una malattia causata dal comportamento persecutorio tenuto nei suoi confronti dall’azienda. Il Pretore di Roma ha rigettato la domanda in quanto non ha ritenuto provato l’intento persecutorio dei provvedimenti adottati dal datore di lavoro. Questa decisione è stata confermata, in grado di appello, dal Tribunale di Roma. La lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza del Tribunale per difetto di motivazione e violazione di legge e rilevando la mancanza di un’approfondita indagine sui fatti denunciati. 
            La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 4959 dell’8 marzo 2005, Pres. Senese, Rel. Guglielmucci) ha accolto il ricorso. Ove le assenze per malattia siano causate dalla violazione, da parte del datore di lavoro allo specifico obbligo del datore di lavoro di tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore e del più generale dovere che su di lui incombe di rispetto della persona del lavoratore (art. 41, comma 2° della Costituzione) – ha affermato la Corte – di esse non deve tenersi conto ai fini del superamento del periodo di comporto che, in base all’art. 2110 cod. civ., consente il licenziamento. Nel caso in esame – ha osservato la Cassazione – il Tribunale non ha adeguatamente motivato il giudizio di irrilevanza delle circostanze emerse dal processo, tali da denotare un comportamento ingiustamente persecutorio del datore di lavoro. La Corte ha cassato la decisione impugnata rinviando la causa, per nuovo esame, alla Corte di Appello di Roma.

Delitti contro ignoti e prosecuzione delle indagini . Il Gip può negare l'archiviazione - Cassazione Penale, Sezione IV, Sentenza n. 11205 del 22/03/2005

D i fronte alla richiesta di archiviazione del Pm, perche’ gli autori del reato sono ignoti, il Gip puo’ rigettare l'istanza e chiedere di continuare le indagini. L'orientamento della Cassazione che giudica " abnormi" provvedimenti del genere non va infatti accolto. Lo afferma la IV sezione penale della Suprema corte, nella sentenza 11205 depositata il 22 marzo.
I giudici di legittimita’ hanno bocciato il ricorso presentato contro un'ordinanza del Gip di Milano, che aveva a sua volta rigettato la richiesta di archiviazione avanzata dal Pm, ordinandogli di indagare per omicidio colposo aggravato, dopo l'identificazione dei responsabili.
La giurisprudenza della Cassazione non e’ unanime nel considerare questi provvedimenti abnormi e infatti i ricorrenti si sono basati proprio su sentenze ( 2592/ 1997 e 3252/ 2000) della Suprema corte. Ma la IV sezione richiama l'orientamento opposto ( espresso nelle sentenze 34717/ 04; 39340/ 03; 35209/ 01; 5050/ 99; 1640/ 04), ritenendolo piu’ vicino alla giurisprudenza della Corte costituzionale ( 409/ 90; 176/ 99; 263/ 91; 349/ 02), secondo la quale: « la natura sostanziale e non formale del principio costituzionale dell'obbligatorieta’ dell'azione penale (...) esige che l'inazione del pubblico ministero, manifestata con la richiesta di archiviazione, sia sottoposta a un penetrante controllo da parte del giudice » .
Inoltre, i ricorrenti non hanno il diritto di contestare l'irritualita’ del provvedimento del Gip, nonostante sia stato adottato senza contraddittorio con gli indagati. Ne’ serve l'autorizzazione alla riapertura delle indagini ( benche’ anche in tal caso esista un precedente, isolato, che lo sostiene — sentenza 1295/ 03).
Questa infatti serve a tutelare la persona gia’ individuata come sospetta e sottoposta alle indagini.
Cosa che non puo’ accadere nel procedimento contro ignoti. Di conseguenza, una volta che il Pm ha recepito l'indicazione del Gip, ha svolto nuove indagini e ha esercitato l'azione penale contro persone identificate, l'incriminato non ha subito nessuna violazione del proprio diritto alla difesa e puo’ solo contestare l'accusa che gli viene rivolta. Non ha invece la facolta’ di obiettare per l'abnormita’ del provvedimento che ha sollecitato l'azione penale, il cui titolare e’ il pubblico ministero, unico legittimato a contestare l'eventuale invasione dei propri poteri esclusivi.
Inoltre, conclude la IV sezione, il provvedimento del Gip potrebbe anche essere inteso come una denuncia, che puo’ essere fatta da chiunque e non solo dalla vittima del reato


