L’INDENNITA’ PER I RATEI DI FERIE NON GODUTE NELL’ULTIMO ANNO DEL RAPPORTO DI LAVORO HA NATURA RETRIBUTIVA – Il relativo importo deve essere incluso nel calcolo del t.f.r. (Cassazione Sezione Lavoro  n. 11960 dell’8 giugno 2005, Pres. Mattone, Rel. Roselli).
            
Francesco R., dipendente della s.p.a. Fiat Auto, ha sempre goduto regolarmente delle ferie. Nell’ultimo anno di lavoro egli non ne ha fruito perché la cessazione del rapporto è avvenuta prima del periodo previsto per le ferie. Tra le spettanze di fine rapporto l’azienda gli ha corrisposto una somma a titolo di indennità per le ferie non godute, in applicazione del contratto collettivo che prevedeva, nel caso di risoluzione del contratto di lavoro “il pagamento delle ferie in proporzione dei dodicesimi maturati”. 
            
Questa somma non è stata inclusa nella retribuzione ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto. Il lavoratore ha chiesto al Tribunale di Torino di condannare l’azienda al pagamento delle differenze derivate dalla mancata inclusione dell’indennità per ferie non godute nella base di calcolo del trattamento di fine rapporto. Il Tribunale ha rigettato la domanda, in quanto ha escluso la natura retributiva dell’indennità. Questa decisione è stata riformata dalla Corte di Appello di Torino che ha condannato l’azienda al pagamento della differenza richiesta. Il pagamento dei ratei di ferie non godute – ha osservato la Corte – essendo previsto dal contratto collettivo e non derivando da un’inadempienza del datore di lavoro, non aveva funzione risarcitoria, ma retributiva e pertanto il relativo importo andava incluso nel calcolo del t.f.r. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte di Appello di Torino per violazione di legge. 
            
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 11960 dell’8 giugno 2005, Pres. Mattone, Rel. Roselli) ha rigettato il ricorso. Ai sensi dell’art. 2109, secondo comma, cod. civ. – ha osservato la Cassazione – il prestatore di lavoro ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuito, che l’art. 36, terzo comma, Cost. definisce irrinunciabile; questo diritto è proporzionale alla quantità di lavoro prestato ossia matura progressivamente durante lo svolgimento del rapporto di lavoro, compreso il periodo di prova talora anche in caso di sospensione, ad es. per maternità; le ferie debbono essere di regola godute durante l’anno lavorativo ma col consenso del lavoratore possono essere posticipate, mentre in caso di mancata fruizione il contratto collettivo può prevedere il diritto ad un’indennità sostitutiva. Circa la funzione, risarcitoria o retributiva, di questa indennità – ha rilevato la Corte – esiste un contrasto di giurisprudenza; nella presente controversia tuttavia non è necessario prendere posizione sul contrasto, essendo certo che, quando la mancata fruizione delle ferie sia sicuramente non imputabile al datore di lavoro, a causa della risoluzione del rapporto durante l’anno (in tal caso il contratto collettivo sottoposto alla Corte di Appello prevedeva un compenso proporzionale ai dodicesimi di retribuzione maturati) o anche a fine anno nel caso di ferie posticipate, non è possibile ravvisare alcun inadempimento di obblighi derivanti da legge o da contratto e quindi attribuire alcuna funzione risarcitoria alle somme corrisposte al lavoratore, le quali assumono così natura retributiva.
            
Questa interpretazione – ha aggiunto la Corte – è corroborata dal secondo comma dell’art. 2120 cod. civ., secondo cui, salvo diversa previsione dei contratti collettivi, la retribuzione annua, ai fini della determinazione del trattamento di fine rapporto, comprende tutte le somme corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese; tale disposizione è ispirata al criterio di onnicomprensività, che è derogabile solo dalla contrattazione collettiva, nel senso che vanno considerate come retribuzione tutte le somme pagate per causa tipica e normale del rapporto di lavoro ed anche non correlate alla effettiva prestazione lavorativa, con esclusione di quelle dovute ad occasione accidentalmente connessa col rapporto; in tal senso si è espressa la sentenza impugnata, la quale, in presenza di una somma corrisposta in connessione e proporzione con le prestazioni lavorative già eseguite ed in difetto di contraria clausola contrattuale, ha ritenuto doversi comprendere le dette somme nella base di calcolo del trattamento di fine rapporto.
 

