- Omissione di soccorso: anche il semplice testimone non può limitarsi a
chiamare polizia e ospedale - Cassazione Penale, Sezione V, Sentenza n. 3397
del 02/02/2005
Il reato e’ sempre configurabile
se non si e’ rimasti a presidiare il luogo fino all'arrivo
dell'ambulanza
Piazza Cavour ridisegna i confini dell'articolo 593 del Codice penale
(Omissione di soccorso) ed, in particolare, del concetto di "prestazione
di assistenza", elemento necessario per integrare tale tipo di reato.
Quando ci si imbatte in un incidente stradale con morti o feriti - dice
in sostanza la Corte - anche se non si e’ direttamente coinvolti nel
sinistro, non ci si puo’ limitare a chiamare la polizia e l'ambulanza.
Per non incorrere in una condanna per omissione di soccorso, dopo aver
fatto le telefonate di emergenza, bisogna rimanere accanto alle vittime
dello scontro e prendersene cura finche’ non arrivano i soccorritori.
E’ quanto emerge dalla sentenza 3397/05 della V sezione penale della
Cassazione, depositata ieri e qui integralmente leggibile tra i
documenti allegati. Con questo verdetto, infatti, la Suprema corte ha
confermato la condanna - per omissione di soccorso - ad una coppia di
romani, Giuseppe P. e Marianne G., cosi’ come avevano stabilito i
giudici di merito. I due, che passavano per caso su un tratto di strada,
videro un motociclista riverso al centro della carreggiata,
probabilmente investito da un automobilista pirata che non si era
fermato. Si avvicinarono, scesero dalla loro macchina e chiamarono
subito la polizia. Quando in lontananza sentirono le sirene della
volante e quelle dell'ambulanza - pur avendo constatato che il
motociclista, sebbene in gravi condizioni, respirava ancora - Giuseppe e
Marianne si allontanarono e lasciarono incustodito il ferito che mori’
poco dopo il ricovero. Per essersi allontanati troppo presto, i due sono
stati processati. Invano hanno cercato di difendersi, in Cassazione,
sostenendo che avevano fatto il loro dovere di bravi cittadini
avvertendo il 113. La Suprema corte non ha condiviso questa tesi e ha
spiegato che, in questi casi, dopo aver contattato polizia e autorita’
sanitarie bisogna "presidiare il posto allo scopo di evitare che altre
vetture possano investire l'infortunato". Sottolineano in proposito i
magistrati di Piazza Cavour che "nel concetto di prestazione di
assistenza non puo’ non rientrare, innanzitutto, l'adozione di quelle
cautele atte a limitare il danno gia’ riportato dalla parte offesa,
ovvero a scongiurare la sua ulteriore esposizione al pericolo". Il
comportamento della coppia - aggiunge la Cassazione - "integra
perfettamente il reato di omissione di soccorso, in quanto avrebbero
dovuto trattenersi sul posto nel quale rinvennero il motociclista fin
quando altri non avessero potuto assumerne la vigilanza e la cura". |
LA PRODUZIONE IN GIUDIZIO,
DA PARTE DEL DIPENDENTE, DI FOTOCOPIE DI DOCUMENTI AZIENDALI NON CONTRASTA
CON LA NORMATIVA CHE TUTELA IL DIRITTO ALLA RISERVATEZZA –
In quanto necessarie per l’esercizio del
diritto di difesa (Cassazione Sezione Lavoro n. 22923 del 7 dicembre 2004,
Pres. Mileo, Rel. De Renzis).
