IL DIRITTO ALLA TUTELA DELLA PROFESSIONALITA’ DEVE ESSERE RICONOSCIUTO ANCHE A CHI SVOLGE MANSIONI SEMPLICI E RIPETITIVE – In base all’art. 2103 cod. civ.  (Cassazione Sezione Lavoro n. 18984 dell’11 dicembre 2003, Pres. Sciarelli, Rel. Curcuruto).
             Paolo S., dipendente della società Safta con qualifica impiegatizia, ha svolto per cinque anni, sino all’aprile 1995, mansioni di segreteria e archivio consistenti nel fare fotocopie, riordinare documenti, battere a macchina le lettere, raccogliere, protocollare e archiviare documenti provenenti da altre ditte, registrare le ore di lavoro svolte da imprese esterne, effettuare riepiloghi, usare il computer per inserire dati e compilare moduli. Con l’entrata in vigore, nel marzo del 1994, del nuovo contratto collettivo del settore industria chimica, egli è stato collocato nella categoria E, posizione organizzativa 2, profilo impiegati. Nell’aprile del 1995 egli è stato privato delle mansioni in precedenza svolte e destinato al “set up di stampa” con il compito di provvedere ad attività collaterali di preparazione delle macchine che servono a tagliare le bobine di cellophane già prodotte, secondo la misura richiesta dai clienti; le nuove mansioni rientravano nella categoria E, posizione organizzativa 4, profilo operaio, del nuovo contratto collettivo. Egli si è rivolto al Pretore di Piacenza, sostenendo di avere subito un’illegittima dequalificazione e chiedendo che l’azienda fosse condannata a restituirgli le mansioni precedenti ovvero, in subordine, ad assegnargli mansioni equivalenti. Sia il Pretore che, in grado di appello, il Tribunale di Piacenza hanno ritenuto legittimo il cambiamento delle mansioni, escludendo la dequalificazione. Il Tribunale ha affermato che le precedenti mansioni, benché impiegatizie, avevano un carattere routinario, elementare e meramente esecutivo, in nulla dissimile da quello delle nuove; differenziarle da queste ultime, sul piano professionale, avrebbe comportato una considerazione privilegiata del lavoro impiegatizio rispetto a quello operaio, del tutto superata. Paolo ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza del Tribunale di Piacenza per violazione dell’art. 2103 cod. civ., che tutela la professionalità del lavoratore e per difetto di motivazione.
             La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 18984 dell’11 dicembre 2003, Pres. Sciarelli, Rel. Curcuruto) ha accolto il ricorso, ravvisando, nella sentenza impugnata, carenza di esame del profilo soggettivo dell’equivalenza delle mansioni ossia della loro affinità professionale, intesa nel senso che le nuove devono armonizzarsi con le capacità professionali acquisite dall’interessato durante il rapporto lavorativo consentendo ulteriori affinamenti e sviluppi; questo criterio va sempre affiancato al profilo oggettivo ossia alla inclusione nella stessa area professionale e salariale delle mansioni iniziali e di quelle di destinazione. In sostanza – ha osservato la Corte – il giudice d’appello ha ritenuto che due mansioni del medesimo livello contrattuale si equivalgono quando esse siano egualmente semplici; questo assunto confonde però – ed in ciò sta la sua erroneità – la riconducibilità delle diverse mansioni ad un nucleo di professionalità comune o a nuclei diversi ma analoghi, nel che consiste l’essenza della loro equivalenza ai fini dell’art. 2103 c.c., con un predicato quale la semplicità o la elementarità che può esser comune ad attività o compiti molto diversi e professionalmente tutt’altro che affini; l’erroneo presupposto del ragionamento svolto dal giudice di appello ha poi determinato un’assoluta assenza di indagine sul modo in cui la professionalità, non importa se modesta, espressa dallo S. nelle mansioni che si sono già ricordate potesse venire conservata dalle nuove mansioni, all’apparenza assai lontane dalle prime. Conseguentemente – ha affermato la Corte – risulta anche del tutto pretermesso il profilo concernente le eventuali differenze nella possibilità di crescita professionale collegata alle une e alle altre; deve applicarsi, in materia, il principio per cui in materia di equivalenza delle mansioni oltre alla loro inclusione nella stessa area professionale e salariale occorre considerare la loro affinità professionale, intesa quale nucleo di professionalità comune o almeno analogo, tale da rendere possibile l’armonizzazione delle nuove mansioni con le capacità professionali acquisite dall’interessato durante il rapporto lavorativo e consentirne ulteriori affinamenti e sviluppi, non assumendo invece rilievo, di per sé, i comuni caratteri di elementarità o semplicità delle precedenti e delle nuove mansioni. 