 

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Il giudizio espresso, come testimone, dal medico che ha rilasciato il certificato non è sufficiente a provare la malattia del lavoratore – E’ necessaria la consulenza tecnica – Ai fini della prova della malattia del lavoratore, non è sufficiente la testimonianza del medico autore del relativo certificato, allorché tale testimonianza si risolva in una valutazione di natura medico-legale. E’ principio costantemente affermato in giurisprudenza che la prova testimoniale deve avere ad oggetto fatti e non apprezzamenti e che il giudice del merito deve negare valore probatorio decisivo alle deposizioni testimoniali che si traducono in una interpretazione soggettiva ovvero in un mero apprezzamento tecnico del fatto. Per le valutazioni di natura specialistica e tecnica della situazione da esaminare il giudice del merito deve avvalersi dello strumento giuridico specifico offertogli dal codice di rito, ossia di una consulenza tecnica d’ufficio, che oltretutto offre maggiori garanzie di tutela per il contraddittore (Cassazione Sezione Lavoro n. 11747 del 6 giugno 2005, Pres. Mercurio, Rel. D’Agostino

 

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Immediatezza della contestazione e tempestività del recesso sono due distinti principi che vanno applicati nel provvedimento disciplinare – Nel rispetto delle regole di correttezza e buona fede – In tema di licenziamento disciplinare, la giurisprudenza di legittimità ha elaborato due distinti principi, quello della immediatezza della contestazione e quello della tempestività del recesso. Il primo attiene al tempo intercorrente tra la data di commissione dell’infrazione disciplinare (o della sua ultima manifestazione) e la sua contestazione da parte del datore di lavoro. Più precisamente, la tempestività va valutata dal momento in cui il datore di lavoro è venuto con certezza a conoscenza del fatto posto in essere dal dipendente. La ragione per cui si richiede l’immediatezza viene individuata nel principio di correttezza e buona fede, sia per consentire la difesa dell’incolpato, nella prossimità temporale dei fatti, sia per sancire con la contestazione la irregolarità della condotta, che un silenzio consapevole del datore di lavoro potrebbe viceversa avallare come prassi consentita. Date queste ragioni, e risolvendosi il principio di immediatezza in una pretesa di sollecito comportamento del datore di lavoro, essa può essere valutata solo in relazione a comportamenti consapevoli di questi, e cioè dalla conoscenza dei fatti, e non dalla loro commissione. La tempestività del recesso attiene viceversa al tempo intercorrente tra la contestazione e l’intimazione della sanzione. Solo in casi del tutto particolari, fatti disciplinari molto antichi rispetto al momento in cui sono venuti a conoscenza del datore di lavoro, potrebbero avere esaurito il loro disvalore disciplinare, ma questo è un problema diverso, che non attiene al principio della immediatezza, la quale decorre sempre dalla conoscenza del fatto, bensì alla valutazione della sua gravità, rapportata anche al tempo trascorso (Cassazione Sezione Lavoro n. 10302 del 17 maggio 2005, Pres. Mattone, Rel. De Matteis).
 

