LA RISPOSTA IN FORMA SCRITTA ALLA CONTESTAZIONE DISCIPLINARE NON CONSUMA PER IL DIPENDENTE L’ESERCIZIO DEL DIRITTO DI DIFESA, SE E’ ACCOMPAGNATA DALLA RICHIESTA DI AUDIZIONE PERSONALEIn base all’art. 7 St. Lav. (Cassazione Sezione Lavoro n. 9066 del 2 maggio 2005, Pres. Sciarelli, Rel. Stile).
            Carlo M., dipendente dell’impresa A. S. come operaio saldatore, è stato sottoposto a procedimento disciplinare con lettera del 27 marzo 1998 recante l’addebito di avere scagliato, contro il titolare dell’azienda, un caricabatteria, producendogli una ferita. Egli ha risposto con lettera del 28 marzo 1998 contestando l’addebito e chiedendo di essere sentito personalmente con la presenza di un sindacalista del quale ha fornito nome, cognome e indirizzo. L’azienda non lo ha convocato e, con lettera del 3 aprile 1998, lo ha licenziato. Il lavoratore ha chiesto al giudice del lavoro di Monza di dichiarare il licenziamento nullo per violazione dell’art. 7 St. Lav., in quanto non era stato sentito a sua difesa, e comunque illegittimo per infondatezza dell’addebito.
            Il Tribunale ha accolto la domanda, dichiarando il licenziamento nullo per violazione dell’art. 7 St. Lav. secondo cui il datore di lavoro non può adottare alcun procedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l’addebito e senza averlo sentito a sua difesa. Questa decisione è stata confermata dalla Corte di Appello di Milano, che ha rilevato che il datore di lavoro non aveva ascoltato il dipendente nonostante l’espressa richiesta in tal senso avanzata da quest’ultimo con l’indicazione anche del sindacalista che avrebbe dovuto assisterlo. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione sostenendo che essa non era tenuta a convocare il lavoratore dal momento che questi aveva contestato, con una lettera, l’addebito disciplinare, esercitando in tal modo il diritto di difesa.
            La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 9066 del 2 maggio 2005, Pres. Sciarelli, Rel. Stile) ha rigettato il ricorso. Il discolparsi per iscritto “consuma” l’esercizio del diritto di difesa – ha osservato la Corte – solo quando il lavoratore nulla dica circa l’audizione, quando cioè lo scritto costituisca il preciso segnale di una scelta, ovvero la rinuncia ad essere “sentito”; ma, quando, come nella specie, nella risposta scritta l’interessato “dice qualcosa”, chiede cioè di essere ascoltato personalmente, e, peraltro, con l’assistenza di un sindacalista ben individuato, non è più dato desumere l’esistenza di una tale rinuncia ed operano allora necessariamente le conseguenze derivanti dalla espressa richiesta di essere sentito a difesa; in altri termini, l’opzione sta nella facoltà di presentazione di giustificazioni soltanto scritte. Non è pertanto condivisibile – ha affermato la Corte – la tesi della “consumazione” del diritto di difesa rapportata alla mera esistenza di uno scritto del lavoratore; tesi che non ha alcun appiglio normativo e non è giustificata nemmeno dal timore di una compressione del potere disciplinare, che in realtà non sussiste perché spetta comunque alla discrezionalità del datore di lavoro stabilire i tempi di fissazione dell’audizione

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Il lavoratore sottoposto a procedimento disciplinare non è tenuto a rivelare circostanze che possono dimostrare la sua responsabilità – Per regola generale – Nel procedimento disciplinare condotto dall’azienda a carico del dipendente, opera comunque, per la difesa del lavoratore, la regola generale in base alla quale nemo tenetur edere contra se: questa esclude il dovere dell’incolpato di rendere dichiarazioni idonee a fornire la prova della sua responsabilità, e quindi la esigibilità di dichiarazioni autoindizianti. La falsità di quanto affermato dal dipendente a propria difesa non può assumere quindi di per sé rilevanza disciplinare (Cassazione Sezione Lavoro n. 9262 del 4 maggio 2005, Pres. Mattone, Rel. Miani Canevari).