 
 

 
L’ADDEBITO DISCIPLINARE DI AVERE INVIATO ALLA DIRIGENZA AZIENDALE MESSAGGI DENIGRATORI DEVE ESSERE CONTESTATO CON IMMEDIATEZZA – Dopo la ricezione della prima lettera (Cassazione Sezione Lavoro n. 19350 del 17 dicembre 2003, Pres. Prestipino, Rel. Balletti).
            Giovanni P., dipendente della s.p.a. Poste Italiane e dirigente del sindacato COBAS P.T. ha inviato al direttore generale per la Lombardia, nel periodo ottobre 1997-gennaio 1998, una serie di lettere, alcune delle quali indirizzate, in copia, alla Procura della Repubblica di Milano, alla Questura e all’Associazione CODACONS (avente ad oggetto la tutela dei consumatori) denunciando e biasimando disfunzioni aziendali. La società Poste Italiane ha aperto nei confronti del sindacalista un procedimento disciplinare, contestandogli, con raccomandata del 15 giugno 1998, di avere con le sue lettere gravemente denigrato la dirigenza aziendale. Dopo l’audizione dell’incolpato la società gli ha applicato, con lettera del 29 luglio 1998, la sanzione disciplinare della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per giorni dieci. Sia il lavoratore che il COBAS si sono rivolti al Tribunale di Milano, sostenendo, il primo, che la sanzione doveva ritenersi tardiva ed ingiusta in quanto diretta a reprimere l’esercizio del diritto di critica e il secondo che il provvedimento aveva natura antisindacale. Il Tribunale di Milano con sentenza del 25 ottobre 1999 ha dichiarato illegittima, anche per antisindacalità, la sanzione applicata a Giovanni P. Questa decisione è stata però integralmente riformata in grado di appello. La Corte ha escluso la tardività del provvedimento disciplinare ed ha ritenuto che Giovanni P. abbia varcato il limite posto dall’ordinamento all’esercizio del diritto di critica, usando un linguaggio offensivo in particolare nella lettera dell’ottobre 1997 e che l’azienda abbia correttamente tutelato la personalità morale del dirigente denigrato. Sia Giovanni P. che il COBAS hanno proposto ricorso per cassazione.
            La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 19350 del 17 dicembre 2003, Pres. Prestipino, Rel. Balletti) ha accolto il ricorso del lavoratore, in quanto ha ritenuto che la Corte d’Appello di Milano abbia erroneamente escluso la violazione dell’art. 7 St. Lav. per tardività della sanzione. Nel caso in esame – ha osservato la Corte – la contestazione disciplinare è avvenuta non immediatamente a ridosso degli accertamenti delle infrazioni addebitate al lavoratore; in particolare l’illecito disciplinare riscontrato nella missiva del 9 ottobre 1997, che secondo i giudici di merito costituisce l’atto più rilevante sotto il profilo della sua portata gravemente denigratoria, risulta essere stata contestata solo a distanza di oltre sette mesi: ritardo sicuramente eccessivo che fa obiettivamente ritenere che la società datrice di lavoro non abbia rispettato il principio dell’immediatezza della contestazione nell’instaurare il procedimento disciplinare; essendo immediatamente percepibile il carattere denigratorio della prima lettera, esso andava immediatamente contestato al lavoratore, senza attendere che egli potesse commettere altre infrazioni del genere; una volta acquisita la certezza dell’esistenza e la gravità dell’infrazione non è consentito rinviarne la contestazione al fine di utilizzare l’eventuale reiterazione dell’illecito come elemento di maggiore gravità da porre a base di una più grave sanzione disciplinare, in quanto ciò comporta anche violazione degli obblighi di correttezza e buona fede previsti dagli artt. 1175 e 1375 cod. civ.