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Le assenze per malattia causate dall’adibizione del lavoratore a mansioni non compatibili con le sue condizioni di salute non possono essere incluse nel calcolo del comporto – Si applica l’art. 2087 cod. civ. – Il datore di lavoro, una volta che sia emerso che il lavoratore, addetto a prestazioni di tipo manuale, presenta infermità che mettono in dubbio la compatibilità delle mansioni cui è addetto con il suo stato di salute, ha il dovere di verificare tale compatibilità e di assumere i provvedimenti conseguenti, a norma dell’art. 2087 c.c. e dell’art. 4, comma 5, lett. c) del d.lgs. n. 626/1994. L’eventuale impossibilità, sul piano organizzativo, di assegnare il lavoratore a mansioni compatibili con le specifiche infermità e limitazioni fisiche da cui il medesimo sia affetto non giustifica l’assegnazione a mansioni non compatibili; salva rimanendo la possibilità del datore di lavoro di licenziare il lavoratore per giustificato motivo oggettivo, in caso di comprovata impossibilità di assegnazione dello stesso a mansioni compatibili anche con deroga al divieto ad assegnazione a mansioni di livello inferiore. Peraltro non è in discussione che le assenze per malattia, che siano valutabili come conseguenza dell’illegittima assegnazione del lavoratore a mansioni non compatibili con il suo stato di salute, non possono rilevare ai fini del superamento del periodo di comporto (Cassazione Sezione Lavoro n. 11092 del 26 maggio 2005, Pres. Mattone, Rel. Toffoli).
 

 

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Perché si proceda alla contestazione disciplinare non è necessaria la certezza del fatto addebitato – L’accertamento occorre per l’applicazione della sanzione – Il principio dell’immediatezza della contestazione disciplinare (anche se il relativo criterio deve essere inteso in senso relativo, dovendosi tener conto della specifica natura dell’illecito nonché del tempo necessario alle indagini, tanto maggiore quanto più complessa è l’organizzazione aziendale), è fondato sulla regola della correttezza e della buona fede nello svolgimento del rapporto; e, quale elemento costitutivo del diritto di recesso, non consente di procrastinare la contestazione medesima.
         E’ tuttavia da osservare che la contestazione, per la sua stessa natura, non esige necessariamente l’assoluta certezza della realtà. Indipendentemente dal fatto che questa certezza è conseguibile solo con una sentenza inoppugnabile (anche in tal caso resta, tuttavia, una “verità” formale, non reale), la stessa necessità della contestazione (quale mezzo che ha la funzione di consentire al lavoratore di esprimere anche la sua diversa ricostruzione dei fatti) presuppone la possibilità (inscritta nello stesso procedimento ex art. 7  della Legge 20 maggio 1970 n. 300) che la realtà sia oggettivamente diversa dai fatti contestati. Alla contestazione è pertanto sufficiente una realtà che consenta di ritenere ragionevolmente sussistenti i fatti da addebitare (la certezza diventa necessaria per l’irrogazione della sanzione). Questa ragionevolezza, tuttavia, non solo giustifica la contestazione (conferendo all’atto datoriale la veste della serietà ed escludendo un comportamento arbitrario e – al limite – potenzialmente offensivo), bensì (per il principio di buona fede, quale regola del comportamento datoriale anche nel corso dell’indicato procedimento) la rende necessaria. Ed il suo insorgere delinea (con ovvia approssimazione) il “dies a quo” per la valutazione della tempestività (Cassazione Sezione Lavoro n. 9955 del 12 maggio 2005, Pres. Mercurio, Rel. Cuoco).