 

 

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QUANDO LA TRASFERTA DIVENTA, PER IL SUO COSTANTE RIPETERSI, UN ASPETTO STRUTTURALE DELLA PRESTAZIONE LAVORATIVA, IL RELATIVO COMPENSO PUO’ ESSERE RITENUTO UNA COMPONENTE DELLA NORMALE RETRIBUZIONE – Ai fini contrattuali (Cassazione Sezione Lavoro n. 8468 del 22 aprile 2005, Pres. Sciarelli, Rel. Cuoco).
            Giovanni C. ed altri lavoratori dipendenti dell’Alcatel Italia S.p.A., come operai giuntisti addetti all’istallazione di reti telefoniche, hanno percepito per alcuni anni compensi aggiuntivi – denominati indennità di guida, tempo di viaggio, diaria o trasferta – per le prestazioni lavorative da loro svolte fuori sede, in luoghi costantemente diversi. Essi hanno chiesto al Pretore di Caserta di dichiarare che tali compensi dovevano essere inclusi nella normale retribuzione ai fini del calcolo delle somme loro dovute per i vari istituti contrattuali e di condannare conseguentemente l’azienda al pagamento delle relative differenze. Sia il Pretore che, in grado di appello, il Tribunale di S. Maria Capua Vetere hanno ritenuto fondata la domanda. Il Tribunale ha affermato che nell’ambito del rapporto di lavoro, al fine di stabilire la natura retributiva o meno di un’attribuzione patrimoniale, il nomen juris indicato dalle parti per i vari compensi è irrilevante; determinante è la funzione del compenso e il suo rapporto con l’attività cui è connesso. Nel caso in esame – ha osservato il Tribunale di Napoli – i dipendenti aggiungono all’orario di lavoro il tempo necessario per recarsi dalla propria abitazione al centro operativo e di lì al cantiere e questo tempo è utilizzato anche per la verifica degli ordini di lavoro, per la raccolta di materiali e per altre prestazioni. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione del Tribunale, tra l’altro, per non aver tenuto conto del fatto che il contratto collettivo escludeva espressamente la natura retributiva dell’indennità di trasferta, anche se corrisposta con continuità.
            La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 8468 del 22 aprile 2005, Pres. Sciarelli, Rel. Cuoco) ha rigettato il ricorso. La trasferta – ha osservato la Corte – presuppone lo spostamento del lavoratore per fatti occasionali e contingenti, implicanti di volta in volta singole decisioni del datore di lavoro; per contro la prolungata permanenza in varie sedi di cantieri e i ripetuti spostamenti dall’una all’altra sede, in quanto immanenti modalità di lavoro, costituiscono un aspetto strutturale della prestazione, connesso con la causa tipica del contratto, cosicché il compenso di questa specifica prestazione con somma fissa, non costituisce mero rimborso spese, bensì rappresenta il corrispondente aspetto strutturale della retribuzione, in quanto diretto a compensare il particolare disagio e la gravosità connessi alla prestazione.
 

 