Bruno S., dipendente
della società Swissair, è stato trasferito da Roma a Milano con riferimento
alla necessità di collocare a Milano l’ufficio cui egli era addetto. Il
lavoratore ha chiesto al Pretore di Roma di sospendere, in via d’urgenza,
l’efficacia del trasferimento, per insussistenza delle ragioni organizzative
dedotte dall’azienda. A sostegno della sua domanda, egli ha prodotto le
fotocopie di alcuni documenti aziendali comprovanti la prosecuzione
dell’attività lavorativa del suo ufficio di Roma anche dopo il trasferimento
impugnato. L’azienda lo ha licenziato, addebitandogli di aver violato i doveri
di riservatezza e correttezza utilizzando in giudizio documentazione aziendale
di carattere riservato, relativa a rapporti con la clientela e non rientrante
nella sua disponibilità. Bruno S. ha impugnato il licenziamento davanti al
Pretore di Roma, negando di essersi reso responsabile di violazione dei doveri
di riservatezza e correttezza. Sia il Pretore che, in grado di appello, il
Tribunale di Roma hanno ritenuto legittimo il licenziamento. Il Tribunale ha
affermato che la violazione dei doveri di correttezza e di lealtà del
lavoratore verso l’azienda non poteva ritenersi giustificata dall’esercizio
del diritto di difesa in sede giudiziaria. Bruno S. ha proposto ricorso per
cassazione, censurando la sentenza del Tribunale di Roma per difetto di
motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 22923 del 7 dicembre 2004, Pres. Mileo,
Rel. De Renzis) ha accolto il ricorso, ricordando preliminarmente che la
questione della legittimità della produzione in giudizio di documentazione
aziendale da parte del dipendente è stata in precedenza decisa dalla
Cassazione in modo non uniforme. Un primo orientamento è nel senso
dell’illegittimità di una tale produzione, in quanto la violazione
dell’obbligo della riservatezza comporta inevitabilmente la lesione
dell’elemento fiduciario e può quindi integrare gli estremi della giusta causa
(o giustificato motivo) di licenziamento (Cass. sentenza n. 2560 del 1993;
Cass. sentenza n. 4328 del 1996; Cass. sentenza n. 6352 del 1998; Cass.
sentenza n. 13188 del 2001). Un secondo orientamento ritiene che la “produzione
in giudizio di fotocopie” di documenti aziendali riservati costituisca
un’ipotesi di gran lunga più lieve rispetto a quella di “sottrazione di
documenti”, sicché, nel quadro concreto delle circostanze di fatto, il
licenziamento disciplinare può essere considerato illegittimo (Cass. sentenza
n. 1144 del 2000; Cass. sentenza n. 4328 del 1996). Una variante del secondo
orientamento è costituita dal più recente filone giurisprudenziale (in
particolare Cass. sentenza n. 6420 del 2002 e sentenza n. 12528 del 2004), che
ha riconosciuto la prevalenza del diritto alla difesa rispetto alle esigenze
di segretezza di dati in possesso di enti privati o pubblici, tanto più che la
stessa normativa (art. 12 della legge n. 675 del 1996 e successive modifiche
ed integrazioni) in tema di tutela della riservatezza (c.d. privacy)
non richiede il consenso dell’interessato nell’ipotesi in cui il trattamento
sia necessario “per far valere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i
dati siano trattati esclusivamente per tale finalità e per il periodo
strettamente necessario al loro perseguimento”.
Da tale giurisprudenza
– ha osservato la Corte – può trarsi la fondamentale distinzione tra
produzione in giudizio di documenti aziendali riservati al fine di esercitare
il diritto di difesa, di per sé da considerarsi lecita, e impossessamento
degli stessi documenti, le cui modalità vanno in concreto verificate.
Sulla base di tale impostazione – ha
affermato la Corte – la decisione impugnata mostra delle lacune, atteso che in
relazione alle premesse circa l’utilizzazione di documenti aziendali riservati
per finalità difensive, ritenuta non conforme a correttezza e buona fede, la
sentenza stessa ha trascurato di verificare se le modalità di acquisizione di
tali documenti da parte del dipendente – dopo la sua fuoruscita dalla sede di
Roma – fossero quelle indicate nella comunicazione della società del 21.1.1997
(introduzione senza autorizzazione in azienda o introduzione di qualcuno ad
asportare i documenti per suo conto). Sotto tale aspetto – ha aggiunto la
Corte – generica appare la motivazione, laddove si limita ad osservare ad
abundatiam che l’appellante ha avuto la disponibilità di alcuni di detti
documenti non in ragione del proprio ufficio, trattandosi di atti con data
successiva alla cessazione del rapporto, elemento questo di maggiore
“estraneità” della documentazione dai compiti propri e normali del dipendente
che ne faccia un uso divulgativo. La Corte ha rinviato la causa alla Corte di
Appello di Roma perché proceda alle necessarie verifiche
Per determinare le differenze di
retribuzione dovute in base all'art. 36 della Costituzione si deve tener conto
della tredicesima mensilità prevista dal contratto collettivo di riferimento -
Non della quattordicesima - Nel caso di richiesta di pagamento di
differenze di retribuzione in base all'art. 36 della Costituzione, il Giudice
può fare riferimento, come parametro di adeguatezza, alle tabelle previste dal
contratto collettivo di categoria, anche se il datore di lavoro non sia
iscritto all'associazione imprenditoriale che l'ha stipulato. Nel concetto di
retribuzione adeguata rientra anche la tredicesima mensilità, di cui pertanto
il giudice deve tener conto ai fini della determinazione delle differenze
dovute, atteso il carattere generalizzato di tale istituto. Non va tenuto
conto invece delle mensilità aggiuntive eccedenti la tredicesima. (Cassazione
Sezione Lavoro n. 2144 del 3 febbraio 2005, Pres. Mattone, Rel. Amoroso).