IL PROCEDIMENTO DISCIPLINARE A CARICO DI UN FUNZIONARIO MINISTERIALE DEVE ESSERE CONCLUSO NEL TERMINE DI 120 GIORNI DALLA DATA DELLA CONTESTAZIONE DELL’ADDEBITO – L’inosservanza di questa prescrizione comporta l’illegittimità della sanzione (Cassazione Sezione Lavoro n. 10991 del 25 maggio 2005, Pres. Mattone, Rel. D’Agostino).
         Mario D., funzionario del Ministero delle Finanze, è stato arrestato il 4 giugno 1994 per tentata concussione nei confronti di un contribuente e per resistenza e lesioni a pubblico ufficiale. Per questo egli ha subito, da parte del Ministero, la sospensione cautelare dal servizio. Successivamente, mentre era ancora in corso il procedimento penale, il Ministero, nel giugno del 2000, gli ha comunicato il licenziamento per giusta causa con motivazione riferita ai fatti oggetto del processo penale. Mario D. ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Verona, sostenendo che si trattava di un provvedimento disciplinare e che pertanto doveva ritenersi illegittimo per inosservanza delle norme procedimentali previste dal contratto collettivo del 1995 per l’applicazione delle sanzioni disciplinari. Il Ministero si è difeso sostenendo, tra l’altro, che non si era trattato di un provvedimento disciplinare ma di un licenziamento per giusta causa intimato in base all’art. 2119 cod. civ. Il Tribunale ha rigettato la domanda ma la sua decisione è stata integralmente riformata dalla Corte di Appello di Venezia, che ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento ed ha condannato il Ministero a reintegrare il dipendente e a corrispondergli le retribuzioni dalla data del licenziamento a quello della effettiva reintegrazione. La Corte ha affermato che il licenziamento era ontologicamente disciplinare e di conseguenza doveva ritenersi illegittimo, sia perché il Ministero non aveva rispettato il termine di 120 giorni dalla contestazione dell’addebito per concludere il procedimento (stabilito dall’art. 24 comma 6 del CCNL del 1995) sia perché il provvedimento era stato irrogato nonostante che l’art. 25, commi 6 e 7, del CCNL prevedesse la sospensione del procedimento disciplinare in pendenza del procedimento penale promosso per i medesimi fatti. Il Ministero ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza impugnata per vizi di motivazione e violazione di legge.
         La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 10991 del 25 maggio 2005, Pres. Mattone, Rel. D’Agostino) ha rigettato il ricorso, richiamando la sua giurisprudenza secondo cui ai fini della qualificazione del licenziamento come “disciplinare” rilevano non soltanto le violazioni del codice disciplinare predisposto dal datore di lavoro, ma anche le violazioni di norme di legge, in primo luogo delle leggi penali, nonché l’inosservanza degli altri doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione. Trattandosi di provvedimento disciplinare – ha osservato la Corte – il Ministero era tenuto a rispettare le norme procedimentali e di garanzia previste dal contratto collettivo. Pertanto – ha concluso la Cassazione – la Corte di Appello ha correttamente ritenuto illegittimo il licenziamento per violazione di due disposizioni procedimentali: a) per il mancato rispetto del termine di 120 giorni dalla contestazione per concludere il procedimento a pena di estinzione dello stesso (art. 24 comma 6 del CCNL), con la conseguente violazione della forma convenzionale; b) per il mancato rispetto della sospensione del procedimento disciplinare in pendenza del procedimento penale per i medesimi fatti e fino alla sentenza definitiva (art. 25 commi 6 e 7 CCNL), con la conseguenza che il recesso è stato adottato in carenza del relativo potere.
 