            La Cassazione ha quindi cassato, sul punto, la sentenza della Corte d’Appello di Milano e, decidendo nel merito, ha dichiarato l’illegittimità del provvedimento disciplinare. La Corte ha invece rigettato il ricorso del COBAS tendente a sostenere l’antisindacalità del provvedimento disciplinare in quanto diretto a reprimere l’esercizio del diritto di critica. La Cassazione ha ritenuto che la Corte di Appello di Milano abbia correttamente accertato la portata illecitamente denigratoria delle lettere inviate dal sindacalista. In linea generale – ha affermato la Corte – al lavoratore subordinato è garantito il diritto di critica, anche aspra, nei confronti del datore di lavoro (come deve particolarmente riconoscersi nel caso in cui un sindacalista si esprima sulla funzionalità del servizio espletato dall’impresa), ma ciò non consente di ledere sul piano morale l’immagine del proprio datore di lavoro con riferimento a fatti non oggettivamente certi e comprovati, poiché il principio delle libertà di manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 Cost. incontra i limiti posti dall’ordinamento a tutela dei diritti e delle libertà altrui e deve essere coordinato con altri interessi degni di pari tutela costituzionale (cfr. Cass. 7884/1997, Cass. 4952/1998, Cass. 10511/1998, Cass. 7091/2001: decisioni queste riferite alla più grave sanzione del licenziamento per giusta causa rispetto a quella “conservativa” irrogata nella specie).
            Proprio in relazione ai limiti insiti al diritto di critica riconosciuto al lavoratore-sindacalista – che, sebbene sia garantita dagli artt. 21 e 39 della Costituzione, incontra, appunto, limiti della correttezza formale che sono imposti dall’esigenza anch’essa costituzionalmente garantita (art. 2 Cost.) di tutela della persona umana – ne consegue che, ove tali limiti siano superati con l’attribuzione all’impresa datoriale o ai suoi dirigenti di qualità apertamente disonorevoli o di riferimenti denigratori non provati, il comportamento del lavoratore possa essere legittimamente sanzionato in via disciplinare

 
L’IMPRENDITORE E’ TENUTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO PER INFORTUNI SUL LAVORO ANCHE SE L’INSTALLAZIONE DEI DISPOSITIVI DI SICUREZZA SIA STATA DA LUI AFFIDATA AD ALTRA IMPRESA – Il dipendente deve essere informato e controllato (Cassazione Sezione Lavoro n. 18603 del 5 dicembre 2003, Pres. Sciarelli, Rel. Vidiri).
            Angelo B., dipendente della società Tecnolifts, ha subito un infortunio mentre stava montando l’impianto elettrico di un ascensore. Egli ha chiesto al Giudice del Lavoro di Brescia la condanna dell’azienda al risarcimento del danno biologico e morale. L’azienda si è difesa sostenendo che l’infortunio si era verificato perché il lavoratore aveva operato stando sul tetto anziché all’interno della cabina e che comunque essa non poteva essere ritenuta responsabile della mancanza dell’apparato di fermo corsa, in quanto aveva incaricato un’altra ditta di provvedere alla sua installazione. Il Tribunale di Brescia ha condannato l’azienda al risarcimento del danno, ma la sua decisione è stata integralmente riformata dalla Corte d’Appello che ha escluso la responsabilità della Tecnolifts per l’infortunio, in quanto ha ritenuto che l’installazione del “fermo corsa” fosse a carico della ditta cui tale compito era stato affidato e che il lavoratore avrebbe dovuto verificare se questo congegno fosse in opera. Angelo B. ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione impugnata per difetto di motivazione e violazione di legge.