Non è reato acquistare cassette senza bollino Siae - Cassazione Penale, Sezione III, Sentenza n. 6339/2005

La Cassazione fa chiarezza sull'acquisito di cassette prive del marchio Siae. E ricorda come, dopo le modifiche intervenute sulla materia, con la legge n. 248 del 2000, l'acquisito di musicassette sprovviste del " bollino" costituisce un semplice illecito amministrativo, fatta salva l'ipotesi di concorso di reato con chi invece detiene, per la vendita o la distribuzione, e pone comunque in commercio i medesimi prodotti senza contrassegno o comunque con contrassegno modificato. E’ infatti quest'ultima la condotta che la riforma del 2000 ha sanzionato in maniera piu’ pesante della precedente normativa. A fare il punto sulla e’ stata la III Sezione penale con la sentenza n. 6339.
La pronuncia chiarisce che l'intervento del 2000, dopo avere meglio precisato le varie fattispecie punite dall'articolo 173 ter della legge 633/ 1941 ( quelle appunto relative a chi mette in commercio i materiali contraffatti) e dopo averne inasprito le pene, coerentemente con l'intenzione di rendere piu’ efficace l'azione di accertamento e repressione della illecita riproduzione di opere dell'ingegno, « ha voluto escludere il concorso tra tale reato e quello di ricettazione, probabilmente al fine di evitare che qualsiasi acquirente di una musicassetta contraffatta potesse essere chiamato a rispondere di tale gravissimo delitto » .
Cosi’, l'articolo 16 della legge 248/ 2000 provvede a introdurre una sanzione amministrativa corrispondente a circa 150 euro ( 300.000 lire) e alle sanzioni accessorie della confisca del materiale e della pubblicazione del provvedimento su un quotidiano a diffusione nazionale.
La Cassazione precisa anche che la disposizione del 2000 si pone come speciale rispetto a quella della ricettazione, visto che « presenta nella sua struttura tutti gli elementi propri di quest'ultima oltre a quelli caratteristici della specializzazione, consistenti nella particolare natura dei beni acquistati dall'agente » .
Da questa constatazione, verificata l'attuazione del principio di specialita’, discende che l'applicabilita’ della sanzione amministrativa esclude che la medesima condotta possa essere punita invece a titolo di ricettazione.
Cosi’, la Suprema corte ha annullato la sentenza che aveva condannato un extra comunitario per entrambi i reati ( ricettazione e vendita di cassetta senza contrassegno).
In precedenza, invece, quando ancora erano in vigore le vecchie norme, la stessa giurisprudenza della Cassazione era concorde nell'escludere il rapporto di specialita’: l'illecita condotta del commerciare e detenere per la vendita cassette contraffatte non era infatti considerata assorbente della ricettazione che consisteva invece, nell'interpretazione datane dalla Corte, nell'acquistare, ricevere o occultare prodotti di cui si conosce la provenienza illecita


Non può svolgere i lavori domestici in seguito ad un incidente stradale: da risarcire
Una interessante recente Sentenza emessa dalla Corte di Cassazione.

 
La nozione di “casalinga” si aggiorna e si allarga: qualsiasi persona, uomo o donna, single o coniugata, che svolga esclusivamente, o anche in aggiunta ad un’attività lavorativa esterna e retribuita, lavori domestici in proprio favore, ha diritto al risarcimento del danno patrimoniale se, a causa di un sinistro stradale, non è più in grado, in tutto o in parte, di svolgere direttamente tale attività.
Lo ha stabilito la Sentenza della Corte di Cassazione n. 4657 del 3 marzo 2005, accogliendo il ricorso di una donna che in seguito ad un incidente stradale, aveva subito gravi danni fisici e psichici, per i quali non aveva ricevuto un risarcimento adeguato.

