La responsabilità disciplinare del lavoratore non può
essere affermata in base ad accertamenti svolti in un processo penale cui il
datore di lavoro non abbia partecipato – In base all’art. 654 cod. proc.
pen. – Il Giudice del Lavoro non può fondare l’affermazione della
responsabilità del lavoratore, colpito da licenziamento disciplinare, su
fatti accertati in un processo penale al quale il datore di lavoro non abbia
partecipato. A norma dell’art. 654 cod. proc. pen., l’efficacia del
giudicato penale nei giudizi civili ed amministrativi in cui “si controverte
intorno a un diritto o a un interesse legittimo il cui riconoscimento
dipende dall’accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto
del giudizio penale” opera “nei confronti dell’imputato, della parte civile
e del responsabile civile che si sia costituito o che sia intervenuto nel
processo penale”. Deve ritenersi quindi che il legislatore non abbia inteso
derogare al principio, di carattere generale, relativo ai limiti soggettivi
del giudicato, secondo cui la cosa giudicata fa stato solo tra le parti, i
loro eredi o aventi causa (art. 2909 cod. civ.). Del resto norme che, come
quella in esame (che prevede l’efficacia in altri giudizi di meri
accertamenti relativi ai fatti materiali), pongono eccezioni ai principi
generali circa l’ambito di efficacia di un giudicato, devono formare oggetto
di stretta interpretazione.
Del resto, il nuovo codice di procedura penale ha abbandonato
il principio, cui era informato il codice precedente, dell’efficacia erga
omnes degli accertamenti compiuti nel giudicato penale, delineando in
maniera più articolata la possibile efficacia in altri giudizi (non penali)
del giudicato penale e, in particolare, prevedendo la possibilità dei
soggetti danneggiati dal reato di sottrarsi alla efficacia del giudicato di
assoluzione, anche se posti in condizione di partecipare al giudizio penale,
e disciplinando la sospensione dei giudizi civili per la pendenza del
giudizio penale secondo regole non coincidenti con quelle relative alla
possibile rilevanza extrapenale del giudicato penale. Può anche osservarsi
che i casi in cui il nuovo codice di procedura penale prevede implicitamente
l’efficacia del giudicato penale nei confronti di soggetti estranei al
giudizio penale (pur se non posti in grado di parteciparvi) hanno specifiche
e adeguate giustificazioni. E, in effetti, l’efficacia del giudicato di
condanna nel giudizio per le restituzioni e il risarcimento del danno (art.
651 cod. proc. pen.) riguarda conseguenze dirette dell’accertamento della
responsabilità penale dell’imputato e mira all’adempimento da parte del
condannato dell’obbligo di porre rimedio agli effetti della sua condotta
penalmente rilevante. D’altra parte l’efficacia del giudicato penale, sia di
assoluzione che di condanna, nei procedimenti disciplinari a carico dei
dipendenti delle amministrazioni pubbliche (art. 653 cod. proc. pen., come
modificato dalla legge 27 marzo 2001 n. 97) trova specifica spiegazione nel
carattere pubblico del soggetto datore di lavoro e della particolare
efficacia che può attribuirsi conseguentemente al giudizio penale, nel quale
l’accusa è sostenuta da un’autorità pubblica nell’interesse pubblico
(Cassazione Sezione Lavoro n. 2643 dell’11 febbraio 2004, Pres. Ciciretti,
Rel. Toffoli).
Le
organizzazioni sindacali possono
validamente concordare la sospensione dal lavoro dei dipendenti di
un’azienda solo se munite di specifico mandato – Oppure se sia intervenuta
una ratifica, espressaLe
organizzazioni sindacali possono validamente concordare
la sospensione dal lavoro dei dipendenti di un’azienda solo se munite di
specifico mandato – Oppure se sia intervenuta una ratifica, espressa anche
con comportamenti concludenti – Un accordo fra le organizzazioni
sindacali e l’imprenditore avente ad oggetto la sospensione dal lavoro dei
dipendenti per un determinato periodo, senza corresponsione della
retribuzione, può essere ritenuto valido solo se sia stato concluso in base
ad uno specifico mandato conferito dai lavoratori ovvero se questi abbiano
successivamente ratificato l’intesa anche mediante comportamenti
concludenti.