Le direttive comunitarie
attribuiscono ai medici specializzandi un diritto perfetto alla retribuzione -
La relativa domanda va proposta davanti al giudice ordinario - Spetta
al giudice ordinario la giurisdizione sulla domanda del medico specialista
diretta ad ottenere dallo Stato la retribuzione per l'attività svolta durante
il corso di specializzazione. La Corte di Giustizia della Comunità Europea,
nelle sentenze 25 febbraio 1999 in causa C - 131/97, Annalisa Carbonari e a.
c. Università degli Studi di Bologna e c.; 3 ottobre 2000 in causa C - 371/97,
Cinzia Gozza e a. c. Università degli Studi di Padova e a., ha affermato che
dalle direttive del Consiglio 75/362/CEE (articoli 5 e 7); 75/353/CEE, (art.
2, n.1, lett. c) , e 82/76/CEE deriva l'obbligo incondizionato e
sufficientemente preciso di retribuire la formazione del medico
specializzando. L'adempimento di tale obbligo, ove lo Stato membro (come nel
caso dell'Italia) non abbia adottato nel termine prescritto le misure di
trasposizione delle direttive, deve essere assicurato mediante gli strumenti
idonei previsti dall'ordinamento nazionale. Nella sentenza Carbonari (punti da
48 a 53) la Corte di Lussemburgo ha indicato, quali modalità di adempimento di
tale obbligo, l'applicazione retroattiva delle norme nazionali di
trasposizione, attraverso un'interpretazione di tale norme conforme alle
direttive e, ove tale applicazione non sia possibile, attraverso il
risarcimento del danno da mancato adempimento, da parte dello Stato membro,
degli obblighi derivanti dall'adesione al Trattato CE. Nella sentenza in causa
C - 371/97 la Corte comunitaria ha inoltre affermato (punto 39) che
un'applicazione retroattiva delle misure nazionali di trasposizione
costituirebbe una misura sufficiente a garantire un adeguato risarcimento,
salva la possibilità di dimostrare ulteriori danni. La natura incondizionata e
sufficientemente precisa delle norme delle direttive, in quanto attribuiscono
agli specializzandi un diritto perfetto ad una adeguata remunerazione, da
tutelarsi in forma risarcitoria secondo i principi enunciati dalla
giurisprudenza della Corte di Giustizia a partire dalla sentenza Francovich, è
stata affermata dalle Sezioni Unite nella sentenza 10 aprile 2002, n. 5125 e
dalla successiva sentenza della Terza Sezione civile del 16 maggio 2003, n.
7630 (Cassazione Sezione Lavoro n. 2144 del 3 febbraio 2005, Pres. Mattone,
Rel. Amoroso).
SE LA CONDOTTA ILLECITA TENUTA DALLA PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE VERSO IL DIPENDENTE, INIZIATA PRIMA DEL 30 GIUGNO 1998, E'
CONTINUATA NEL PERIODO SUCCESSIVO, LA GIURISDIZIONE SULLA DOMANDA DI
RISARCIMENTO PROPOSTA DAL LAVORATORE SPETTA AL GIUDICE ORDINARIO -
Per l'intero periodo (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 1622 del 27
gennaio 2005, Pres. Carbone, Rel. Vidiri).
Enrico C., dipendente del Comitato Olimpico Nazionale Italiano,
Coni, ha chiesto al Tribunale di Roma di accertare il suo diritto al
trattamento previsto dal contratto nazionale di lavoro giornalistico per le
mansioni svolte dal 1986 al 2001 come addetto a due periodici editi dall'ente,
nonché al risarcimento del danno biologico causatogli dalle sofferenze patite
per il mancato accoglimento delle sue richieste di corretto inquadramento e
per la dequalificazione subita alla fine del 2000, quanto le mansioni
giornalistiche in precedenza svolte gli erano state sottratte. Il Coni ha
proposto regolamento preventivo di giurisdizione, chiedendo alla Suprema Corte
di affermare che la controversia andava proposta davanti al giudice
amministrativo. La Suprema Corte (Sezioni Unite Civili n. 1622 del 27 gennaio
2005, Pres. Carbone, Rel. Vidiri) ha dichiarato la giurisdizione del giudice
amministrativo in relazione alla domanda avente ad oggetto le spettanze
retributive per il periodo anteriore al 30 giugno 1998 e la giurisdizione
invece del giudice ordinario sia per le domande avente ad oggetto le spettanze
retributive per il periodo successivo al 30 giugno 1998, sia per quella
concernente il risarcimento dei danni.
