Cassazione: forze ordine non esigano referto medico per stupro

Vittima di uno stupro? I carabinieri devono accogliere la denuncia senza esigere il referto medico. Lo afferma la Corte di Cassazione che ha confermato la condanna a quattro mesi di reclusione nei confronti di due sottufficiali dei Cc della stazione di Casoria, nel napoletano. Secondo la Suprema Corte rifiutando ''indebitamente'' la denuncia di una ragazza vittima di uno stupro, gli agenti dell'Arma hanno ''creato ritardo alla intuibile esigenza di tempestivita' delle indagini per la migliore identificazione dell'autore della violenza''. I fatti: nel novembre del '94, Filomena P., vittima di uno stupro, si era presentata alla stazione dei carabinieri di Casoria per sporgere denuncia contro il violentatore. Ma i due sottufficiali si erano ''indebitamente rifiutati di ricevere una denuncia di violenza'', asserendo, tra l'altro, che per formalizzare la denuncia era necessario un referto medico. Il rifiuto era costato loro una condanna a 4 mesi con i doppi benefici previsti dalla legge: condanna confermata sia dal Tribunale di Napoli, nel gennaio 2001, che dalla Corte d'appello napoletana nel gennaio 2002

 

 

Polizia di stato: l'obbligo del confronto con il sindacato

La sezione lavoro della Corte di Cassazione (sentenza 11 novembre 2003, n. 16976) ha stabilito che il ministero dell'Interno ha l'obbligo di informare i sindacati di polizia sull'organizzazione del lavoro degli agenti. Tale obbligo riguarda si le prestazioni straordinarie sia i turni di reperibilità e i riposi compensativi. L'informazione dovrà avere una cadenza trimestrale così come previsto dall'Accordo nazionale quadro rinnovato nel 2000. I giudici di piazza Cavour hanno altresì precisato che l'obbligo del confronto con il sindacato deve essere sempre rispettato anche quando le disposizioni non hanno subito variazioni.


 

 