La Suprema Corte ha ricordato che “anche una casalinga può trovarsi a subire un danno patrimoniale qualora si veda in misura maggiore o minore privata per il futuro della possibilità di svolgere l’attività in questione (appunto quella di casalinga)”.

La casalinga, pur non percependo reddito monetizzato, svolge un’attività suscettibile di valutazione economica.
La problematica in questione non può inoltre essere confinata alla casalinga, essendo ormai possibile il sorgere del danno in questione anche con riferimento ad una persona, donna o uomo, che svolga anche attività in ambito domestico.
Se un soggetto abituato a svolgere lavoro domestico solo (ovvero anche) in proprio favore (es. single che pulisce il proprio appartamento, che cucina i suoi pasti, ecc…) viene privato un tutto o in parte della propria capacità di provvedere a tali necessità insorge un danno emergente (tipicamente patrimoniale) derivante dal fatto che dovrà cominciare a ricorrere a colf, ristoranti, lavanderie, ecc. “quindi – precisa la Suprema Corte – dato che oggi una percentuale sempre maggiore di persone (anche se con attività lavorativa retribuita) dedica parte delle proprie energie lavorative a faccende domestiche, una sopravvenuta incapacità ad attendere alle medesime comporta di regola un danno patrimoniale sotto il profilo del danno emergente.”

La Cassazione, accogliendo il ricorso, ha enunciato il seguente principio di diritto: “in tema di invalidità permanente o temporanea il soggetto che perde in tutto od in parte la propria capacità di svolgere lavori domestici in precedenza effettivamente svolti in proprio favore ha diritto al risarcimento del conseguente danno patrimoniale provato (danno emergente ed eventualmente, anche lucro cessante)”.
 

Mobbing: L?atteggiamento discriminatorio va valutato nel suo insieme - Tribunale di Forli', Sezione Lavoro, Sentenza n. 28 del 10/03/2005

Va valutato nel suo insieme l'atteggiamento discriminatorio che isola dal contesto lavorativo, sebbene sia costituito da comportamenti che singolarmente non appaiono significativi

Anche la "conflittualitΰ sottile" sul posto di lavoro θ mobbing: anzi, θ la forma piω insidiosa e pericolosa perchι richiede una particolare attenzione e sensibilitΰ per riconoscere le caratteristiche ed individuarne i confini.
Cosμ la pensa la sezione lavoro del Tribunale di Forlμ nella sentenza 28/2005 - depositata il 10 marzo e qui leggibile tra gli allegati - con la quale ha riconosciuto ad una assistente amministrativa del VI Circolo didattico della stessa cittΰ,un risarcimento di 38.200,00 euro per il danno (biologico ed esistenziale) subito dal comportamento mobbizzante dei suoi colleghi. La donna, infatti, per circa sedici mesi era stata bersaglio di un atteggiamento discriminatorio posto in essere sia dalle colleghe che dalle superiori al fine di estraniarla dal contesto lavorativo, perchι non si era "sintonizzata con l'ambiente accettando gerarchie e comportamenti esistente". In altre parole, la nuova arrivata aveva infranto delle regole tacite tra i colleghi, aveva rotto un equilibrio e, quindi, veniva individuata come un "elemento perturbatore" dell'ambiente lavorativo. Da qui una serie di comportamenti vessatori nei confronti della donna: non le viene dato un nuovo computer, che invece viene consegnato alla sua collega; non le viene consentito di effettuare una visita fiscale ambulatorialmente, cosa consentita a tutti gli altri; le viene tenuta nascosta la domanda per ottenere un incentivo economico, e cosμ via. Tutte condotte - sottolinea il giudice romagnolo - che valutate singolarmente non integrano un illecito, ma se lette unitariamente richiamano un solo concetto, mobbing: il termine, conclude il tribunale, ha infatti una formidabile capacitΰ evocativa relativamente ad una esigenza diffusa di "attenzione e di riconoscimento di situazioni di disagio, malessere, sofferenza, variamente creatasi all'interno degli ambienti di lavoro". Θ la cosiddetta "conflittualitΰ sottile" sul posto di lavoro, quella ostilitΰ non eclatante ma non per questo meno pesante per la vittima prescelta.