            La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 18603 del 5 dicembre 2003, Pres. Sciarelli, Rel. Vidiri) ha accolto il ricorso. Le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l’insorgenza di situazioni pericolose – ha affermato la Cassazione – sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, per cui ne consegue che il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia allorquando ometta di adottare le idonee misure protettive sia allorquando non accerti e vigili che di queste misura venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente per l’imprenditore – allorquando si sia verificato un infortunio sul lavoro per violazione delle relative prescrizioni protettive – al concorso di colpa del lavoratore. La condotta del dipendente può, infatti, comportare l’esonero totale del datore di lavoro da responsabilità solo quando essa presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell’aticipità ed  eccezionalità, così da porsi come causa esclusiva dell’evento.
            Nel caso di specie – ha osservato la Cassazione – la Corte d’appello di Brescia, nel riformare la decisione del primo giudice e nel rigettare la domanda del lavoratore, ha considerato quest’ultimo unico responsabile dell’infortunio occorsogli; in tal modo non ha tenuto in alcun conto delle norme antinfortunistiche e, segnatamente, dell’art. 4, lettera b), e dell’art. 5, ultimo comma, del d. P.R. 27 aprile 1955 n. 547, che prescrivono rispettivamente che il datore di lavoro deve rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui essi sono esposti nell’espletamento della loro attività e che i macchinari ed attrezzi di sua proprietà che siano usati dal lavoratore siano muniti di dispositivi di sicurezza. La Cassazione ha anche ritenuto che la Corte d’Appello di Brescia sia incorsa in errore attribuendo rilevanza alla circostanza che l’installazione del “fermo corsa” fosse stata affidata ad un’impresa terza.
            Nel contesto attuale – ha osservato la Suprema Corte – è sempre più frequente il c.d. “processo di esternalizzazione” in base al quale le imprese spesso si affidano per l’esecuzione di opere essenziali per l’esercizio della loro attività produttiva, ad imprese terze e a dette imprese affidano anche fasi e parti significative del processo produttivo, soprattutto quando questo risulti articolato, complesso ma nello stesso tempo agevolmente scindibile; le opere commissionate o, più in generale, affidate a vario titolo (ad esempio attraverso appalti o contratti d’opera) a soggetti esterni costituiscono peraltro una fase dell’intero processo produttivo dell’impresa che commissiona detti lavori. Corollario di tutto ciò – ha affermato la Corte – è che il datore di lavoro, quale responsabile dell’intero processo produttivo, deve accertare, prima di disporre la continuazione dell’attività lavorativa da parte dei propri dipendenti, se la condotta dei soggetti cui ha affidato l’esecuzione di una fase della produzione sia – in ragione di colpose inadempienze, di censurabili negligenze o anche per meri fatti oggettivi - fonte di pericolo per i lavoratori. Solo attraverso tale accertamento - di particolare rilevanza proprio allorquando le opere affidate a terzi attengano all’apprestamento di misure necessarie per la messa in sicurezza di tutte le fasi lavorative - il datore di lavoro deve assolvere all’obbligo su di esso gravante di rendere edotti i propri dipendenti “dei rischi specifici cui essi sono esposti”. L’imprenditore – ha concluso la Corte – potrà ritenersi esentato dalla responsabilità al riguardo solo ove provi di avere adempiuto al suddetto obbligo informativo e di avere anche dotato i propri dipendenti, così come voluto dall’art. 5, ultimo comma, del d.P.R. n. 547/1955, dei dispositivi di sicurezza necessari in presenza di situazioni di pericolo che, comunque, si presentino

 
Il divieto di retroattività della legge non ha portata generale – Esso è limitato alle norme penali – Secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, il divieto di retroattività della legge – pur costituendo fondamentale valore di civiltà giuridica e principio generale dell’ordinamento, cui il legislatore deve attenersi in linea generale – non è stato tuttavia elevato a dignità costituzionale, se si eccettua la previsione dell’art. 25 Cost., limitatamente alla legge penale; il legislatore ordinario, pertanto, nel rispetto del suddetto limite, può emanare norme con efficacia retroattiva, interpretative o innovative che esse siano, a condizione che la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si ponga in contrasto con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti (Cassazione Sezione Lavoro n. 18486 del 3 dicembre 2003, Pres. Senese, Rel. Morcavallo

IL LAVORATORE PUO’ PROMUOVERE PIU’ GIUDIZI PER OTTENERE L’INCLUSIONE NEL T.F.R. DI DIFFERENTI ELEMENTI DELLA RETRIBUZIONE – Non si verifica la preclusione da giudicato (Cassazione Sezione Lavoro n. 17754 del 21 novembre 2003, Pres. Mattone, Rel. Figurelli).
