IL DIPENDENTE COLPITO DA SINDROME ANSIOSA DEPRESSIVA PER EFFETTO DI UN ILLEGITTIMO LICENZIAMENTO HA DIRITTO AL RISARCIMENTO DELL’INTERO DANNO SUBITO, ANCHE SE FISICAMENTE PREDISPOSTO ALLA MALATTIA – La concausa naturale non riduce la responsabilità del datore di lavoro (Cassazione Sezione Lavoro n. 5539 del 9 aprile 2003, Pres. Sciarelli, Rel. Vidiri).
         Rosario M., dipendente della s.p.a. SDA Express Courier, operante nel settore delle spedizioni, si è rivolto al Pretore di Genova, nel maggio 1995, sostenendo di avere subito una dequalificazione, con l’assegnazione di mansioni inferiori a quelle previste dalla lettera di assunzione e di fatto svolte. Egli ha chiesto la reintegrazione nelle mansioni spettantigli e l’inquadramento in un livello superiore a quello riconosciutogli. Con un secondo ricorso al Pretore di Genova, depositato nel novembre 1995 egli ha fatto presente di essere stato colpito, a causa del demansionamento, da una grave crisi depressiva che aveva reso necessaria una pesantissima terapia farmacologia e di essere stato licenziato, durante la malattia. Pertanto egli ha chiesto l’annullamento del licenziamento e la condanna dell’azienda al risarcimento del danno biologico causatogli dal trattamento praticatogli dalla datrice di lavoro. Sia in primo grado che in appello, il licenziamento è stato ritenuto illegittimo, con conseguente condanna dell’azienda alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un importo pari alla retribuzione maturata; è stato inoltre affermato il diritto del lavoratore al risarcimento del danno biologico. In base ai risultati di una consulenza tecnica, il Tribunale di Genova, in grado di appello, ha determinato il danno alla salute subito dal lavoratore (per sindrome ansiosa depressiva e per obesità) in misura del 50% di invalidità. Il Tribunale ha però ritenuto che l’invalidità fosse riconducibile in parte alla predisposizione fisica del soggetto; pertanto, pur quantificando il danno complessivo da invalidità in lire 348.500.000 (in ragione di lire 8.500.000 per ciascun punto di invalidità, con applicazione del coefficiente 0,820 per l’età del lavoratore, trentasettenne), ha posto a carico dell’azienda solo il 50% di tale importo, in considerazione dell’accertata predisposizione fisica del dipendente alla malattia. Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza del Tribunale di Genova per non avere posto a carico dell’azienda l’intero importo del risarcimento del danno biologico da lui subito.
         La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 5539 del 9 aprile 2003, Pres. Sciarelli, Rel. Vidiri) ha accolto il ricorso, richiamando la sua giurisprudenza secondo cui, se sussiste un nesso causale fra una causa umana imputabile e l’evento dannoso, l’esistenza di una concausa naturale non imputabile non comporta un parziale esonero di responsabilità per l’autore del fatto illecito; quest’ultimo deve essere pertanto ritenuto responsabile per l’intero dei danni subiti dalla vittima, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile. In base a questi principi, ha affermato la Corte, il Tribunale di Genova avrebbe dovuto, invece, porre a carico delle società la totalità dei danni cagionati al lavoratore in ragione dell’accertato concorso nella fattispecie in esame tra causa imputabile, appunto, all’azienda, (provvedimenti di illegittima dequalificazione e, soprattutto, di illegittimo licenziamento) e causa (predisposizione organica e infermità pregresse) non imputabile al lavoratore, destinata come ogni causa naturale a non concorrere nella determinazione dei danni, da addossare nella loro totalità all’autore della condotta imputabile.
 