L’affermazione della necessità per la validità di tali contratti di
un mandato espresso alle organizzazioni sindacali da parte dei lavoratori o
della necessità di una loro successiva ratifica costituisce sviluppo
coerente della natura della rappresentanza delle organizzazioni sindacali.
Al contrario di quanto ritenuto da autorevole dottrina che – sulla base di
una copiosa normativa legislativa volta a riconoscere ai sindacati poteri di
regolamentazione del rapporto di lavoro con efficacia anche per i non
iscritti (cfr. tra le altre disposizioni: artt. 4 e 5 L. 20 maggio 1970 n.
300; art. 1 comma 4, L. 9 dicembre 1977 n. 903; art. 5, L. 19 dicembre 1984
n. 863; art. 4, comma 11, L. 23 luglio 1991 n. 223) – ha riconosciuto ai
sindacati maggiormente rappresentativi una forma di rappresentanza che si
avvicina a quella legale, capace così di incidere sulla sfera giuridica
della intera collettività dei lavoratori in un'ottica di piena fungibilità
fra fonti legali e fonti collettive, la giurisprudenza di legittimità è
costante invece nel collocare nell’ambito della rappresentanza volontaria il
potere dei sindacati, ricollegandolo al mandato che il lavoratore, nell’atto
di associarsi, conferisce all’organizzazione di agire in nome e conto
proprio, come è dimostrato chiaramente dall’ambito applicativo dei contratti
collettivi, la cui efficacia limitata in via generale agli iscritti è stata
considerata estensibile anche ai non iscritti solo alla presenza di un
comportamento concludente delle parti individuali, e cioè alla loro adesione
esplicita (attraverso un richiamo espresso alla normativa contrattualistica)
o implicita (attraverso la concreta attuazione delle clausole contrattuali)
al contratto stesso. Nell’adesione al sindacato è insito l’intento del
lavoratore di rinunziare all’esercizio della propria autonomia individuale a
favore della collettività dei lavoratori consentendo alle organizzazioni di
categoria di fissare condizioni minime di lavoro di natura inderogabile, di
migliorare i livelli contrattuali e di fornire assistenza ai lavoratori;
nella suddetta adesione non è invece ravvisabile la volontà di attribuire la
piena disponibilità di posizioni individuali alle organizzazioni sindacali
che, pertanto non possono dimettere diritti già acquisiti al patrimonio dei
singoli lavoratori, disponendo liberamente ed autonomamente di tali diritti.
Ne consegue che in relazione al periodo precedente l’ammissione della cassa
integrazione le organizzazioni sindacali ed il datore di lavoro non possono
stipulare accordi aventi ad oggetto la sospensione dell’obbligo dei
lavoratori di effettuare la prestazione lavorativa e la perdita del diritto
dei lavoratori alla retribuzione, in quanto detti accordi vengono ad
incidere su diritti soggettivi di cui i lavoratori sono divenuti titolari
sulla base dei singoli contratti individuali. L’efficacia di detti accordi
richiede pertanto un preventivo e specifico mandato da parte dei lavoratori,
che valga ad attribuire in materia un potere non spettante alle
organizzazioni sindacali; mandato la cui esistenza può ricavarsi da condotte
significative, che esprimano in maniera non equivoca la volontà degli
interessati, dovendosi escludersi la forma scritta per gli accordi
collettivi per i quali vige la regola della libertà di forma (Cassazione
Sezione Lavoro n. 2362 del 7 febbraio 2004, Pres. Dell’Anno, Rel. Vidiri).
AFFERMATA DALLA CORTE COSTITUZIONALE
L’ESISTENZA DI UN PRINCIPIO GENERALE SECONDO CUI LA NOTIFICAZIONE SI
PERFEZIONA CON LA CONSEGNA DELL’ATTO ALL’UFFICIALE GIUDIZIARIO –
Anche quando essa non avvenga a mezzo del servizio postale (Corte
Costituzionale n. 28 del 13 gennaio 2004, Pres. Zagrebelsky, Red. Bile).