           Lucio T., dipendente dell’Azienda consortile trasporti pubblici di Napoli ha ottenuto, con un primo giudizio promosso davanti al Pretore di Napoli l’accertamento del suo diritto all’inclusione, nel trattamento di fine rapporto maturato alla data del 31 maggio 1982, di un’indennità prevista dalla contrattazione aziendale (accordo del 31/5/81). La sentenza è passata in giudicato. Successivamente il lavoratore ha promosso un altro giudizio diretto ad ottenere l’inclusione nel t.f.r., maturato alla data del 31 maggio 1982, del compenso per lavoro straordinario continuativamente percepito. Nel secondo giudizio l’azienda ha eccepito la preclusione da giudicato, sostenendo che il lavoratore avrebbe dovuto proporre, nel primo giudizio, anche la domanda relativa all’inclusione nel t.f.r. del compenso per lavoro straordinario e che la sentenza passata in giudicato aveva definitivamente stabilito la composizione del t.f.r. Sia il Pretore che, in grado di appello, il Tribunale di Napoli hanno ritenuto fondata l’eccezione sollevata dall’azienda e conseguentemente hanno escluso la proponibilità della domanda avanzata dal lavoratore. Questi ha proposto ricorso per cassazione per difetto di motivazione e violazione di legge.
           La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 17754 del 21 novembre 2003, Pres. Mattone, Rel. Figurelli) ha accolto il ricorso. E’ stato accertato in causa – ha osservato la Corte – che il T., ottenne con la sentenza poi passata in giudicato, il riconoscimento del diritto all’integrazione del T.F.R. mediante il computo di alcune componenti della retribuzione previste dall’accordo del 31.5.1981. Ciò posto, si è realizzata nella specie l’ipotesi dell’accertamento della necessità di includere una o più voci nella base di calcolo del T.F.R., prescindendo dall’accertamento del relativo ammontare, sempreché il datore di lavoro contesti quella necessità; in tal caso la limitazione del petitum si riflette sulla limitata estensione del giudicato, il quale non preclude una successiva domanda di corresponsione dell’anticipazione o del trattamento definitivo, che si riferisce ad altre voci retributive. All’obiezione che una tale limitazione del petitum e dei confini del giudicato può risolversi in una moltiplicazione di controversie e in un aggravio di spese e di attività giudiziaria per il datore di lavoro, vale a dire in una violazione delle norme di buona fede e correttezza che impongono al creditore di non aggravare inutilmente la posizione del debitore (artt. 1175 e 1375 c.c.) – ha affermato la Corte – deve rispondersi che il datore di lavoro può evitare gli effetti sfavorevoli chiedendo a sua volta un accertamento dell’intera base di calcolo, ossia del trattamento già maturato. Nella specie, è stato accertato dagli atti di causa che il lavoratore aveva chiesto – in costanza di rapporto di lavoro – in un precedente processo definito con giudicato, che nella base di calcolo fossero inclusi anche i punti 3, 4 e 5 dell’accordo nazionale 31.5.1981, mentre con successiva domanda egli ha chiesto anche l’inclusione delle somme relative allo straordinario prestato in modo fisso e continuativo; erroneamente quindi – ha rilevato la Corte – il Tribunale, ravvisando una identità di oggetto delle due controversie, ha affermato la preclusione da giudicato, che riguardava non l’intero trattamento, ma solo alcune voci. E’ inoltre da rilevare – ha concluso la Cassazione – che poiché, prima della negazione da parte del debitore, non sorge l’interesse del creditore (art. 100 c.p.c.) all’azione di accertamento del credito, non si potrebbe – senza contraddizione – imporre al creditore medesimo l’onere di esercitare “quando non gli sia stato opposto alcunché dalla controparte” un’actio nondum nata al fine di evitare la preclusione del giudicato: questo si formerebbe su questione non ancora deducibile e la contraddizione si risolverebbe in una lesione del diritto di difesa in giudizio, garantito dall’art. 24 co. 2 Cost.