 
IL TEMPO IMPIEGATO PER RAGGIUNGERE IL LUOGO DI LAVORO RIENTRA NELL’ATTIVITA’ LAVORATIVA VERA E PROPRIA QUANDO SIA FUNZIONALE ALLA PRESTAZIONE – Come avviene quando, dopo essersi presentato in azienda, il dipendente viene inviato in altra località (Cassazione Sezione Lavoro n. 5775 dell’11 aprile 2003, Pres. Mileo, Rel. Guglielmucci).
         Maurizio M. ha lavorato alle dipendenze della Cooperativa Tartufai del Candigliano s.r.l. con mansioni di operaio addetto in particolare al taglio dei boschi. Egli iniziava la sua normale giornata lavorativa presentandosi in azienda e poi recandosi, insieme ai colleghi, sul luogo delle operazioni, mediante un pulmino da lui guidato. L’azienda non ha calcolato nell’orario di lavoro il tempo da lui impiegato per recarsi nelle località di volta in volta indicategli e per rientrare. Egli ha promosso un giudizio davanti al Pretore di Urbino chiedendo, tra l’altro, la condanna dell’azienda a retribuirgli come lavoro straordinario il tempo impiegato per recarsi sul luogo delle operazioni e per rientrarne. Sia il Pretore che, in grado di appello, il Tribunale di Urbino hanno ritenuto questa domanda priva di fondamento, affermando che Maurizio M. aveva diritto soltanto alla retribuzione relativa alle otto ore giornaliere di lavoro svolto nelle località indicategli.
          La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 5775 dell’11 aprile 2003, Pres. Mileo, Rel. Guglielmucci) ha accolto il ricorso del lavoratore. Il tempo impiegato per raggiungere il luogo di lavoro - ha affermato la Corte - rientra nell’attività lavorativa vera e propria - e va quindi sommato al normale orario di lavoro come straordinario - allorché sia funzionale rispetto alla prestazione; in particolare sussiste il carattere di funzionalità nel caso in cui il dipendente, obbligato a presentarsi presso la sede aziendale, sia, come nel caso di specie, di volta in volta inviato in diverso località per svolgere la sua prestazione lavorativa
 

 
 
Per il lavoro prestato nel settimo giorno consecutivo, senza concessione del riposo, il lavoratore ha diritto a una maggiorazione retributiva – Può inoltre ottenere il risarcimento del danno biologico, di cui deve dare la prova – La mancata concessione del riposo settimanale con definitiva perdita dello stesso da parte del lavoratore è illecita, contrastando (oltre che con l’art. 2109 cod. civ.) con l’art. 36 terzo comma Cost.; per la prestazione lavorativa oltre il sesto giorno consecutivo spetta, in relazione al principio di cui all’art. 36 primo comma Cost., una maggiore remunerazione, in considerazione della sua superiore gravosità. Ove il lavoratore richieda, in relazione alle indicate modalità della sua prestazione, anche il risarcimento del danno per la lesione del diritto alla salute, consistente in un’alterazione della sua integrità psicofisica, è tenuto ad allegare e provare il pregiudizio del suo diritto fondamentale, nei suoi caratteri naturalistici e nella sua dipendenza causale dalla violazione dei diritti di cui all’art. 36 Cost. (Cassazione Sezione Lavoro n. 5207 del 3 aprile 2003, Pres. Mattone, Rel. Miani Canevari).

 

IN CASO DI SEPARAZIONE CONSENSUALE GLI ASSEGNI FAMILIARI PER IL FIGLIO SPETTANO PER LEGGE AL CONIUGE AFFIDATARIO – Anche se siano percepiti dall’altro coniuge, che è tenuto a trasferirli (Cassazione Sezione Prima Civile n. 5060 del 2 aprile 2003, Pres. Greco, Rel. Giuliani).
In base all’art. 211 della legge n. 151 del 1975, è il coniuge cui sono affidati i figli che ha diritto di percepire gli assegni familiari per loro. Tali assegni spettano, quindi, al coniuge affidatario, in forza della legge e non già in base alle convenzioni stipulate tra le parti in sede di separazione consensuale. Il marito è, perciò, tenuto a corrispondere gli assegni familiari non come suo contributo al mantenimento dei figli, ma perché non fanno parte del suo reddito, bensì di quello della moglie. In materia deve applicarsi il principio secondo il quale il coniuge affidatario del figlio minorenne ha diritto di percepire gli assegni familiari corrisposti per tale figlio all’altro coniuge in funzione di un rapporto di lavoro subordinato di cui questi sia parte, indipendentemente da quanto il coniuge non affidatario debba dare come proprio contributo fissato in sede di accordi per separazione consensuale omologata. Eventuali diverse pattuizioni devono essere stabilite espressamente in tali accordi.
 