Luisa R. ha proposto opposizione all’esecuzione promossa
nei suoi confronti da Maria Ida V. Ella ha depositato il ricorso davanti al
Tribunale di Milano, Sezione distaccata di Rho, che, in base all’art. 615
cod. proc. civ., ha fissato con decreto l’udienza di comparizione delle
parti davanti a sé e il termine perentorio per la notificazione del ricorso
e del decreto. Prima della scadenza del termine, il legale di Luisa R. ha
consegnato ricorso e decreto, in copia autentica, all’ufficiale giudiziario,
per la notificazione, che è stata però eseguita quando il termine era
scaduto. La difesa della creditrice opposta ha sollevato eccezione di
decadenza degli opponenti per inosservanza del termine perentorio assegnato
dal giudice per la notifica. Il Giudice ha sollevato – con riferimento agli
articoli 3 (principio di eguaglianza) e 24 (diritto di difesa) della
Costituzione – la questione di legittimità costituzionale degli articoli 139
e 148 del codice di procedura civile, “nella parte in cui prevede che le
notificazioni si perfezionino, per il notificante, alla data di
perfezionamento delle formalità di notifica poste in essere dall’ufficiale
giudiziario e da questi attestate nella relazione di notificazione, anziché
alla data, antecedente, di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario”. Il
Tribunale ha fatto riferimento al principio affermato dalla Corte
Costituzionale con la
sentenza n. 477 del 2002 in materia di notificazioni a mezzo del
servizio postale. La questione sollevata dal Tribunale di Milano è stata
dichiarata infondata dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 28 del 13
gennaio 2004 (Pres. Zagrebelsky, Red. Bile). La Corte peraltro ha motivato
la sua decisione affermando che per effetto della sua sentenza n. 477 del
2002 e di altre precedenti sue decisioni (n. 69 del 1994 e n. 358 del 1996),
“risulta ormai presente nell’ordinamento processuale civile, fra le norme
generali sulle notificazioni degli atti, il principio secondo il quale -
relativamente alla funzione che sul piano processuale, cioè come atto della
sequenza del processo, la notificazione è destinata a svolgere per il
notificante - il momento in cui la notifica si deve considerare perfezionata
per il medesimo deve distinguersi da quello in cui essa si perfeziona per il
destinatario; pur restando fermo che la produzione degli effetti che alla
notificazione stessa sono ricollegati è condizionata al perfezionamento del
procedimento notificatorio anche per il destinatario e che, ove a favore o a
carico di costui la legge preveda termini o adempimenti o comunque
conseguenze dalla notificazione decorrenti, gli stessi debbano comunque
calcolarsi o correlarsi al momento in cui la notifica si perfeziona nei suoi
confronti.”
Più specificamente – ha aggiunto la Corte – il principio
di scissione fra i due momenti di perfezionamento della notificazione nei
termini ora indicati si rinviene nell’art. 149 cod. proc. civ., per effetto
della sentenza n. 477 del 2002 (e nell’art. 142, anche in combinato disposto
con il terzo comma dell’art. 143, per effetto della sentenza n. 69 del
1994).
Il principio della distinzione fra i due diversi momenti di perfezionamento
delle notificazioni degli atti processuali – ha affermato la Corte – è ormai
decisivo per l’interpretazione delle altre norme del codice di procedura
civile sulle notificazioni.
Al riguardo, gli artt. 138, 139, 140, 141, 143, 144, 145 e 146 - adoperando
a proposito dell’attività di notificazione i verbi “eseguire”, “fare”,
“consegnare” ed altri di portata equivalente - di certo non enunciano
espressamente una regola contraria alla scissione fra i due momenti di
perfezionamento e nemmeno mostrano di accogliere per implicito il principio
del momento di perfezionamento unico.
“In presenza di un tale dato normativo neutro –
ha concluso la Corte – l’interprete è vincolato a tener conto del
ricordato principio enunciato da questa Corte ai fini del rispetto del
canone della c.d. interpretazione sistematica. In base ad essa la regola
generale della distinzione fra i due momenti di perfezionamento delle
notificazioni – non contenuta esplicitamente nelle norme citate – deve
essere desunta da quella ormai espressamente prevista dall’art. 149 cod.
proc. civ. per la notificazione a mezzo posta, e conseguentemente applicata
anche alla notificazione eseguita direttamente dall’ufficiale giudiziario.
