La tutela sindacale in materia di trasferimenti può essere riconosciuta anche al lavoratore che di fatto svolga l’attività di dirigente della rappresentanza - Non è necessario che egli abbia avuto una nomina formale - Secondo l’art. 22 St. Lav. il trasferimento di un dirigente di una rappresentanza sindacale aziendale è consentito solo previo nulla osta dell’associazione sindacale di appartenenza. Questa tutela si applica anche ai lavoratori che, a prescindere dalla qualificazione meramente nominalistica della loro posizione nella rappresentanza sindacale, svolgano, in concreto, un’attività tale da poterli fare considerare responsabili della conduzione di tale organismo sindacale. I soli requisiti richiesti perché si produca l’effetto della titolarità dei diritti sindacali sono dati dalla costituzione della rappresentanza sindacale aziendale ad “iniziativa dei lavoratori” e dalla circostanza che detta rappresentanza operi “nell’ambito” delle organizzazioni che rispondono ai requisiti indicati dall’art. 19 Stat. Lav. nel testo risultante dall’esito referendario dell’11 giugno 1995. Questi requisiti sono da intendersi, secondo lo spirito del diritto sindacale, in maniera scevra da formalismi, alla stregua delle prassi riscontrabili nella concreta dinamica delle relazioni industriali. Anche il requisito dell’iniziativa dei lavoratori facenti parte dell’unità produttiva – configurante un presupposto per la nomina dei rappresentanti sindacali aziendali – deve essere inteso in senso elastico ed indeterminato, sì da potersi esprimere anche in un comportamento concludente dei lavoratori che nei fatti riconoscano e facciano propria la designazione proveniente dal sindacato (Cassazione Sezione Lavoro n. 1684 del 5 febbraio 2003, Pres. Sciarelli, Rel

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NEL RAPPORTO DI FORMAZIONE E LAVORO, L’ADDESTRAMENTO NON PUO’ ESSERE LIMITATO ALLO SVOLGIMENTO DELLE MANSIONI TIPICHE DEL PROFILO PROFESSIONALE CON LA SUPERVISIONE DEL SUPERIORE GERARCHICO - I richiami rivolti al lavoratore in caso di errori non costituiscono attività formativa (Cassazione, Sezione Lavoro n. 1006 del 23 gennaio 2003, Pres. Mercurio, Rel. Morcavallo).