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LA DECISIONE SULLA LEGITTIMITA’ DEL TRASFERIMENTO DI UN IMPIEGATO DA UN COMUNE A UN’AMMINISTRAZIONE STATALE RIENTRA NELLA GIURISDIZIONE DEL GIUDICE ORDINARIO Anche se il ricorso è proposto dal Comune (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 8695 del 27 aprile 2005, Pres. Olla, Rel. Roselli).
            Renzo A., dipendente del Comune di Sperlonga, è stato trasferito con decreto del Provveditore agli studi di Latina, nei ruoli del personale amministrativo, tecnico e ausiliario dello Stato. Il Comune di Sperlonga si è rivolto al Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio per ottenere l’annullamento del provvedimento, ritenendo inesistenti i requisiti per il trasferimento del lavoratore. Il TAR del Lazio ha accolto il ricorso. Questa decisione è stata riformata dal Consiglio di Stato, il quale ha dichiarato il difetto di giurisdizione amministrativa, ritenendo trattarsi di controversia di pubblico impiego privatizzato, devoluta alla giurisdizione ordinaria dall’art. 29 d.lgs. 31 marzo 1998 n. 80.
            Avverso la sentenza del Consiglio di Stato il Comune di Sperlonga ha proposto ricorso per cassazione, lamentando la violazione delle norme e dei principi sulla giurisdizione nonché vizi di motivazione. In particolare, il Comune di Sperlonga ha sostenuto che: a) oggetto dell’impugnazione è stato un provvedimento amministrativo con contenuto di innegabile discrezionalità; b) oggetto diretto della controversia non è stato il rapporto di lavoro di un dipendente trasferito da un ente pubblico ad un altro, bensì il rapporto tra i due enti; c) il giudice amministrativo, pur dopo la devoluzione al giudice ordinario delle controversie sul pubblico impiego, ha conservato la conoscenza del provvedimento amministrativo rilevante ai fini della decisione; e) sono comunque riservati alla giurisdizione amministrativa gli atti di organizzazione dei pubblici uffici, che sono sempre autoritativi ma non necessariamente generali.  
            La Suprema Corte (Sezioni Unite Civili n. 8695 del 27 aprile 2005, Pres. Olla, Rel. Roselli) ha rigettato il ricorso. Ai sensi dell’art. 68 d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29 (sostituito più volte, da ultimo dall’art. 63 d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165) – ha osservato la Corte – sono devolute al giudice ordinario tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, con eccezioni che non riguardano la fattispecie in esame; qualora vengano in questione atti amministrativi presupposti e rilevanti ai fini della decisione, il giudice ordinario li disapplica, se illegittimi.
            Nel caso di specie – ha precisato la Corte – il provvedimento impugnato non ha natura di atto generale di organizzazione, bensì è un provvedimento di trasferimento di un lavoratore dipendente da un Comune ad un’amministrazione statale, ai sensi dell’art. 8 L. 3 maggio 1999 n. 124, che, in quanto tale, è relativo al singolo rapporto di lavoro. Tanto ciò è vero – ha sottolineato la Corte – che i motivi della pretesa fatta valere in giudizio dal Comune di Sperlonga, non riguardano i criteri generali posti a base del provvedimento, vale a dire l’attività organizzativa delle strutture amministrative, bensì la posizione personale del dipendente trasferito. La controversia avente ad oggetto tale provvedimento è dunque relativa ad un rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni ed appartiene al giudice ordinario ai sensi dell’art. 63 L. n. 124/99, quand’anche essa sia stata iniziata da una delle pubbliche amministrazioni contro l’altra. 
            Inoltre – ha osservato la Corte – non si tratta di un semplice atto presupposto rilevante nel processo ai fini del decidere, essendo anzi proprio il provvedimento che ha dato origine alla controversia; e in ogni caso esso non potrebbe essere sottratto alla cognizione incidentale del giudice ordinario. Né – ha concluso la Corte – rileva la sua natura, discrezionale o vincolata, poiché una volta identificato nel rapporto di lavoro l’oggetto del processo, né l’ampiezza delle valutazioni spettanti all’amministrazione né la loro rilevanza organizzativa bastano ad escludere la giurisdizione ordinaria.
 
 

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LE SOMME RISCOSSE A TITOLO DI INDENNITA’ DI ACCOMPAGNAMENTO RIENTRANO NELLA COMUNIONE LEGALE DEI CONIUGI – Perché non costituiscono pensione di invalidità (Cassazione Sezione Prima Civile  n. 8758 del 27 aprile 2005, Pres. Olla, Rel. Panebianco).
         In base all’art. 279 cod. civ. non rientra nella comunione dei beni fra i coniugi la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa. L’indennità di accompagnamento non è indirizzata al sostentamento del soggetto minorato nella sua capacità di lavoro ma costituisce una misura di integrazione e sostegno del nucleo familiare, incoraggiato così a farsi carico di tale soggetto, al fine di evitare il ricovero in istituti di cura e di assistenza con conseguente riduzione della relativa spesa sociale. Se tali ne sono la natura e le finalità, l’indennità in questione non può certamente rientrare, nemmeno in via di interpretazione estensiva od analogica, nell’ipotesi prevista dalla lett. e) dell’art. 179 cod. civ. laddove si fa riferimento alla pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa, essendo questa invece volta a reintegrare sul piano economico detta perdita e trattando in ogni caso l’art. 179 cod. civ. ipotesi tassative costituenti altrettanti eccezioni al principio generale della comunione da considerarsi, in quanto tali, di stretta interpretazione.
         
Pertanto le somme corrisposte a titolo di indennità di accompagnamento rientrano nella comunione legale dei coniugi. Ne consegue che, ove con i proventi di tale indennità il coniuge beneficiario della medesima abbia acquistato titoli di Stato, l’altro coniuge ha diritto alla metà del relativo importo.