In ragione di tali rilievi, le norme censurate vanno interpretate nel senso
che la notificazione si perfeziona nei confronti del notificante, secondo
quanto sopra specificato, al momento della consegna dell’atto all’ufficiale
giudiziario. Pertanto la questione sollevata dal rimettente deve essere
dichiarata non fondata.”
SENTENZA N.477
ANNO 2002
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Cesare RUPERTO
Presidente
- Riccardo CHIEPPA Giudice
- Gustavo ZAGREBELSKY "
- Valerio ONIDA "
- Carlo MEZZANOTTE "
- Fernanda CONTRI "
- Guido NEPPI MODONA "
- Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale degli artt. 149 del codice di procedura civile e 4, comma
terzo, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo
posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti
giudiziari), promosso con ordinanza del 2 febbraio 2002 dalla Corte di
cassazione sul ricorso proposto da Rizzacasa Giovambattista contro ENEL s.p.a.,
iscritta al n. 134 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell’anno 2002.
Visto
l’atto di costituzione di Rizzacasa Giovambattista;
udito
nell’udienza pubblica del 22 ottobre 2002 il Giudice relatore Annibale Marini;
udito
l’avvocato Claudio Chiola per
Rizzacasa Giovambattista.
Ritenuto in fatto
1.- La Corte di
cassazione, con ordinanza depositata il 2 febbraio 2002, ha sollevato, in
riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 4, comma terzo, della legge 20 novembre 1982, n. 890
(Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse
con la notificazione di atti giudiziari), «richiamato implicitamente dall’art.
149 c.p.c., nella parte in cui fa decorrere la notifica dell’atto da
notificare dalla data della consegna del plico al destinatario, anziché dalla
data della spedizione».
Il
medesimo giudice aveva precedentemente sollevato, nei termini di cui sopra e
nel corso dello stesso procedimento, questione di legittimità costituzionale
dell’art. 149 del codice di procedura civile come interpretato dalla
giurisprudenza «nel silenzio del dettato normativo». Questione dichiarata
manifestamente inammissibile, con ordinanza n. 322 del 2001, non avendo la
Corte rimettente «assolto l’onere di verificare, prima di sollevare la
questione di costituzionalità, la concreta possibilità di attribuire alla
norma denunciata un significato diverso da quello censurato e tale da superare
i prospettati dubbi di legittimità costituzionale».
Il giudice a
quo precisa ora che l’art. 4, comma terzo, della legge n. 890 del 1982,
nel disporre che «l’avviso di ricevimento costituisce prova dell’eseguita
notificazione», non lascerebbe spazi interpretativi e non consentirebbe,
dunque, soluzioni ermeneutiche diverse da quella, costituente diritto vivente,
secondo la quale gli effetti della notificazione a mezzo posta si
produrrebbero, anche per il notificante, solo con la consegna del plico al
destinatario da parte dell’agente postale.
Sulla base di
tale premessa, il rimettente assume che la disciplina censurata sarebbe lesiva
dell’art. 24 della Costituzione in quanto ostacolerebbe, fino a vanificarlo
sostanzialmente, l’esercizio del diritto di impugnazione a chi, risiedendo in
luogo diverso da quello in cui deve essere eseguita la notificazione, si
avvalga della notificazione a mezzo posta, adempiendo tempestivamente alle
formalità previste dall’art. 149 del codice di procedura civile e dalla legge
n. 890 del 1982, ma «restando nondimeno esposto alla disorganizzazione di
Uffici pubblici, quali quelli postali che sono soltanto strumenti ausiliari
dell’Amministrazione della Giustizia».
Le norme
impugnate - ad avviso del medesimo rimettente - non esprimerebbero, d’altro
canto, una regola generale dell’ordinamento, considerato che la notificazione
effettuata ai sensi dell’art. 140 del codice di procedura civile si
perfezionerebbe, invece, alla data di spedizione della raccomandata con avviso
di ricevimento, così come sarebbe del resto previsto per la notificazione dei
ricorsi amministrativi e per le notificazioni eseguite nell’ambito del
contenzioso tributario.