Luigi D. è stato assunto alle dipendenze della S.r.l. DIMO con contratto di formazione e lavoro di durata biennale, che prevedeva l’inquadramento iniziale nel sesto livello e il raggiungimento finale del quinto livello come preparatore di commissioni per la spedizione della merce. Scaduto il biennio, l’azienda ha posto termine al rapporto. Il lavoratore ha chiesto al Pretore di Latina di accertare l’esistenza di un normale rapporto di lavoro, di dichiarare la nullità del termine apposto al contratto e di condannare l’azienda a reintegrarlo nel suo posto e a risarcirgli i danni. Egli ha sostenuto che non gli era stato consegnato il progetto di formazione e che nei suoi confronti non era stata svolta alcuna attività formativa. Il Pretore, dopo aver sentito alcuni testimoni, ha rigettato la domanda, in quanto ha ritenuto che tra le parti si sia effettivamente svolto un rapporto di formazione e lavoro. Questa decisione è stata riformata, in grado di appello, dal Tribunale di Latina che ha accolto le domande proposte dal lavoratore, osservando che la mancata consegna del progetto di formazione rilevava, nella specie, non tanto come autonoma causa di invalidità, quanto come circostanza che aveva impedito il controllo sul concreto svolgimento dell’attività formativa, avente ad oggetto l’acquisizione dell’esperienza necessaria per svolgere le mansioni di preparatore di commissioni per la spedizione della merce; dalla prova testimoniale era emerso che l’inserimento del lavoratore nella posizione cui era preordinata la formazione era stata immediata e non graduale, mentre l’iniziale addestramento gli era stato impartito non dal titolare o dai suoi più diretti collaboratori, come previsto in contratto, bensì da un operaio di pari livello professionale che esercitava le medesime mansioni; l’espletamento del programma formativo si era risolto nel mero richiamo del lavoratore le volte in cui sbagliava, con la spiegazione degli errori commessi, senza alcuna formazione teorica; il lavoratore aveva svolto costantemente lavoro straordinario, mentre il contratto prevedeva un orario di 40 ore a settimana; in definitiva, tutte tali circostanze, ivi compreso il controllo gerarchico ed il richiamo del dipendente  nel caso di non perfetta esecuzione della prestazione, erano espressione della natura subordinata del rapporto e non già dell’espletamento di un’attività di formazione professionale.L’azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza impugnata per violazione della legge n. 863 del 1984 che disciplina i contratti di formazione e lavoro.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 1006 del 23 gennaio 2003, Pres. Mercurio, Rel. Morcavallo) ha rigettato il ricorso.Nel contratto di formazione e lavoro l’attività formativa, che è compresa nella causa del contratto -ha osservato la Corte- è modulabile in relazione alla natura e alle caratteristiche delle mansioni che il lavoratore è chiamato a svolgere, potendo assumere maggiore o minore rilievo, a seconda che si tratti di lavoro di elevata professionalità o di semplici prestazioni di mera esecuzione, e potendo atteggiarsi con anticipazione della fase teorica rispetto a quella pratica, o viceversa. E’ necessario, peraltro, in ogni caso, che lo svolgimento dell’attività formativa sia adeguato ed effettivamente idoneo a raggiungere lo scopo del contratto, che è quello di attuare una sorta di ingresso guidato del giovane nel mondo del lavoro; e la valutazione di tale adeguatezza e idoneità è rimessa al giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimità, se congruamente motivata.

 Nella specie -ha rilevato la Corte- i giudici di merito, pur senza escludere che la formazione possa avvenire durante lo svolgimento delle mansioni, hanno tuttavia escluso che la datrice di lavoro avesse provato di avere posto in essere una effettiva attività formativa; in particolare, avendo constatato, in punto di fatto, che l’addestramento non trascendeva il mero svolgimento delle mansioni tipiche del profilo professionale previsto in contratto, con la supervisione del superiore gerarchico ed il richiamo in caso di errori nella esecuzione della prestazione, il Tribunale ha correttamente escluso che tali modalità potessero configurare l’adempimento dell’obbligazione – assunta contrattualmente dalla datrice di lavoro – di impartire la formazione professionale relativa al conseguimento della qualifica prevista.
 


 
 


Il diritto all’indennità di accompagnamento può essere riconosciuto anche nel caso di un bambino in tenera età - Per la necessità di una assistenza diversa da quella normale - L’indennità di accompagnamento può essere attribuita anche nel caso di un bambino di poco più di un anno. La situazione d’inabilità (impossibilità di deambulare senza l’aiuto di un accompagnatore o necessità di assistenza continua per impossibilità di compiere gli atti quotidiani della vita), necessaria per l’attribuzione dell’indennità di accompagnamento ex art. 1 legge n. 18 del 1980, può configurarsi anche con riguardo a bambini in tenera età, ancorché questi, per il solo fatto di essere tali, abbisognino comunque di assistenza. La legge, che attribuisce il diritto anche ai minori degli anni 18, non pone un limite minimo di età. Ai fini della sua applicazione, deve tenersi conto che detti bambini possono trovarsi in uno stato tale da comportare, per le condizioni patologiche del soggetto, la necessità di un’assistenza diversa, per forme e tempi di esplicazione, da quella occorrente ad un bambino sano (Cassazione Sezione Lavoro n. 1377 del 29 gennaio 2003, Pres. Dell’Anno, Rel. Giacalone).

 


IN MATERIA DI PUBBLICO IMPIEGO IL GIUDICE ORDINARIO PUO’ DECIDERE, IN VIA INCIDENTALE, ANCHE SULLA LEGITTIMITA’ DI UN DECRETO MINISTERIALE AVENTE PORTATA NORMATIVA GENERALE - In seguito alla privatizzazione del rapporto (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 1807 del 6 febbraio  2003, Pres. Corona, Rel. Evangelista).