 

 
IL DIRITTO AI RIPOSI GIORNALIERI SPETTA AI GENITORI ADOTTIVI NEL PERIODO DI UN ANNO DALL’INGRESSO DEL MINORE NELLA FAMIGLIA – Anche quando il bambino ha più di un anno di età (Corte Costituzionale n. 104 del 1 aprile 2003, Pres. Chieppa, Red. Amirante).
          Giovanni B., dopo avere adottato un bambino, ha chiesto al datore di lavoro il riconoscimento del suo diritto di fruire entro l’anno dall’ingresso del minore nella famiglia, dei riposi giornalieri previsti dall’art. 45 del decreto legislativo 26 marzo 2001 n. 151 per i lavoratori che divengano padri o madri, naturali o adottivi.
          Poiché l’azienda e l’INPS non hanno accolto la sua domanda egli ha chiesto al giudice del lavoro del Tribunale di Ivrea di disporre in via d’urgenza il riconoscimento del suo diritto. Il giudice ha accolto la domanda, in base all’art. 700 cod. proc. civ. L’azienda e l’INPS hanno proposto reclamo, facendo presente che la legge consente la fruizione dei riposi giornalieri entro l’anno dalla nascita del minore, mentre in questo caso il bambino adottato aveva più di un anno d’età. Il Tribunale di Ivrea, in composizione collegiale, ha sollevato la questione di illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3 Cost. (principio di eguaglianza) dell’art. 45 del decreto legislativo n. 151 del 2001 nella parte in cui ha stabilito per i genitori adottivi lo stesso limite temporale previsto per i genitori naturali per l’esercizio del diritto ai permessi giornalieri.
          La Corte Costituzionale (sentenza n. 104 del 1 aprile 2003, Pres. Chieppa, Red. Amirante) ha dichiarato fondata la questione per contrasto della norma impugnata con l’art. 3 Cost. sia sotto il profilo dell’eguaglianza, poiché essa assoggetta a eguale trattamento situazioni diverse, sia sotto quello dell’intrinseca ragionevolezza.I riposi giornalieri – ha osservato la Corte – una volta venuto meno il nesso esclusivo con le esigenze fisiologiche del bambino, hanno la funzione di soddisfare i suoi bisogni affettivi e relazionali al fine dell’armonico e sereno sviluppo della sua personalità. Essi, pertanto, svolgono una funzione omogenea a quella che assolvono i congedi e, più specificamente, i congedi parentali. Ora, per questi il legislatore ha ritenuto rilevante, in caso di adozione o di affidamento, il momento dell’ingresso del minore nella famiglia, considerando l’età del minore, peraltro diversamente disciplinata a seconda delle varie ipotesi di adozioni o affidamenti, esclusivamente come un limite alla fruizione dei benefici. Ne consegue – ha affermato la Corte – che restringere il diritto ai riposi per gli adottanti e gli affidatari al primo anno di vita del bambino non soltanto è intrinsecamente irragionevole, ma è anche in contrasto con il principio di eguaglianza, perché l’applicazione agli adottanti ed agli affidatari della stessa formale disciplina prevista per i genitori naturali finisce per imporre ai primi ed ai minori adottati o affidati un trattamento deteriore, attesa la peculiarità della loro situazione.
          Pertanto la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 45, comma 1, del decreto legislativo 26 marzo 2001 n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui prevede che i riposi di cui agli artt. 39, 40 e 41 si applichino, anche in caso di adozione e di affidamento, «entro il primo anno di vita del bambino» anziché «entro il primo anno dall’ingresso del minore nella famiglia».
 