Deve applicarsi in materia - ha osservato la Corte - il disposto
dell'art. 45, comma 17, del d.lgs 31 marzo 1998 n. 80 (ora art. 69, comma 7,
del d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165), che nel fissare il discrimine temporale per
individuare il giudice competente statuisce che sono devolute al giudice
ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le controversie in materia di
pubblico impiego "relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di
lavoro successivo al 30 giugno 1998", ferma restando la giurisdizione del
giudice amministrativo per le controversie "relative a questioni attinenti al
rapporto di lavoro anteriore a tale data". Ai fini dell'applicazione di questa
norma transitoria circa il passaggio dal giudice amministrativo a quello
ordinario delle controversie sui rapporti di pubblico impiego privatizzato -
ha osservato la Corte, richiamando la sua costante giurisprudenza - va dato
particolare rilievo al dato storico costituito dall'avverarsi dei fatti
materiali e delle circostanze - così come posti a base della pretesa avanzata
- in relazione alla cui giuridica rilevanza sia insorta la controversia, con
la conseguenza che, nel caso in cui il lavoratore, sul presupposto del proprio
diritto ad un determinato inquadramento, riferisca le proprie pretese
retributive e contributive ad un periodo in parte anteriore ed in parte
successivo alla data del 30 giugno 1998, la competenza giurisdzionale va
ripartita tra il giudice amministrativo in sede esclusiva e il giudice
ordinario, in relazione rispettivamente alle due dette fasi temporali. Ne
consegue - ha affermato la Corte - che nel caso di specie va dichiarata la
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in relazione alle pretese
retributive rivendicate da Enrico C. (in ragione alle mansioni svolte) per il
periodo precedente al 30 giugno 1998, e la giurisdizione del giudice ordinario
in relazione alle pretese retributive rivendicate per il periodo successivo.
Una distinta soluzione va seguita con riferimento alla richiesta dei danni
avanzata da Enrico C. in quanto, se la lesione del diritto del lavoratore è
prodotta da un atto, provvedimentale o negoziale, deve rifarsi riferimento
all'epoca di tale atto, mentre laddove la pretesa abbia origine da un
comportamento illecito permanente del datore di lavoro, si deve fare
riferimento al momento di realizzazione del fatto dannoso e, quindi, al
momento della cessazione della permanenza. Nel caso di specie - ha osservato
la Corte - a fondamento della domanda di risarcimento danni di Enrico C., è
stata posta la condotta protrattasi nel tempo del datore di lavoro,
consistente nel non assegnare la collocazione professionale al dipendente, con
le consequenziali (denunziate) ricadute negative sulla professionalità e sulle
stesse condizioni psicofisiche di quest'ultimo; ne consegue che, alla stregua
dei principi enunciati, la giurisdizione, per quanto attiene alla domanda di
risarcimento danni, va riconosciuta al giudice ordinario per essersi la
suddetta condotta protratta oltre il 30
giugno 1998.
SE LA RACCOMANDATA NON E' SPEDITA PER POSTA, MA A
MEZZO CORRIERE, NON OPERA LA PRESUNZIONE DELL'ARRIVO A DESTINAZIONE -
In caso di contestazione della firma apposta sulla ricevuta di ritorno
(Cassazione Sezione Lavoro n. 418 del 12 gennaio 2005, Pres. Senese, Rel.
Spanò).
L'INPS ha notificato il 6 agosto 1999 alla ditta P. un decreto
ingiuntivo, emesso dal Pretore di Milano, per il pagamento di circa 58 milioni
di lire a titolo di contributi evasi nel periodo 1 gennaio 91 - 31 dicembre
1997 e sanzioni aggiuntive. L'azienda ha proposto opposizione sollevando, tra
l'altro, l'eccezione di intervenuta prescrizione quinquennale del diritto
dell'ente ai contributi per il periodo dal 1991 al 1994. L'INPS ha replicato
sostenendo di avere interrotto il termine della prescrizione mediante una
raccomandata con avviso di ricevimento recapitata, a mezzo corriere
autorizzato, il 28 dicembre 1995. L'azienda ha disconosciuto la sottoscrizione
apposta sulla ricevuta di ritorno.