Il
ricorso al servizio postale in materia di notificazioni di atti giudiziari
risulterebbe, dunque, diversamente disciplinato in relazione a fattispecie
analoghe, escludendosi solo in alcuni casi, e non in altri, l’esposizione
della parte notificante al rischio del disservizio postale. Con conseguente
violazione del principio di eguaglianza garantito dall’art. 3 della
Costituzione.
2.- Si è
costituito in giudizio Giovambattista Rizzacasa, ricorrente nel giudizio a
quo, il quale preliminarmente sottolinea la sicura ammissibilità della
questione in quanto sostanzialmente diversa da quella dichiarata
manifestamente inammissibile con l’ordinanza n. 322 del 2001.
Nel merito,
secondo la parte privata, verrebbero nella specie in considerazione due
distinte esigenze: quella di assicurare la certezza del diritto, per cui
l’impugnativa dovrebbe essere esercitata entro precisi limiti temporali, e
quella di garantire il diritto di difesa del destinatario dell’atto
notificato.
La prima
delle due esigenze - secondo la stessa parte - potrebbe essere adeguatamente
soddisfatta facendo riferimento alla data di presentazione del ricorso
all’ufficiale giudiziario per la notifica, mentre solo ai fini della seconda
occorrerebbe avere riguardo al momento della effettiva consegna dell’atto al
destinatario.
Siffatta
distinzione sarebbe, d’altro canto, ben presente nella giurisprudenza di
questa Corte, così come il principio secondo cui gli effetti derivanti
dall’operato della pubblica amministrazione non possono risolversi nella
menomazione del diritto di difesa della parte incolpevole.
Se si
volesse, poi, richiamare, in contrapposizione al diritto di difesa del
notificante, l’interesse generale alla certezza dei rapporti giuridici,
dovrebbe allora considerarsi - ad avviso sempre della parte privata - che il
principio di ragionevole durata del processo, di cui al novellato art. 111
della Costituzione, impone di disciplinare le cadenze temporali del processo
stesso in modo da consentire l’agevole esercizio del diritto di difesa.
Il sacrificio
del diritto di difesa a favore della rapidità del processo potrebbe, dunque,
essere giustificato solamente in conseguenza di condotte omissive della parte
processuale e non già in relazione a ritardi od omissioni riferibili
all’operato della pubblica amministrazione, cui il cittadino-attore sia
obbligato a rivolgersi.
La disciplina
dettata dall’art. 140 del codice di procedura civile e quella relativa alle
notifiche in materia di ricorsi amministrativi e nell’ambito del contenzioso
tributario costituirebbero poi - sempre secondo la parte privata - adeguati
termini di comparazione ai fini del giudizio di legittimità costituzionale
sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza.
Conclude dunque
la parte per l’accoglimento della questione «e, in subordine, per l’adozione
di una sentenza interpretativa del combinato disposto dell’art. 149 c.p.c. e
dell’art. 4 l. 890/92 (recte: legge 890/82) che consenta un’adeguata
tutela del diritto di difesa, affermando che lo scopo della notifica per posta
è legittimamente raggiunto nel momento in cui vengono realizzati gli
adempimenti formali gravanti sulla parte intimante».
Considerato in diritto
1.- La Corte di
cassazione dubita, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, della
legittimità costituzionale degli artt. 149 del codice di procedura civile e 4,
comma terzo, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a
mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di
atti giudiziari), nella parte in cui dispongono che gli effetti della
notificazione a mezzo posta decorrono, anche per il notificante, dalla data di
consegna del plico al destinatario anziché dalla data della spedizione.
Tale
disposizione si porrebbe in contrasto sia con la garanzia costituzionale del
diritto di difesa, in quanto esporrebbe il notificante, pur incolpevole, al
rischio del disservizio postale, sia con il principio di eguaglianza, in
quanto - in materia di notificazioni di atti giudiziari o di ricorsi
amministrativi - altre norme dell’ordinamento attribuirebbero invece rilevanza
esclusiva alla data di spedizione dell’atto.
La
questione in esame, infatti, oltre ad avere un oggetto solo parzialmente
coincidente con quello della precedente (con la quale veniva impugnato il solo
art. 149 del codice di procedura civile), si fonda sulla premessa della
impossibilità di una diversa opzione interpretativa e non risulta, dunque,
come l’altra, censurabile sotto il profilo della mancata ricerca di una
interpretazione alternativa rispetto a quella sospettata di illegittimità
costituzionale.
