L’IMPRENDITORE E’ TENUTO
AL RISARCIMENTO DEL DANNO PER INFORTUNI SUL LAVORO ANCHE SE L’INSTALLAZIONE
DEI DISPOSITIVI DI SICUREZZA SIA STATA DA LUI AFFIDATA AD ALTRA IMPRESA –
Il dipendente deve essere informato e controllato (Cassazione
Sezione Lavoro n. 18603 del 5 dicembre 2003, Pres. Sciarelli, Rel. Vidiri).
Angelo B., dipendente della società Tecnolifts, ha subito un
infortunio mentre stava montando l’impianto elettrico di un ascensore. Egli
ha chiesto al Giudice del Lavoro di Brescia la condanna dell’azienda al
risarcimento del danno biologico e morale. L’azienda si è difesa sostenendo
che l’infortunio si era verificato perché il lavoratore aveva operato stando
sul tetto anziché all’interno della cabina e che comunque essa non poteva
essere ritenuta responsabile della mancanza dell’apparato di fermo corsa, in
quanto aveva incaricato un’altra ditta di provvedere alla sua installazione.
Il Tribunale di Brescia ha condannato l’azienda al risarcimento del danno,
ma la sua decisione è stata integralmente riformata dalla Corte d’Appello
che ha escluso la responsabilità della Tecnolifts per l’infortunio, in
quanto ha ritenuto che l’installazione del “fermo corsa” fosse a carico
della ditta cui tale compito era stato affidato e che il lavoratore avrebbe
dovuto verificare se questo congegno fosse in opera. Angelo B. ha proposto
ricorso per cassazione, censurando la decisione impugnata per difetto di
motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 18603 del 5 dicembre
2003, Pres. Sciarelli, Rel. Vidiri) ha accolto il ricorso. Le norme dettate
in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire
l’insorgenza di situazioni pericolose – ha affermato la Cassazione – sono
dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla
sua disattenzione ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed
imprudenza dello stesso, per cui ne consegue che il datore di lavoro è
sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia allorquando
ometta di adottare le idonee misure protettive sia allorquando non accerti e
vigili che di queste misura venga fatto effettivamente uso da parte del
dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente per
l’imprenditore – allorquando si sia verificato un infortunio sul lavoro per
violazione delle relative prescrizioni protettive – al concorso di colpa del
lavoratore. La condotta del dipendente può, infatti, comportare l’esonero
totale del datore di lavoro da responsabilità solo quando essa presenti i
caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al
procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell’aticipità
ed eccezionalità, così da porsi come causa esclusiva dell’evento.
Nel caso di specie – ha osservato la Cassazione – la Corte
d’appello di Brescia, nel riformare la decisione del primo giudice e nel
rigettare la domanda del lavoratore, ha considerato quest’ultimo unico
responsabile dell’infortunio occorsogli; in tal modo non ha tenuto in alcun
conto delle norme antinfortunistiche e, segnatamente, dell’art. 4, lettera
b), e dell’art. 5, ultimo comma, del d. P.R. 27 aprile 1955 n. 547, che
prescrivono rispettivamente che il datore di lavoro deve rendere edotti i
lavoratori dei rischi specifici cui essi sono esposti nell’espletamento
della loro attività e che i macchinari ed attrezzi di sua proprietà che
siano usati dal lavoratore siano muniti di dispositivi di sicurezza. La
Cassazione ha anche ritenuto che la Corte d’Appello di Brescia sia incorsa
in errore attribuendo rilevanza alla circostanza che l’installazione del
“fermo corsa” fosse stata affidata ad un’impresa terza.
Nel contesto attuale – ha osservato la Suprema Corte – è
sempre più frequente il c.d. “processo di esternalizzazione” in base al
quale le imprese spesso si affidano per l’esecuzione di opere essenziali per
l’esercizio della loro attività produttiva, ad imprese terze e a dette
imprese affidano anche fasi e parti significative del processo produttivo,
soprattutto quando questo risulti articolato, complesso ma nello stesso
tempo agevolmente scindibile; le opere commissionate o, più in generale,
affidate a vario titolo (ad esempio attraverso appalti o contratti d’opera)
a soggetti esterni costituiscono peraltro una fase dell’intero processo
produttivo dell’impresa che commissiona detti lavori. Corollario di tutto
ciò – ha affermato la Corte – è che il datore di lavoro, quale responsabile
dell’intero processo produttivo, deve accertare, prima di disporre la
continuazione dell’attività lavorativa da parte dei propri dipendenti, se la
condotta dei soggetti cui ha affidato l’esecuzione di una fase della
produzione sia – in ragione di colpose inadempienze, di censurabili
negligenze o anche per meri fatti oggettivi - fonte di pericolo per i
lavoratori. Solo attraverso tale accertamento - di particolare rilevanza
proprio allorquando le opere affidate a terzi attengano all’apprestamento di
misure necessarie per la messa in sicurezza di tutte le fasi lavorative - il
datore di lavoro deve assolvere all’obbligo su di esso gravante di rendere
edotti i propri dipendenti “dei rischi specifici cui essi sono esposti”.