Natascia C. ha vinto un concorso bandito nel 1995 dall’amministrazione provinciale di Roma, che l’ha assunta come assistente di biblioteca con contratto del giugno 1999, destinandola ad un Liceo Scientifico. Poco prima della sua assunzione, il 25 maggio 1999, è entrata in vigore la legge 3 maggio 1999 n. 124 recante disposizioni urgenti in materia di personale scolastico. La legge stabiliva che: a) il personale amministrativo, tecnico ed ausiliario, dipendente dagli Enti locali ed in servizio nelle istituzioni scolastiche statali alla data di entrata in vigore della legge medesima, transitasse alle dipendenze dello Stato, con inquadramento in qualifiche funzionali e profili professionali corrispondenti a quelli di provenienza, nonché con conservazione, ad ogni effetto, della pregressa anzianità e della sede di lavoro; b) in difetto di tale corrispondenza, il personale interessato poteva esercitare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge, l’opzione per il mantenimento del rapporto con l’Ente locale.

Mentre la legge prevedeva il passaggio allo Stato del personale degli Enti locali in servizio alla data della sua entrata in vigore (25 maggio 1999), nelle norme di attuazione, emanate dal Ministro della Pubblica Istruzione con decreto n. 184 del 23 luglio 1999, si è stabilito che il passaggio avvenisse anche per il personale degli Enti locali assunto successivamente al 25 maggio 1999 e sino al 31 dicembre dello stesso anno.

Natascia C., assunta dopo l’entrata in vigore della legge, ha chiesto di restare nei ruoli dell’Amministrazione Provinciale, in applicazione della legge stessa. La sua richiesta è stata respinta dall’Amministrazione, che ha fatto riferimento, anziché alla legge, al regolamento di attuazione emanato con il decreto n. 184 del 23 luglio 1999. L’impiegata si è rivolta al Tribunale di Roma, chiedendo in via d’urgenza la sospensione del suo trasferimento alle dipendenze dello Stato e nel merito che fosse accertata l’illegittimità di tale provvedimento in base alla legge n. 124 del 1999, che consentiva il trasferimento solo per il personale assunto prima della sua entrata in vigore.

La richiesta di sospensione in via d’urgenza è stata rigettata. Il Tribunale ha rilevato che il trasferimento era stato disposto in base al decreto ministeriale n. 184 del 1999 ed ha ritenuto che tale provvedimento, in quanto avente natura normativa, con caratteristiche di generalità ed astrattezza, non fosse disapplicabile da parte del giudice ordinario e dovesse essere impugnato davanti al giudice amministrativo.

Natascia C. ha proposto, nel corso del giudizio di merito, regolamento preventivo di giurisdizione, chiedendo alla Suprema Corte di affermare la giurisdizione del giudice ordinario.

La Suprema Corte (Sezioni Unite Civili n. 1807 del 6 febbraio  2003, Pres. Corona, Rel. Evangelista) ha accolto il ricorso. Con la “privatizzazione” del rapporto di pubblico impiego –ha affermato la Corte- il legislatore ha attribuito al giudice ordinario il controllo non solo degli atti di organizzazione e gestione dei rapporti di lavoro, ma anche dell’atto amministrativo “presupposto”; a tal fine va utilizzato dal giudice ordinario lo strumento della cognizione in via incidentale, senza effetti di giudicato, dell’atto amministrativo. Anche nelle materie riservate alla legge e sottratte alla contrattazione, le situazioni giuridiche del dipendente pubblico –ha affermato la Corte- hanno, se inerenti al rapporto, la consistenza del diritto soggettivo; le linee generali del nuovo sistema sono coerenti al fenomeno di un’amministrazione che si procura anche le risorse umane mediante la stipula di contratti di tipo privato, al pari degli altri mezzi e beni (che si procura, per esempio, con contratti di appalto o fornitura).