3.1.- Il
rimettente muove dalla premessa secondo la quale l’inequivoco tenore testuale
dell’art. 4, comma terzo, della legge n. 890 del 1982 non consentirebbe
interpretazione diversa da quella del perfezionamento della notificazione,
anche per il notificante, alla data di ricezione del plico da parte del
destinatario. Tale premessa - pur opinabile nei termini assoluti in cui è
formulata, come del resto dimostra la rimessione della predetta questione
interpretativa alle Sezioni unite da parte di altra sezione della stessa Corte
di cassazione - è, peraltro, conforme ad un orientamento da tempo consolidato
del giudice di legittimità e tale, dunque, da poter essere senz’altro assunto
a base della presente decisione.
3.2.- Questa
Corte ha avuto modo di affermare, in tema di notificazioni all’estero, che gli
artt. 3 e 24 della Costituzione impongono che «le garanzie di conoscibilità
dell’atto, da parte del destinatario, si coordinino con l’interesse del
notificante a non vedersi addebitato l’esito intempestivo di un procedimento
notificatorio parzialmente sottratto ai suoi poteri di impulso» ed ha,
altresì, individuato come soluzione costituzionalmente obbligata della
questione sottoposta al suo esame quella desumibile dal «principio della
sufficienza [...] del compimento delle sole formalità che non sfuggono alla
disponibilità del notificante» (sentenza n. 69 del 1994).
Principio questo
che, per la sua portata generale, non può non riferirsi ad ogni tipo di
notificazione e dunque anche alle notificazioni a mezzo posta, essendo
palesemente irragionevole, oltre che lesivo del diritto di difesa del
notificante, che un effetto di decadenza possa discendere - come nel caso di
specie - dal ritardo nel compimento di un’attività riferibile non al
medesimo notificante, ma a soggetti diversi (l’ufficiale giudiziario e
l’agente postale) e che, perciò, resta del tutto estranea alla sfera di
disponibilità del primo.
In ossequio ai
richiamati principi costituzionali, gli effetti della notificazione a mezzo
posta devono, dunque, essere ricollegati - per quanto riguarda il notificante
- al solo compimento delle formalità a lui direttamente imposte dalla legge,
ossia alla consegna dell’atto da notificare all’ufficiale giudiziario, essendo
la successiva attività di quest’ultimo e dei suoi ausiliari (quale appunto
l’agente postale) sottratta in toto al controllo ed alla sfera di
disponibilità del notificante medesimo.
Resta
naturalmente fermo, per il destinatario, il principio del perfezionamento
della notificazione solo alla data di ricezione dell’atto, attestata
dall’avviso di ricevimento, con la conseguente decorrenza da quella stessa
data di qualsiasi termine imposto al destinatario medesimo. Ed è appena il
caso di sottolineare, al riguardo, che la possibilità di una scissione
soggettiva del momento perfezionativo del procedimento notificatorio risulta
affermata dalla stessa legge n. 890 del 1982, laddove all’art. 8 prevede,
secondo l’interpretazione vigente, che, nel caso di assenza del destinatario e
di mancanza, inidoneità o assenza delle persone abilitate a ricevere il piego,
la notificazione si perfezioni per il notificante alla data di deposito del
piego presso l’ufficio postale e, per il destinatario, al momento del ritiro
del piego stesso ovvero alla scadenza del termine di compiuta giacenza.
Confermandosi in tal modo la necessità che le norme impugnate siano dichiarate
costituzionalmente illegittime nella parte in cui prevedono che la
notificazione si perfeziona, per il notificante, alla data di ricezione
dell’atto da parte del destinatario anziché alla data, antecedente, di
consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara
l’illegittimità
costituzionale del combinato disposto dell’art. 149 del codice di procedura
civile e dell’art. 4, comma terzo, della legge 20 novembre 1982, n. 890
(Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse
con la notificazione di atti giudiziari), nella parte in cui prevede che la
notificazione si perfeziona, per il notificante, alla data di ricezione
dell’atto da parte del destinatario anziché a quella, antecedente, di consegna
dell’atto all’ufficiale giudiziario.