L’imprenditore – ha concluso la Corte – potrà ritenersi esentato dalla
responsabilità al riguardo solo ove provi di avere adempiuto al suddetto
obbligo informativo e di avere anche dotato i propri dipendenti, così come
voluto dall’art. 5, ultimo comma, del d.P.R. n. 547/1955, dei dispositivi di
sicurezza necessari in presenza di situazioni di pericolo che, comunque, si
presentino
Il divieto di retroattività
della legge non ha portata generale – Esso è limitato alle norme penali
– Secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, il divieto
di retroattività della legge – pur costituendo fondamentale valore di
civiltà giuridica e principio generale dell’ordinamento, cui il legislatore
deve attenersi in linea generale – non è stato tuttavia elevato a dignità
costituzionale, se si eccettua la previsione dell’art. 25 Cost.,
limitatamente alla legge penale; il legislatore ordinario, pertanto, nel
rispetto del suddetto limite, può emanare norme con efficacia retroattiva,
interpretative o innovative che esse siano, a condizione che la
retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza
e non si ponga in contrasto con altri valori ed interessi costituzionalmente
protetti (Cassazione Sezione Lavoro n. 18486 del 3 dicembre 2003, Pres.
Senese, Rel. Morcavallo
IL LAVORATORE PUO’
PROMUOVERE PIU’ GIUDIZI PER OTTENERE L’INCLUSIONE NEL
T.F.R. DI DIFFERENTI ELEMENTI DELLA RETRIBUZIONE – Non si
verifica la preclusione da giudicato (Cassazione Sezione Lavoro n. 17754 del
21 novembre 2003, Pres. Mattone, Rel. Figurelli).
Lucio T., dipendente dell’Azienda consortile trasporti
pubblici di Napoli ha ottenuto, con un primo giudizio promosso davanti al
Pretore di Napoli l’accertamento del suo diritto all’inclusione, nel
trattamento di fine rapporto maturato alla data del 31 maggio 1982, di
un’indennità prevista dalla contrattazione aziendale (accordo del 31/5/81).
La sentenza è passata in giudicato. Successivamente il lavoratore ha
promosso un altro giudizio diretto ad ottenere l’inclusione nel t.f.r.,
maturato alla data del 31 maggio 1982, del compenso per lavoro straordinario
continuativamente percepito. Nel secondo giudizio l’azienda ha eccepito la
preclusione da giudicato, sostenendo che il lavoratore avrebbe dovuto
proporre, nel primo giudizio, anche la domanda relativa all’inclusione nel
t.f.r. del compenso per lavoro straordinario e che la sentenza passata in
giudicato aveva definitivamente stabilito la composizione del t.f.r. Sia il
Pretore che, in grado di appello, il Tribunale di Napoli hanno ritenuto
fondata l’eccezione sollevata dall’azienda e conseguentemente hanno escluso
la proponibilità della domanda avanzata dal lavoratore. Questi ha proposto
ricorso per cassazione per difetto di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 17754 del 21 novembre
2003, Pres. Mattone, Rel. Figurelli) ha accolto il ricorso. E’ stato
accertato in causa – ha osservato la Corte – che il T., ottenne con la
sentenza poi passata in giudicato, il riconoscimento del diritto
all’integrazione del T.F.R. mediante il computo di alcune componenti della
retribuzione previste dall’accordo del 31.5.1981. Ciò posto, si è realizzata
nella specie l’ipotesi dell’accertamento della necessità di includere una o
più voci nella base di calcolo del T.F.R., prescindendo dall’accertamento
del relativo ammontare, sempreché il datore di lavoro contesti quella
necessità; in tal caso la limitazione del
petitum si riflette sulla
limitata estensione del giudicato, il quale non preclude una successiva
domanda di corresponsione dell’anticipazione o del trattamento definitivo,
che si riferisce ad altre voci retributive. All’obiezione che una tale
limitazione del
petitum e dei confini del giudicato può risolversi in
una moltiplicazione di controversie e in un aggravio di spese e di attività
giudiziaria per il datore di lavoro, vale a dire in una violazione delle
norme di buona fede e correttezza che impongono al creditore di non
aggravare inutilmente la posizione del debitore (artt. 1175 e 1375 c.c.) –
ha affermato la Corte – deve rispondersi che il datore di lavoro può evitare
gli effetti sfavorevoli chiedendo a sua volta un accertamento dell’intera
base di calcolo, ossia del trattamento già maturato. Nella specie, è stato
accertato dagli atti di causa che il lavoratore aveva chiesto – in costanza
di rapporto di lavoro – in un precedente processo definito con giudicato,
che nella base di calcolo fossero inclusi anche i punti 3, 4 e 5
dell’accordo nazionale 31.5.1981, mentre con successiva domanda egli ha
chiesto anche l’inclusione delle somme relative allo straordinario prestato
in modo fisso e continuativo; erroneamente quindi – ha rilevato la Corte –
il Tribunale, ravvisando una identità di oggetto delle due controversie, ha
affermato la preclusione da giudicato, che riguardava non l’intero
trattamento, ma solo alcune voci. E’ inoltre da rilevare – ha concluso la
Cassazione – che poiché, prima della negazione da parte del debitore, non
sorge l’interesse del creditore (art. 100 c.p.c.) all’azione di accertamento
del credito, non si potrebbe – senza contraddizione – imporre al creditore
medesimo l’onere di esercitare “quando non gli sia stato opposto alcunché
dalla controparte”
un’actio nondum nata al fine di evitare la
preclusione del giudicato: questo si formerebbe su questione non ancora
deducibile e la contraddizione si risolverebbe in una lesione del diritto di
difesa in giudizio, garantito dall’art. 24 co. 2 Cost.