IL LAVORATORE PUO’ PROMUOVERE PIU’ GIUDIZI PER OTTENERE L’INCLUSIONE NEL T.F.R. DI DIFFERENTI ELEMENTI DELLA RETRIBUZIONE – Non si verifica la preclusione da giudicato (Cassazione Sezione Lavoro n. 17754 del 21 novembre 2003, Pres. Mattone, Rel. Figurelli).
           Lucio T., dipendente dell’Azienda consortile trasporti pubblici di Napoli ha ottenuto, con un primo giudizio promosso davanti al Pretore di Napoli l’accertamento del suo diritto all’inclusione, nel trattamento di fine rapporto maturato alla data del 31 maggio 1982, di un’indennità prevista dalla contrattazione aziendale (accordo del 31/5/81). La sentenza è passata in giudicato. Successivamente il lavoratore ha promosso un altro giudizio diretto ad ottenere l’inclusione nel t.f.r., maturato alla data del 31 maggio 1982, del compenso per lavoro straordinario continuativamente percepito. Nel secondo giudizio l’azienda ha eccepito la preclusione da giudicato, sostenendo che il lavoratore avrebbe dovuto proporre, nel primo giudizio, anche la domanda relativa all’inclusione nel t.f.r. del compenso per lavoro straordinario e che la sentenza passata in giudicato aveva definitivamente stabilito la composizione del t.f.r. Sia il Pretore che, in grado di appello, il Tribunale di Napoli hanno ritenuto fondata l’eccezione sollevata dall’azienda e conseguentemente hanno escluso la proponibilità della domanda avanzata dal lavoratore. Questi ha proposto ricorso per cassazione per difetto di motivazione e violazione di legge.
           La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 17754 del 21 novembre 2003, Pres. Mattone, Rel. Figurelli) ha accolto il ricorso. E’ stato accertato in causa – ha osservato la Corte – che il T., ottenne con la sentenza poi passata in giudicato, il riconoscimento del diritto all’integrazione del T.F.R. mediante il computo di alcune componenti della retribuzione previste dall’accordo del 31.5.1981. Ciò posto, si è realizzata nella specie l’ipotesi dell’accertamento della necessità di includere una o più voci nella base di calcolo del T.F.R., prescindendo dall’accertamento del relativo ammontare, sempreché il datore di lavoro contesti quella necessità; in tal caso la limitazione del petitum si riflette sulla limitata estensione del giudicato, il quale non preclude una successiva domanda di corresponsione dell’anticipazione o del trattamento definitivo, che si riferisce ad altre voci retributive. All’obiezione che una tale limitazione del petitum e dei confini del giudicato può risolversi in una moltiplicazione di controversie e in un aggravio di spese e di attività giudiziaria per il datore di lavoro, vale a dire in una violazione delle norme di buona fede e correttezza che impongono al creditore di non aggravare inutilmente la posizione del debitore (artt. 1175 e 1375 c.c.) – ha affermato la Corte – deve rispondersi che il datore di lavoro può evitare gli effetti sfavorevoli chiedendo a sua volta un accertamento dell’intera base di calcolo, ossia del trattamento già maturato. Nella specie, è stato accertato dagli atti di causa che il lavoratore aveva chiesto – in costanza di rapporto di lavoro – in un precedente processo definito con giudicato, che nella base di calcolo fossero inclusi anche i punti 3, 4 e 5 dell’accordo nazionale 31.5.1981, mentre con successiva domanda egli ha chiesto anche l’inclusione delle somme relative allo straordinario prestato in modo fisso e continuativo; erroneamente quindi – ha rilevato la Corte – il Tribunale, ravvisando una identità di oggetto delle due controversie, ha affermato la preclusione da giudicato, che riguardava non l’intero trattamento, ma solo alcune voci. E’ inoltre da rilevare – ha concluso la Cassazione – che poiché, prima della negazione da parte del debitore, non sorge l’interesse del creditore (art. 100 c.p.c.) all’azione di accertamento del credito, non si potrebbe – senza contraddizione – imporre al creditore medesimo l’onere di esercitare “quando non gli sia stato opposto alcunché dalla controparte” un’actio nondum nata al fine di evitare la preclusione del giudicato: questo si formerebbe su questione non ancora deducibile e la contraddizione si risolverebbe in una lesione del diritto di difesa in giudizio, garantito dall’art. 24 co. 2 Cost.

 

 

 

Cassazione: valide intercettazioni captate in modo fortuito

Le intercettazioni telefoniche che avvengono in modo fortuito, a 'cornetta sollevata', possono essere utilizzate anche per applicare la custodia cautelare. Ascoltare le conversazioni dal ricevitore alzato, infatti, ''non viola la privacy''. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione che ha respinto il ricorso di Claudio F. nei confronti del quale e' stata applicata la custodia cautelare (in base al reato di associazione di tipo mafioso previsto dall'art. 416 bis c.p.) dopo intercettazioni avvenute in maniera ''fortuita''. Per la Suprema Corte, ''il casuale ascolto delle conversazioni nel corso di un' intercettazione telefonica ritualmente autorizzata e' utilizzabile ai fini dell'applicazione di una misura cautelare''. Per effetto di questa decisione, Claudio F. si e' visto confermare dalla Quinta sezione penale la custodia cautelare disposta dal Tribunale del Riesame di Catanzaro, nel gennaio 2003, in seguito ad una conversazione captata casualmente durante le intercettazioni telefoniche avvenute nell'aprile del '98. In quella occasione, Antonio A., accingendosi a parlare sul cellulare con un'altra persona, nell'attesa della linea si era messo a parlare con la persona che sedeva a fianco nell'auto, pronunciando una frase ritenuta determinante ai fini dell'appplicazione della misura restrittiva nei confronti di Claudio F. sia dal gip che dal Tribunale del Riesame.