Sia il Tribunale che la Corte d'Appello di Milano hanno ritenuto
non fondata l'eccezione di prescrizione. L'azienda ha proposto ricorso per
cassazione censurando la decisione della Corte di Milano per violazione di
legge. La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 418 del 12 gennaio 2005, Pres.
Senese, Rel. Spanò) ha accolto il ricorso.
Nel caso di raccomandata inviata a mezzo del servizio postale - ha
affermato la Corte - deve applicarsi il principio, costantemente affermato
dalla giurisprudenza, secondo cui non è necessario che la ricevuta sia
sottoscritta dallo stesso destinatario, dovendosi "presumere l'arrivo a
destinazione in considerazione dei particolari doveri che la raccomandata
impone al servizio postale, in ordine al suo inoltro e alla sua consegna" (ex
plurimis Cass., Sez. III, 5 ottobre 1998, n. 9861, Cass. Sez. I, 4 febbraio
2000 n. 1218). Questo principio - ha peraltro osservato la Corte - nel caso in
esame è stato applicato ad una fattispecie non pertinente poiché la
presunzione di rispetto da parte dell'esercente di un servizio pubblico delle
disposizioni che ne regolano lo svolgimento non opera nei riguardi dei
privati, i quali forniscono analoghe prestazioni, a ciò autorizzati, ma non
delegati.
PRIMA DI PUBBLICARE UNA NOTIZIA, IL
GIORNALISTA HA L'OBBLIGO DI CONTROLLARE L'ATTENDIBILITA' DELLA FONTE
INFORMATIVA – A meno che essa provenga dall'autorità investigativa o
giudiziaria (Cassazione Sezione Terza Civile n. 2271 del 4 febbraio 2005,
Pres. Vittoria, Rel. Chiarini).
Il potere-dovere di raccontare accadimenti reali per mezzo della stampa, in
considerazione del loro interesse per la generalità dei consociati, essenziale
estrinsecazione del diritto di libertà di manifestazione del pensiero, per
esser legittimo, secondo la consolidata giurisprudenza, civile e penale, deve
osservare le seguenti condizioni: a) la verità della notizia pubblicata; b)
l'interesse pubblico alla conoscenza del fatto (c.d. pertinenza); c) la
correttezza formale dell'esposizione (c.d. continenza). Quanto al primo
requisito soltanto la correlazione rigorosa tra fatto e notizia di esso
soddisfa all'interesse pubblico dell'informazione e cioè alla ratio dell'art.
21 Cost., e riporta l'azione nel campo dell'operatività dell'art. 51 c.p.,
rendendo non punibile, nel concorso dei requisiti della pertinenza e della
continenza, l'eventuale lesione della reputazione altrui. Perciò, se il
presupposto dell'esistenza del diritto di cronaca è il principio della verità,
che ne legittima l'esercizio - come sancito dall'art. 2, comma 1 dell'art. 2
della legge professionale 3.2.1963 n. 69, che esige il rispetto della verità
sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri di lealtà e di buonafede - ne
consegue che il giornalista ha l'obbligo di controllare l'attendibilità della
fonte informativa, a meno che essa provenga dall'autorità investigativa o
giudiziaria, e di accertare la verità del fatto pubblicato.
Pertanto, se egli pubblica una vicenda non vera e lesiva della
reputazione altrui - diritto anch'esso costituzionalmente protetto dagli artt.
2 e 3 della costituzione - è responsabile dei danni derivanti dal reato di
diffamazione a mezzo stampa a meno che non provi l'esimente di cui all'art.
59, ultimo comma, cod. pen. e cioè la sua buona fede (c.d. verità putativa del
fatto), che non sussiste per la mera verosimiglianza dei fatti narrati, ma
necessita che egli dimostri sia i fatti e le circostanze che hanno reso
involontario l'errore, sia di aver controllato con ogni cura professionale -
da rapportare alla gravità della notizia e all'urgenza di informare il
pubblico - la fonte della notizia, assicurandosi della sua attendibilità, al
fine di vincere ogni dubbio ed incertezza prospettabili in ordine alla verità
dei fatti narrati. Viceversa l'affidamento riposto sulla fonte informativa non
ufficiale è a suo rischio, perché egli ha il dovere di non appagarsi di
notizie rese pubbliche da altre fonti informative senza esplicare alcun
controllo, altrimenti le diverse fonti propalatrici delle notizie,
attribuendosi reciproca credibilità, finirebbero per rinvenire l'attendibilità
in sé stesse.