Il dipendente può contestare le note di qualifica in base alle quali non gli sia stato attribuito un premio di rendimento previsto dal contratto collettivo – In materia il potere del datore di lavoro deve essere esercitato secondo correttezza e buona fede – Secondo il consolidato indirizzo della Suprema Corte, le valutazioni del datore di lavoro concernenti le note di qualifica dei dipendenti non sono insindacabili, restando il datore di lavoro soggetto ai limiti posti da eventuali criteri obiettivi previsti dal contratto collettivo e soprattutto agli obblighi di correttezza e buona fede, con l’onere di motivare le suddette note al fine di consentire al giudice il sindacato in ordine all’eventuale sussistenza di intenti discriminatori o di ritorsione ovvero di motivi illeciti. Da questa premessa si deve trarre la conclusione che la clausola di contrattazione collettiva, che prevede la corresponsione di un premio di rendimento ai dipendenti che abbiano conseguito una determinata qualifica non sancisce un potere soggettivo insindacabile del datore di lavoro, potendo il dipendente, cui tale premio sia negato per il mancato conseguimento della nota di qualifica necessaria, contestare la motivazione e quindi la legittimità di quest’ultima. Ove vengano contestate le note di qualifica, il lavoratore ha l’onere di dedurre che la valutazione corretta avrebbe comportato l’attribuzione del beneficio, mentre la prova dell’esistenza di  cause ostative non può che risalire al datore di lavoro (Cassazione Sezione Lavoro n. 4276 del 24 marzo 2003, Pres. Mileo, Rel. D’Agostino).
 

LA GIURISDIZIONE DEL GIUDICE ORDINARIO IN MATERIA DI PUBBLICO IMPIEGO NON SI ESTENDE AI PROVVEDIMENTI CHE STABILISCONO LE LINEE FONDAMENTALI DI ORGANIZZAZIONE DEGLI UFFICI Vanno impugnati  davanti ai Tribunali Amministrativi Regionali (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 6220 del 17 aprile 2003, Pres. Delli Priscoli, Rel. Napoletano).
         Il legislatore ha attribuito alle amministrazioni pubbliche, con i decreti legislativi n. 29 del 1993 e n. 165 del 2001 il potere di definire, sulla base dei principi generali fissati dalla legge, le linee fondamentali di organizzazione degli uffici. Il sindacato sui relativi provvedimenti non rientra nella giurisdizione attribuita al giudice ordinario in materia di rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici. Questa giurisdizione invero, avendo ad oggetto le controversie riguardanti direttamente il rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, non può estendersi agli atti amministrativi concernenti le linee e i principi fondamentali della organizzazione degli uffici, nel cui quadro i rapporti di lavoro si costituiscono e si svolgono. Questi atti, aventi uno scopo esclusivamente pubblicistico, possono essere impugnati soltanto davanti al giudice amministrativo.
 

 
 
Data: 27/04/2003
Notizia inserita da: Adnkronos

 
Cassazione: depressione da lavoro? Si' al maxi risarcimento

Depressione da lavoro? Il lavoratore ha diritto ad un maxi risarcimento, anche se e' predisposto per natura a crisi depressive. Lo ha stabilito la Cassazione che ha accolto il ricorso di Rosario M., un impiegato di un'azienda genovese che era caduto in una profonda sindrome ansioso-depressiva dopo di essere stato dequalificato. Per i giudici di piazza Cavour se il lavoratore cade in depressione, il datore di lavoro e' tenuto a risarcirlo al 100% in nome degli obblighi di ''tutela della salute''


Data: 24/04/2003
Notizia inserita da: Adnkronos

 
Cassazione: vietato 'vaffa', ingiuria anche senza gesto osceno. Basta la parola per far scattare la condanna

Attenzione a mandare a quel paese qualcuno con un 'vaffa...'. Potreste ritrovarvi con una condanna penale per ingiuria. E questo anche se l'epiteto non e' accompagnato da un conseguente gesto osceno. Parola di Cassazione che ha confermato la condanna per ingiuria a Ottavio G., un 62enne di Ancona, 'reo' di aver infierito per strada su un passante, apostrofandolo con un 'vaffa...' con tanto di gesto osceno. Per la Suprema Corte il termine e' cosi' disdicevole che puo' bastare la dichiarazione della parte offesa per fare scattare la condanna.