Cassazione: dipendente pubblico fa firmare ad altri il cartellino? E' truffa

La Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione (Sent. 39077/2003) ha stabilito che il dipendente pubblico che fa timbrare a un'altra persona il proprio cartellino mentre non è sul posto di lavoro, può essere considerato responsabile dei reati di truffa e di falso. I Giudici di Piazza Cavour hanno infatti precisato che il lavoratore, nel momento in cui timbra, operando una certificazione, è da considerarsi pubblico ufficiale e che, per quanto attiene al cartellino rivelatore delle presenze, è indubbio che esso "contenga una attestazione in punto di effettuazione e durata della prestazione lavorativa, attestazione idonea a produrre effetti giuridici non solo per quanto riguarda la retribuzione, ma anche il controllo dell'attività e regolarità dell'ufficio". La Corte inoltre ha evidenziato che il cartellino, a prescindere dal fatto che sia un atto interno "è destinato a fornire un contributo a fini di conoscenza e determinazione della Pubblica amministrazione". Con questa decisione la Corte ha rigettato il ricorso di un lavoratore condannandolo al pagamento delle spese del procedimento

Garante: rischi sulle banche dati sulla salute

Il Garante per la protezione dei dati personali (Newsletter 27 ottobre / 2 novembre 2003) ha richiamato l'attenzione sui delicatissimi problemi sollevati dall'art. 50 del decreto legge 30/9/2003, n. 269, attualmente in attesa del voto del Senato, che prevede la realizzazione di un modello di ricetta medica a lettura ottica e la costituzione di una banca dati contenente il codice fiscale di tutti gli assistiti, al fine di controllo della spesa sanitaria. L'Autorità ha sottolineato come, in materia di monitoraggio della spesa sanitaria pubblica, la legislazione vigente prevede delle procedure che possono e debbono certamente essere rivisitate e migliorate anche se tutto questo non può tradursi in una compressione del diritto di protezione dei dati personali. Il Garante ha inoltre aggiunto che, "qualora non si adottasse la soluzione dei dati anonimi, si correrebbe concretamente il rischio di introdurre nel sistema giuridico una disciplina che discriminerebbe i cittadini in base alla possibilità, per quanti possono pagare direttamente i farmaci e le prestazioni specialistiche, di non vedere inseriti i loro dati personali nella banca dati".


 

Privacy: malattie professionali e segnalazioni diretta dei medici all'Inail

Il Garante per la protezione dei dati personali (Newsletter 27 ottobre / 2 novembre 2003) ha confermato che i medici che diagnosticano ai propri pazienti malattie che possono essere state provocate da determinate attività lavorative potenzialmente nocive, possono trasmettere direttamente all'Inail la denuncia della diagnosi. L'Autorità, nella risposta la quesito di un ufficio giuridico che chiedeva di verificare la legittimità, rispetto alla normativa sulla privacy, della trasmissione direttamente da parte dei medici all'Istituto assicuratore delle denunce di alcune malattie collegate alle attività lavorative dei loro pazienti, ha ribadito che "non sussiste il divieto per i medici a trasmettere direttamente all'Inail la segnalazione delle predette malattie professionali potenzialmente nocive, corredate da un'anamnesi lavorativa e dai rischi e dalle sostanze alle quali il lavoratore sia, o sia stato, esposto nello svolgimento della sua prestazione professionale, purché ciò avvenga nel rispetto delle finalità prescritte dalle specifiche disposizioni in materia di assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali quali quelle previste dal principio di pertinenza (art. 9, legge 675/1996) in merito agli scopi per i quali i dati vengono raccolti".


 