LA MANCATA INFORMAZIONE
DEL SINDACATO DELLA POLIZIA IN MERITO ALLA PROGRAMMAZIONE DELLO
STRAORDINARIO COSTITUISCE COMPORTAMENTO ANTISINDACALE –
Reprimibile in base all’art. 28 St. Lav. (Cassazione Sezione
Lavoro n. 16976 del 11 novembre 2003, Pres. Senese, Rel. Foglia).
Nel 1998 il direttore del Compartimento della Polizia Postale di Napoli ha
proceduto alla programmazione trimestrale del lavoro straordinario, per il
personale in servizio, senza informare preventivamente il SIULP, Sindacato
Italiano Unitario Lavoratori della Polizia di Stato. Il SIULP ha chiesto al
Pretore di Napoli di dichiarare antisindacale questo comportamento, in base
all’art. 28 St. Lav. Il Ministero si è difeso sostenendo che, essendo stati
originariamente concordati con il Sindacato i criteri generali per la
programmazione dello straordinario, non doveva ritenersi necessaria
l’informazione trimestrale in sede applicativa. Il Pretore ha accolto la
domanda e la sua decisione è stata confermata sia nel giudizio di
opposizione, promosso dal Ministero dell’Interno davanti al Tribunale, sia,
in grado di appello. In particolare la Corte d’Appello di Napoli ha
ritenuto che il direttore del compartimento abbia leso reiteratamente il
diritto del sindacato all’informazione preventiva, recando anche danno alla
sua immagine.
La Suprema Corte
(Sezione Lavoro n. 16976 dell’11 novembre 2003, Pres. Senese, Rel. Foglia)
ha rigettato il ricorso del Ministero dell’Interno. Il sistema delle
relazioni sindacali all’interno del Dipartimento della Pubblica Sicurezza,
risultante dal decreto legislativo 12 maggio 1995 n. 195, del D.P.R. 31/7/95
n. 395 e dall’accordo nazionale quadro del 12/6/97 – ha affermato la
Cassazione –comporta precisi obblighi di comportamento, a carico
dell’Amministrazione, obblighi vincolanti di per sé, “indipendentemente dal
risultato concreto cui poi la prestazione richiesta tenda”, in quanto
strettamente funzionali all’esercizio, in concreto, delle competenze e dei
diritti di partecipazione riconosciuti alle rappresentanze sindacali anche
al fine di prevenire conflitti. Trattandosi di istituti tipici di relazioni
sindacali che trovano riconoscimento e promozione anche nella normativa
europea (cfr. segnatamente, la direttiva Cee 12.6.1989, n. 391, art. 11 e la
direttiva Cee 23.11.1993 n. 104, art. 1, c. 4 in materia di orario di
lavoro) in funzione di tutela di interessi primari, quali quelli riguardanti
la salute e la sicurezza dei lavoratori – ha affermato la Corte – appare del
tutto conforme alla rilevanza di tali finalità, conferire una portata
estensiva a tali istituti e, così, riconoscere l’operatività di quelle
competenze sindacali rispettandone la cadenza “trimestrale” già
predeterminata, prescindendo, così, dall’adozione di scelte modificate da
parte dell’Amministrazione datrice di lavoro. Ne consegue – ha concluso la
Corte – che la cadenza trimestrale prescritta non presuppone necessariamente
un’iniziativa innovativa della pubblica amministrazione, se e in quanto,
adottata, in ordine alla programmazione dei turni di straordinario, ma
risponde ad una esigenza di assicurare un confronto sindacale periodico in
funzione di partecipazione e di corresponsabilizzazione delle strutture
sindacali su temi centrali e sempre presenti dell’organizzazione del lavoro
e della tutela di interessi primari dei lavoratori.