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta,
il 20 novembre 2002.
F.to:
Cesare
RUPERTO, Presidente
Annibale
MARINI, Redattore
Giuseppe
DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 26 novembre 2002.
Il
Direttore della Cancelleria
F.to: DI
PAOLA
I GIORNI DI RIPOSO
COMPENSATIVO DEVONO ESSERE INCLUSI NEL CALCOLO DEI TRE
MESI DI SVOLGIMENTO DI MANSIONI SUPERIORI AI FINI DELLA PROMOZIONE
AUTOMATICA – In base all’art. 2103 cod. civ. (Cassazione Sezione
Lavoro n. 1983 del 3 febbraio 2004, Pres. Ciciretti, Rel. Cuoco).
Francesco F.,
dipendente delle Ferrovie dello Stato con qualifica di assistente di
stazione, ha svolto nel periodo dal 13 marzo al 22 giugno 1994 le mansioni
superiori di primo tecnico di stazione. Conseguentemente egli ha chiesto al
Pretore di Modica di accertare il suo diritto alla promozione a primo
tecnico in base all’art. 2103 cod. civ. secondo cui lo svolgimento di
mansioni superiori per tre mesi comporta l’acquisizione della relativa
qualifica. Sia il Pretore che, in grado di appello, il Tribunale di Modica
hanno riconosciuto il suo diritto alla promozione. Le Ferrovie dello Stato
hanno proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza del Tribunale
di Modica per avere incluso nel periodo di tre mesi necessario alla
maturazione del diritto alla promozione i giorni di riposo compensativo
fruiti dal lavoratore.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 1983 del 3 febbraio 2004,
Pres. Ciciretti, Rel. Cuoco) ha rigettato il ricorso, richiamando la sua
giurisprudenza secondo cui ai fini del compimento del periodo di
assegnazione a mansioni superiori, necessario per l’acquisizione del diritto
alla cosiddetta promozione automatica ai sensi dell’art. 2103 cod. civ.,
mentre non possono essere computati il periodo di ferie e quello di
sospensione dell’attività lavorativa a causa di malattia, deve invece
tenersi conto dei riposi settimanali, i quali cadenzano naturalmente lo
svolgimento dell’attività lavorativa, costituendo una pausa fisiologicamente
insopprimibile e di regola non procrastinabile.
Non diversamente – ha affermato la Corte – è a dirsi per i
riposi compensativi in quanto lo svolgimento delle mansioni superiori, che
deve protrarsi per il periodo di tempo fissato dalla legge o dai contratti
collettivi, si snoda seguendo necessariamente la struttura del tempo
prefissato, con le cadenze normativamente e contrattualmente previste per il
lavoro ed il riposo.
Nell’ambito di questa struttura del tempo – ha osservato la
Corte – vi è un’ovvia pausa, fra il lavoro svolto in una giornata ed il
lavoro svolto nella giornata immediatamente successiva; il tempo di questa
pausa (imposta da ovvie esigenze naturali, e dall’art. 36 secondo comma Cost.),
essendo ovviamente necessario alla stessa prestazione, è (pur inerte)
traccia d’un lavoro che si sta svolgendo: ed è in tal modo parte integrante
del “periodo lavorativo”; in quanto tale, diventa rilevante ai fini dello
svolgimento della mansione superiore (previsto dall’art. 2103 cod. civ.). Il
continuum del periodo lavorativo, non interrotto dalla pausa del
riposo settimanale – ha aggiunto la Cassazione – non è interrotto neanche
dal riposo compensativo. Poiché ciò che è determinante ai fini del diritto
in esame è il periodo lavorativo, il riposo compensativo è parte di questo
periodo non per il riposo (che ne è il contenuto) bensì per l’attualità che
esprime: traccia d’un lavoro che si sta svolgendo, e di cui è necessaria
pausa. L’eventualità che il riposo compensativo possa essere monetizzato ed
in tal modo non goduto – ha affermato la Corte – resta irrilevante: anche
ove il riposo si risolva in un valore monetario, il fatto pregresso da cui
discende – il lavoro, di cui il riposo è necessaria pausa – non è soppresso.