E' legge l'incompatibilità fra avvocato e impiegato pubblico

Lo scorso 6 novembre, dopo più di due anni di trattazione, la Camera dei Deputati ha definitivamente approvato la proposta di legge n. 543 recante "Norme in materia di incompatibilità dell'esercizio della professione di avvocato" che, fra breve, verrà pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. L'iniziativa legislativa in parola, fortemente voluta dalla lobby degli avvocati a tempo pieno, ma parimenti osteggiata da coloro che, in regime agevolativo di part time, ne saranno alquanto danneggiati attraverso la coazione ad una definitiva scelta alternativa, prende le mosse dal R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito nella legge 22 gennaio 1934, n. 36, e successive modificazioni e integrazioni. All'articolo 3 di tale provvedimento è stabilito che l'esercizio delle professioni di avvocato e di procuratore è incompatibile con diverse attività professionali, private e pubbliche. Al comma 2, fra l'altro, sancisce l'incompatibilità "con qualunque impiego od ufficio retribuito con stipendio sul bilancio dello Stato, delle Province, dei Comuni..." e, in generale, di "qualsiasi altra Amministrazione o istituzione pubblica soggetta a tutela o vigilanza dello Stato, delle Province e dei Comuni. Da tale generale divieto sono esclusi, naturalmente, coloro che proprio nell'interesse esclusivo di una Pubblica Amministrazione esercitano la professione legale presso l'ufficio legale dell'Amministrazione stessa. La legge 23 dicembre 1996, n. 662, il cosiddetto "collegato" alla manovra finanziaria per il 1997, ai commi 56, 56-bis e 57 dell'articolo 1 ha di fatto cancellato tale incompatibilità per i dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50% di quella a tempo pieno, per i quali non si applicano, genericamente, le disposizioni di cui all'articolo 58 del decreto legislativo n. 29 del 1993 - ora recepito dall'articolo 53 del decreto legislativo n. 165 del 2001, nonché le disposizioni di legge e di regolamento che vietano l'iscrizione in albi professionali. Dal momento che il rapporto part-time può essere costituito per tutti i profili professionali e tutte le carriere, ad eccezione del personale militare, di quello delle Forze di Polizia, di quello della carriera prefettizia, e del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, l'eccezione prevista dalla legge n. 662 citata si è rivelata immediatamente di larga portata. Da parte forense la mobilitazione contro tale legge è stata immediata: si è contestato, fondamentalmente, la difficoltà di un esercizio "a metà" di una professione che, soprattutto con il nuovo procedimento penale, richiede un impegno temporale davvero esteso e, parallelamente, è stata rilevata l'incompatibilità "genetica" fra la natura indipendente dell'attività forense e quella "dipendente" dell'attività prestata per la Pubblica Amministrazione. A ciò si aggiunga che anche l'attività nella Pubblica Amministrazione ora assume rilievi e tipologie sempre più coinvolgenti e "esclusiviste": dunque l'incompatibilità fra le due attività risulterebbe nella natura delle cose. Sul punto è intervenuta la Corte Costituzionale che, contrariamente al precedente assunto, con la sentenza n. 189 del 2001 ha ravvisato nel regime part time un nuovo modo di intendere il rapporto di impiego pubblico, superando il canone della esclusività della prestazione, sottolineando anche che il complesso dei controlli che legittimano l'attività forense è idoneo a garantire la piena correttezza dell' esercizio della professione. E ciò anche in costanza di due attività apparentemente inconciliabili. La vicenda, tuttavia non si è arrestata. Della questione è stato investito il Parlamento con la proposta di legge che non ha avuto vita facile ed ha subito costanti modificazioni, pur essendo testualmente brevi, nell'intento di ritardarne o di accelerarne l'entrata in vigore. Lo scorso 6 novembre, dunque, lo sblocco, che sarà definitivo con la prossima imminente pubblicazione del provvedimento sulla Gazzetta Ufficiale. In tale testo di legge si aboliscono, limitatamente alla professioen forense, le disposizioni recate dalla legge 23 dicembre 1996, n. 662: per gli avvocati, dunque, vengono ripristinate le precedenti incompatibilità previste dalla normativa del 1933/34. Viene altresì descritto nel dettaglio il regime "transitorio", necessario in una normativa del genere. I pubblici dipendenti che vogliano optare per il rapporto di impiego hanno 36 mesi dalla entrata in vigore della presente legge - un tempo davvero non breve, rispetto ai 6 mesi originari, ma scaturito dalla necessità del portare a compimento le cause pendenti - per darne comunicazione al Consiglio dell'Ordine. In mancanza, si applica l'automatica cancellazione. Entro lo stesso termine si può optare per il mantenimento dell'iscrizione nell'albo, rinunciando al rapporto d'impiego, anche se, in tale caso, il pubblico dipendente conserva per 5 anni il diritto alla riammissione in servizio a tempo pieno, salvo particolari indisponibilità, con conseguente sospensione e nuova decorrenza dell'anzianità. Come si vede l'entrata in vigore è ampiamente differita nel tempo, così da posticiparne e "trasferirne" ai posteri l'impatto normativo e applicativo.