 
Data: 28/04/2003
Notizia inserita da: Adnkronos

 
Cassazione: lavoratore invalido? Puo' essere licenziato

Il lavoratore invalido puo' essere legittimamente licenziato. La decisione non dovra' essere considerata contraria ai ''principi costituzionali''. Se infatti la sua prestazione diventa parzialmente impossibile, il datore di lavoro ''non e' tenuto a mantenerlo in servizio, modificando l'assetto organizzativo'' per assegnargli ''mansioni compatibili con le sue residue e inferiori capacita' lavorative''. Lo ha stabilito la Cassazione che ha respinto il ricorso di Giovanni C., un dipendente Nato con mansioni di aiutante di cucina nel Quartier Generale Regionale delle Forze Alleate del Sud Europa, che da un giorno all'altro si era visto licenziare perche' le sue condizioni di salute non gli consentivano piu' di svolgere le mansioni in precedenza occupate.


 


 
Tutela dei non fumatori: nuove misure restrittive per i luoghi pubblici e di lavoro

Lo scorso 18 aprile, a tre mesi dal varo della Legge antifumo n. 3 del 16/1/03, il Consiglio dei Ministri ha approvato il regolamento applicativo dell’articolo 51, comma 2, dettando le regole per l’individuazione e le caratteristiche dei locali riservati ai fumatori, nonché le caratteristiche degli impianti di ventilazione. In particolare, il provvedimento stabilisce che dovranno essere realizzati spazi destinati esclusivamente ai fumatori e i ristoranti dovranno alzare pareti per dividere i locali dove non si può fumare da quelli con libertà di fumo. Inoltre, i locali dove si potrà fumare dovranno essere esplicitamente contrassegnati e separati con pareti da quelli dove la sigaretta è off limits. Se ciò non è possibile, sia nei ristoranti che negli uffici, il divieto di fumo sarà assoluto. E ancora. Si stabilisce che per i ristoranti lo spazio destinato ai fumatori dovrà obbligatoriamente essere inferiore alla metà della superficie complessiva del locale e per tali aree vengono fissati i requisiti essenziali dei mezzi di ventilazione, che dovranno garantire una quantità di aria supplementare minima di 22 litri/secondo per ogni persona potenzialmente ospitabile nel locale, in base ad un indice di affollamento di 0,7 persone ogni metro quadrato. Sono infine previsti speciali cartelli luminosi per contrassegnare le aree per fumatori, nonché per indicare il divieto di fumo in caso di guasto dell’impianto di ventilazione. Il provvedimento deve ora ricevere il parere del Consiglio di Stato e della Conferenza permanente per i rapporti tra Stato, Regioni e Province unificata con la Conferenza Stato, città.


 


 
Privacy: diffusione di foto segnaletiche solo per fini di giustizia o di polizia

Il Garante per la protezione dei dati personali (newsletter 7/13 aprile 2003) ha ribadito che non è consentita la pubblicazione sui giornali o la trasmissione sulle reti televisive di immagini di persone in manette. L’Autorità ha inoltre precisato che, tenendo conto delle finalità di accertamento, prevenzione e repressione dei reati e nel pieno rispetto dei diritti e della dignità degli interessati, le foto segnaletiche possono essere diffuse, durante una conferenza stampa, solo se ricorrono fini di giustizia e di polizia o motivi di interesse pubblico. Fuori da questi casi, la diffusione deve ritenersi vietata.