L’ordine di lasciare il territorio nazionale emesso da un Questore nei confronti di un cittadino straniero non può essere impugnato con ricorso in Cassazione – L’art. 111 della Costituzione non lo consente - L’ordine emesso da un Questore, nei confronti di uno straniero, di lasciare il territorio nazionale entro cinque giorni a seguito dell’espulsione disposta dal Prefetto, non può essere impugnato con ricorso alla Corte di Cassazione. Invero l’art. 111 della Costituzione, modificato dall’art. 1 della legge costituzionale 23 gennaio 1999 n. 2, nel sancire che contro le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari e speciali è sempre ammesso il ricorso in Cassazione per violazione di legge, non prevede tale potere per gli atti amministrativi. Questi non possono pertanto essere oggetto di impugnativa in Cassazione (Cassazione Sezione Prima Civile n. 10983 del 10 giugno 2004, Pres. Losavio, Rel. Forte).

 
Il danno da dequalificazione può manifestarsi sotto vari aspetti, tra cui l’impoverimento e il mancato sviluppo della capacità professionale, la perdita di chances, la lesione del diritto alla salute, all’immagine e alla vita di relazione – Il risarcimento può essere determinato in via equitativa – Il pregiudizio derivante al lavoratore dalla dequalificazione professionale, per assegnazione di mansioni inferiori a quelle spettantigli con conseguente violazione dell’art. 2103 cod. civ. può assumere aspetti diversi. Esso può infatti consistere sia nel danno patrimoniale derivante dall’impoverimento della capacità professionale e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, sia nel pregiudizio subito per perdita di chances, ossia di ulteriori possibilità di guadagno, sia in una lesione del diritto all’integrità fisica o, più in generale, alla salute ovvero all’immagine o alla vita di relazione. Ogni accertamento in proposito è riservato al giudice di merito che, ai fini della determinazione del risarcimento, può fare ricorso alla valutazione equitativa.
         L’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli articoli 1226 e 2056 cod. civ., quale espressione del più generale potere di cui all’art. 115 cod. proc. civ., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma un giudizio di diritto, caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva o integrativa (Cassazione Sezione Lavoro n.  11045 del 10 giugno 2004, Pres. Ciciretti, Rel. De Luca).
 

Il lavoratore licenziato che ottenga dal giudice l’annullamento del licenziamento può essere sottoposto a procedimento disciplinare per fatti accaduti nel periodo di interruzione del rapporto precedente la sentenza – Tranne che per l’attività lavorativa svolta altrove al fine di reperire fonti di sostentamento - Il lavoratore che impugni il licenziamento e che esprima con ciò la volontà di riprendere a collaborare nell’impresa, ha un onere di coerenza che affonda le sue radici nel principio di identità con tale volontà. Con la sua impugnazione, dà inizio a un procedimento diretto alla ricostituzione del rapporto; nell’attesa della decisione giudiziale, non può compiere atti contrari al suo obiettivo, che non è solo la ricostituzione del rapporto, ma anche l’efficacia della ricostituzione, implicita nella domanda secondo legge, dal momento della cessazione, con ripresa de jure del rapporto come mai interrotto, e quindi anche con la persistenza, richiesta dallo stesso lavoratore ricorrente, dei propri obblighi, ex tunc, e cioè anche per il periodo nel quale sono compresi i comportamenti in discussione.
           Pertanto ove il licenziamento sia annullato, il lavoratore può essere sottoposto a procedimento disciplinare per illeciti extracontrattuali o per inadempimenti commessi nel periodo intercorrente fra il recesso e la sentenza di annullamento. Devono applicarsi in materia i seguenti principi di diritto: “In tema di rilevanza disciplinare dei comportamenti posti in essere dal lavoratore dopo la cessazione del rapporto, ove questa sia impugnata ed il rapporto ricostituito jussu judicis, si deve distinguere tra gli obblighi scaturenti dal sinallagma contrattuale, ed i doveri extracontrattuali, derivanti dall’art. 2043 cod. civ., o da norme penali. Su questi ultimi in nessun caso può influire la cessazione, per qualsiasi causa, del rapporto, perché essi non trovano fonte nel sinallagma contrattuale. Tuttavia anche i primi possono assumere rilevanza, non perché il lavoratore con la propria impugnazione possa determinare unilateralmente gli effetti bilaterali del contratto, ma per suo obbligo di coerenza con la volontà espressa (con l’impugnazione) di proseguire il rapporto, con effetti ex tunc. Dalla permanenza, per tale motivo, degli obblighi del medesimo contratto possono essere sottratti solo i comportamenti necessari per reperire fonti di sostentamento alternative alla retribuzione di fatto non più corrisposta, ricerca che il lavoratore svolge ovviamente nell’ambito della propria professionalità, e quindi anche, eventualmente, presso la concorrenza” (Cassazione Sezione Lavoro n. 10663 del  4 giugno 2004, Pres. Senese , Rel. De Matteis).

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La bolletta non costituisce prova del credito della società telefonica – Se è contestata dall’utente - La bolletta telefonica, se contestata dall’utente, non costituisce prova sufficiente a dimostrare in sede giudiziaria l’esistenza del credito della società fornitrice del servizio. Occorre considerare che la giurisprudenza pacificamente riconosce natura privatistica al contratto di abbonamento telefonico, il cui contenuto è predeterminato per legge secondo uno schema al quale l’utente rimane libero di aderire senza poterlo modificare (ex plurimis Cass. 29.11.1978, n. 5613). Nella struttura del contatto il contatore centrale assume la funzione di strumento di registrazione del traffico telefonico, imposto dallo schema normativo ed accettato con la sottoscrizione, che si presume idoneo in ragione dei collaudi e dei controlli, ai quali è sottoposto da parte della pubblica amministrazione (Cass. 29.4.1997, n. 3686). Il mezzo attraverso il quale le registrazioni del contatore vengono comunicate all’utente è la bolletta telefonica, atto unilaterale di natura contabile non dissimile dalla fattura (Cass. 17.2.1986, n. 947), che costituisce prova delle registrazioni riportate se l’utente non le contesta (Cass. 10.9.1997, n. 8901); nel caso contrario la bolletta perde qualsiasi efficacia probatoria e la società telefonica ha l’onere di fornire la dimostrazione della corrispondenza delle registrazioni in essa riportate a quelle del contatore centrale, avvalendosi di qualsiasi mezzo, come i tabulati  e le rilevazioni fotografiche mensili del contatore medesimo. La distribuzione dell’onere probatorio secondo lo schema sopra indicato non è influenzata dalla scelta dell’utente di non chiedere il controllo del traffico telefonico, essendo la richiesta rivolta al conseguimento di finalità differenti. Con la dimostrazione della corrispondenza delle registrazioni riportate nella bolletta a quelle del contatore centrale si esaurisce l’onere probatorio della società telefonica, salvo che non venga specificamente dedotto il cattivo funzionamento del contatore; nel quale caso si apre una serie di altri problemi che non è necessario affrontare. Nell’ambito di questa diversa problematica può assumere rilievo l’uso di apparecchi “cordless” non omologati, che in certe condizioni rende possibile l’inserimento di terzi, aumentando indebitamente il traffico riferibile all’utenza (Cassazione Sezione Terza Civile n. 10313 del 28 maggio 2004, Pres. Duva, Rel. Durante).