 

Malattie professionali: lecite le segnalazioni dei medici all’Inail

I medici che diagnosticano ai loro pazienti malattie che possono essere state provocate da determinate attività lavorative potenzialmente nocive possono trasmettere direttamente all’Inail la denuncia della diagnosi.

Lo ha confermato il Garante nella risposta al quesito di un ufficio giuridico che chiedeva di verificare la legittimità, rispetto alla normativa sulla privacy, della trasmissione direttamente da parte dei medici all’Istituto assicuratore delle denunce di alcune malattie collegate alle attività lavorative dei loro pazienti.

Generalmente la denuncia dell’insorgenza di malattie professionali, corredata del certificato medico contenente il domicilio dell’ammalato, il luogo in cui è ricoverato e una relazione sulla sintomatologia accusata dal paziente e una su quella rilevata dal medico certificatore, viene trasmessa dal datore di lavoro all’Istituto assicuratore, entro i cinque giorni successivi a quello nel quale il prestatore d’opera ha fatto denuncia al datore di lavoro della manifestazione della malattia (art. 53 del d. P.R. n. 11124/1965), con l’obbligo per il medico, qualora l’Inail le richieda, di fornire tutte le notizie ritenute necessarie all’espletamento della causa.

Rispetto ad alcune malattie professionali elencate in un decreto vige tuttavia comunque nell’attuale ordinamento giuridico l’obbligo - per il medico che venga a conoscenza nell’esercizio della sua attività di determinate malattie professionali - di denuncia, oltre che all’azienda sanitaria locale, anche alla sede dell’Istituto assicuratore competente per territorio (art. 139 del d.P.R. n. 1124/1965 e art. 10 del decreto legislativo n.38/2000). Va ricordato, a tale proposito, che la pertinente normativa stabilisce che l’elenco delle malattie professionali,  contenga anche una lista di malattie di probabile e di possibile origine lavorativa da tenere sotto osservazione ai fini dell’eventuale revisione dell’elenco.

Per quanto concerne, poi, le disposizioni in materia di protezione dei dati personali, l’art. 112 del nuovo Codice, in vigore dal prossimo 1° gennaio 2004, considera di rilevante interesse pubblico i trattamenti di dati finalizzati all’attuazione della disciplina in materia di igiene e sicurezza del lavoro.

Pertanto, non ravvisandosi un contrasto con il quadro normativo vigente, l’Autorità ha ribadito che non sussiste il divieto per i medici a trasmettere direttamente all’Inail la segnalazione delle predette malattie professionali potenzialmente nocive, corredate da un’anamnesi lavorativa e dai rischi e dalle sostanze alle quali il lavoratore sia, o sia stato, esposto nello svolgimento della sua prestazione professionale, purché ciò avvenga nel rispetto delle finalità prescritte dalle specifiche disposizioni in materia di assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali quali quelle previste dal principio di pertinenza (art. 9, legge 675/1996) in merito agli scopi per i quali i dati vengono raccolti.

 

Banche dati sulla salute: i rischi secondo il Garante

“Le banche dati sulla salute dei cittadini devono contenere solo dati anonimi”.

L’Autorità Garante per la protezione dei dati personali richiama l’attenzione sui delicatissimi problemi sollevati dall’art.50 del decreto legge 30 settembre, n. 269, da oggi al voto del Senato, che prevede la realizzazione di un modello di ricetta medica a lettura ottica e la costituzione di una banca dati contenente il codice fiscale di tutti gli assistiti, al fine di controllo della spesa sanitaria.

Tali finalità, sicuramente apprezzabili per l’obiettivo di un più razionale monitoraggio della spesa pubblica – ha spiegato il Garante - sono tuttavia perseguite attraverso una strumentazione che violerebbe il diritto dei cittadini alla protezione dei dati personali per quanto riguarda le informazioni riguardanti la salute e quindi protette da particolari garanzie.

L’Autorità ha ricordato che la legislazione vigente già prevede procedure per il monitoraggio della spesa sanitaria che non richiedono banche dati centralizzate. Tali procedure possono certamente essere rese più efficienti (permettendo, ad esempio, un rapido accertamento dei requisiti che danno diritto all’esenzione), ma non possono tradursi in una compressione del diritto alla protezione dei dati personali.