 

LA MANCATA INFORMAZIONE DEL SINDACATO DELLA POLIZIA IN MERITO ALLA PROGRAMMAZIONE DELLO STRAORDINARIO COSTITUISCE COMPORTAMENTO ANTISINDACALE – Reprimibile in base all’art. 28 St. Lav. (Cassazione Sezione Lavoro n. 16976 del 11 novembre 2003, Pres. Senese,  Rel. Foglia).
           Nel 1998 il direttore del Compartimento della Polizia Postale di Napoli ha proceduto alla programmazione trimestrale del lavoro straordinario, per il personale in servizio, senza informare preventivamente il SIULP, Sindacato Italiano Unitario Lavoratori della Polizia di Stato. Il SIULP ha chiesto al Pretore di Napoli di dichiarare antisindacale questo comportamento, in base all’art. 28 St. Lav. Il Ministero si è difeso sostenendo che, essendo stati originariamente concordati con il Sindacato i criteri generali per la programmazione dello straordinario, non doveva ritenersi necessaria l’informazione trimestrale in sede applicativa.  Il Pretore ha accolto la domanda e la sua decisione è stata confermata sia nel giudizio di opposizione, promosso dal Ministero dell’Interno davanti al Tribunale, sia, in grado di appello.  In particolare la Corte d’Appello di Napoli ha ritenuto che il direttore del compartimento abbia leso reiteratamente il diritto del sindacato all’informazione preventiva, recando anche danno alla sua immagine.
           La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 16976 dell’11 novembre 2003, Pres. Senese, Rel. Foglia) ha rigettato il ricorso del Ministero dell’Interno. Il sistema delle relazioni sindacali all’interno del Dipartimento della Pubblica Sicurezza, risultante dal decreto legislativo 12 maggio 1995 n. 195, del D.P.R. 31/7/95 n. 395 e dall’accordo nazionale quadro del 12/6/97 – ha affermato la Cassazione –comporta precisi obblighi di comportamento, a carico dell’Amministrazione, obblighi vincolanti di per sé, “indipendentemente dal risultato concreto cui poi la prestazione richiesta tenda”, in quanto strettamente funzionali all’esercizio, in concreto, delle competenze e dei diritti di partecipazione riconosciuti alle rappresentanze sindacali anche al fine di prevenire conflitti. Trattandosi di istituti tipici di relazioni sindacali che trovano riconoscimento e promozione anche nella normativa europea (cfr. segnatamente, la direttiva Cee 12.6.1989, n. 391, art. 11 e la direttiva Cee 23.11.1993 n. 104, art. 1, c. 4 in materia di orario di lavoro) in funzione di tutela di interessi primari, quali quelli riguardanti la salute e la sicurezza dei lavoratori – ha affermato la Corte – appare del tutto conforme alla rilevanza di tali finalità, conferire una portata estensiva a tali istituti e, così, riconoscere l’operatività di quelle competenze sindacali rispettandone la cadenza “trimestrale” già predeterminata, prescindendo, così, dall’adozione di scelte modificate da parte dell’Amministrazione datrice di lavoro. Ne consegue – ha concluso la Corte – che la cadenza trimestrale prescritta non presuppone necessariamente un’iniziativa innovativa della pubblica amministrazione, se e in quanto, adottata, in ordine alla programmazione dei turni di straordinario, ma risponde ad una esigenza di assicurare un confronto sindacale periodico in funzione di partecipazione e di corresponsabilizzazione delle strutture sindacali su temi centrali e sempre presenti dell’organizzazione del lavoro e della tutela di interessi primari dei lavoratori.