- Non c'è peculato d'uso se l'auto blu serve per "dissetare" i colleghi - Cassazione Penale, Sezione VI, Sentenza n. 13064 del 11/04/2005

Inconfigurabile il reato per l'impiegato comunale che adopera la Panda dell'ufficio per comprare l'acqua minerale a chi e’ in ufficio e non puo’ muoversi

Si ammorbidisce un po' il rigore della Cassazione attorno all'utilizzo indebito delle 'autoblu': per la Suprema Corte, infatti, i dipendenti pubblici possono usare la macchina di servizio per andare a comperare qualcosa da bere ai colleghi assetati. In questo caso la sottrazione della macchina "ai suoi fini istituzionali" e’ giustificata - spiega la Sesta sezione penale con la sentenza 13064, depositata l'11 aprile - perche’ avviene "anche al fine di un migliore funzionamento della pubblica amministrazione" e non configura, quindi, il reato di peculato. Nel reato di peculato d'uso sono incappati in molti, tra i quali, ad esempio, l'ex sindaco di Messina, l'aennino Giuseppe Buzzanca, che ha perso la poltrona per essere andato al traghetto del viaggio di nozze in autoblu. Per ben due volte, inoltre, la Suprema Corte - l'ultima pochi giorni fa - ha inviato alla Consulta la legge che ha tolto il peculato d'uso dai reati che impediscono l'eleggibilita’ a sindaco.
Tuttavia e nonostante questi recenti "precedenti giurisprudenziali", e’ stato assolto Santo M., un funzionario del Comune di Catania, del settore Nettezza Urbana, che - l'afoso 24 luglio 1997- aveva usato la Fiat Panda dell'ufficio per comperare dell'acqua minerale ai colleghi, oberati dalle pratiche. Questo utilizzo anomalo dell'auto non sfuggi’ agli agenti di polizia giudiziaria che, in quel periodo, controllavano l'uso dei mezzi comunali.
Santo M. venne processato: in primo grado fu condannato a quattro mesi di reclusione per "essersi appropriato della Panda al solo scopo di farne momentaneo uso per fini personali". In appello, la pena fu dimezzata, ma rimase sempre disposta l'interdizione dai pubblici uffici per un anno.
Contro questo verdetto - emesso dalla Corte di Appello di Catania il 25 giugno 2004 - il funzionario ha fatto ricorso in Cassazione chiedendo di essere assolto in quanto aveva preso l'autoblu una sola volta "per un tempo assai limitato e non per finalita’ private ma in connessione ai doveri di ufficio". E la Suprema Corte ha accolto la tesi in base alla quale rientra nell'uso istituzionale dell'autoblu, quello di andare a prendere da bere per i colleghi che, una volta dissetati, lavoreranno meglio.
"Nel caso in esame - dicono gli ermellini - ne discende che, anche per l'estrema esiguita’ di valore dei beni oggetto di appropriazione e per l'uso momentaneo destinato a procurare generi alimentari ai colleghi di ufficio (impegnati nell'espletamento delle loro funzioni), si rende ipotizzabile il compimento del fatto anche al fine di un migliore funzionamento della pubblica amministrazione". Cosi’ la condanna dell'imputato e’ stata annullata del tutto con la formula "perche’ il fatto non sussiste".
L'assoluzione pronunciata dalla Cassazione e’ stata emessa nonostante il sostituto procuratore generale, Santi Consolo, avesse chiesto la conferma della sentenza colpevolista.