Se si intende mettere a punto un sistema di controllo conforme a quanto disposto dalla normativa sulla protezione dei dati personali, l’unica soluzione corretta è quella di escludere il trattamento di qualsiasi dato identificativo degli assistiti, costituendo eventualmente un archivio di soli dati anonimi. La garanzia prevista dal legislatore laddove stabilisce che “al Ministero dell’economia e delle finanze non è consentito trattare i dati acquisiti nell’archivio relativo ai codici fiscali degli assistiti” appare, infatti, insufficiente, dal momento che la semplice esistenza di tale archivio conserva nel sistema la possibilità di risalire (ad opera di soggetti diversi) dal codice fiscale - e quindi dall’identità dell’assistito - all’intera sua storia sanitaria, documentata da ricette mediche e prescrizioni specialistiche. L’Autorità ha sottolineato che, qualora non si adottasse la soluzione dei dati anonimi, si correrebbe concretamente il rischio di introdurre nel sistema giuridico una disciplina che discriminerebbe i cittadini in base alla possibilità, per quanti possono pagare direttamente i farmaci e le prestazioni specialistiche, di non vedere inseriti i loro dati personali nella banca dati

Infine, la nuova “carta sanitaria”, aggiungendosi a quelle già annunciate o in fase di sperimentazione, contribuirebbe alla proliferazione di carte elettroniche della quale il Garante ha più volte sottolineato i rischi.
(comunicato del 28 ottobre 2003)

 

 

In caso di “sostituzione a cascata” di un assente con diritto alla conservazione del posto, lo svolgimento delle mansioni superiori non è utile per il conseguimento della qualifica – In base all’art. 2103 cod. civ. – L’art. 2103 cod. civ. stabilisce che nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diviene definitiva – ove non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto – dopo un periodo fissato dai contratti collettivi e comunque non superiore a tre mesi.
            Agli effetti dell’art. 2103 c.c., la locuzione “lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto” la cui sostituzione, malgrado l’espletamento di mansioni superiori, non è utile ai fini della cosiddetta promozione automatica, ma solo ai fini del diritto al trattamento economico corrispondente all’attività svolta, deve essere interpretata in senso lato, come comprensiva, cioè, non soltanto del lavoratore assente direttamente sostituito ma, nell’ipotesi di sostituzione “a cascata” (cioè sostituzione dell’assente con lavoratore già in servizio e sostituzione di questo con lavoratore adibito a mansioni inferiori), anche del sostituto dell’assente (o del sostituto del sostituto dell’assente), con l’avvertenza, però, che deve essere comprovato che la sostituzione di tale soggetto (presente in servizio) trovi causa diretta ed immediata nell’assenza (effettiva) del lavoratore (con diritto alla conservazione del posto) non in servizio. Con riguardo però all’ipotesi in cui un lavoratore subentra ad altro nello svolgimento delle mansioni superiori di un dipendente assente con diritto alla conservazione del posto, deve chiarirsi come non sia ravvisabile propriamente un fenomeno di sostituzione mediante scorrimento (o “a catena” o “a cascata”) e lo svolgimento delle mansioni superiori non è utile, ai fini dell’acquisizione della corrispondente qualifica ai sensi dell’art. 2103 c.c., neppure al lavoratore subentrante all’originario sostituto, con detto subentro attuandosi in definitiva, pur sempre la sostituzione del lavoratore assente, anziché del suo sostituto. Da tale principio si ricava a contrario che, quando lo svolgimento di mansioni superiori sia avvenuto in sostituzione di lavoratore a sua volta chiamato ad espletare compiti inerenti ad un posto vacante (non di pertinenza, quindi, di un titolare del posto che sia assente con diritto alla conservazione del medesimo), non ricorre una fattispecie di sostituzione, ma un caso di affidamento delle mansioni inerenti al posto vacante (Cassazione Sezione Lavoro n. 16958 dell’11 novembre 2003, Pres. Senese, Rel. Stile).