L’USO TEMPORANEO PER FINI PERSONALI DI UN’AUTOVETTURA AZIENDALE DI CUI SI ABBIA LA DETENZIONE NON COSTITUISCE UNA MANCANZA TANTO GRAVE DA GIUSTIFICARE IL LICENZIAMENTO – Deve escludersi la configurabilità di un reato (Cassazione Sezione Lavoro n. 10287 del 17 maggio 2005, Pres. Mileo, Rel. Toffoli).
         Umberto G., dipendente della srl Tecnology Italiana con mansioni di installatore e programmatore di macchinari presso i clienti dell’azienda, residente a Genova, ha rilevato un’autovettura aziendale per effettuare un viaggio di servizio in Spagna. Ciò è avvenuto il venerdì, in vista della partenza prevista per il lunedì successivo. Nel fine settimana egli ha utilizzato l’autovettura per recarsi a Cremona per ragioni personali. L’azienda lo ha sottoposto a procedimento disciplinare per uso personale di materiale aziendale. Il lavoratore ha ammesso la sua responsabilità, sostenendo di avere avuto una improvvisa necessità di fare uso della vettura. L’azienda lo ha licenziato. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Genova contestando la gravità del comportamento attribuitogli. Il Tribunale ha annullato il licenziamento, ha ordinato la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro ed ha condannato l’azienda al risarcimento del danno. La società ha proposto appello sostenendo tra l’altro che il dipendente aveva tenuto un comportamento penalmente rilevante. 
         La Corte di Genova ha rigettato l’impugnazione osservando che doveva escludersi la configurabilità di reati. La detenzione dell’autovettura da parte di Umberto G. – ha osservato la Corte –  era legittima e non era contestato che al termine del viaggio a Cremona egli avrebbe ricondotto la ventura nel proprio garage per farne l’uso consentito il successivo lunedì. Si era verificato quindi l’uso improprio temporaneo della vettura, che non integrava né il furto d’uso, avendo il soggetto già la detenzione della cosa e mancando quindi lo spossessamento, così come delineato dalla dottrina e dalla giurisprudenza penalistica, e neanche l’appropriazione indebita, in quanto tale ipotesi richiede, oltre alla previa detenzione della cosa, la definitiva perdita del bene da parte del legittimo proprietario, o attraverso il consumo del medesimo, o attraverso la sua irreversibile acquisizione al patrimonio dell’autore del fatto. Peraltro, non poteva considerarsi prova dell’intento appropriativo il fatto che Umberto G. avesse scaricato il materiale dell’azienda dalla vettura prima del viaggio indebito, poiché si trattava di una condotta cautelativa, finalizzata ad evitare che anche l’attrezzatura aziendale fosse soggetta al viaggio ed esposta quindi a maggiori rischi di furto o perdita rispetto a quelli esistenti durante il ricovero nel garage. Ne conseguiva, secondo la Corte d’appello, che il giudicante era libero di valutare la rispondenza del fatto contestato all’ipotesi di cui all’art. 2119 c.c. In concreto, ad avviso della Corte, la sanzione del licenziamento non era proporzionata alla gravità del fatto. Era indubitabile che l’uso della vettura aziendale era stato nella specie ingiustificato e commesso in violazione dell’esplicito divieto da parte della datrice di lavoro di fare uso delle vetture aziendali per scopi personali, tuttavia il fatto non poteva avere determinato una rottura del rapporto fiduciario tale da non consentire la prosecuzione del rapporto. Nel caso in esame l’assunto secondo cui l’uso improprio della vettura per una giornata era tale da ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario non era fondato: in assenza di deduzioni su come tale mancanza potesse riflettersi sull’esecuzione da parte di Umberto G. delle mansioni affidategli, gli unici rilievi idonei a giustificare il licenziamento avrebbero potuto essere o quello relativo alla pregressa reiterazione della condotta, circostanza che non era dedotta, oppure quello dell’esistenza di un timore di reiterazione della condotta in futuro. Rispetto a quest’ultima ipotesi, però, non era possibile una previsione positiva e, soprattutto, non poteva affermarsi l’inidoneità dissuasiva di una diversa e minore sanzione non espulsiva. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Appello per vizi di motivazione e violazione di legge.
         La Suprema Corte (Sezione Lavoro 10287 del 17 maggio 2005, Pres. Mileo, Rel. Toffoli) ha rigettato il ricorso. Come è noto, le nozioni penalistiche di possesso e di detenzione, rilevanti ai fini della delimitazione delle aree coperte dalle figure delittuose del furto e della appropriazione indebita, non coincidono perfettamente con le corrispondenti nozioni civilistiche, caratterizzate peraltro dall’esistenza di diversi tipi di detenzione. In particolare, deve ricordarsi che il “possesso” della cosa mobile da parte dell’agente, che fa escludere la configurabilità del furto – perché lo stesso consiste nel fatto di “impossessarsi” della cosa – e contemporaneamente rende configurabile la figura dell’appropriazione indebita della cosa altrui, nel caso in cui concorrano gli elementi costitutivi della appropriazione, richiede un potere sulla cosa che si eserciti al di fuori dei poteri di vigilanza e custodia che spettano al proprietario.  
 

L’obbligo del datore di lavoro di corrispondere la retribuzione in caso di mancata reintegrazione dopo l’annullamento del licenziamento permane anche se la sentenza di primo grado viene riformata – In base all’art. 18 St. Lav. - L’art. 18, L. 20 maggio 1970, n. 300, nel prevedere l’obbligo del datore di lavoro (inottemperante all’ordine di reintegrazione contenuto nella sentenza pretorile dichiarativa della illegittimità del licenziamento) di corrispondere al lavoratore le retribuzioni dovutegli in virtù del rapporto di lavoro, equiparava alla effettiva utilizzazione delle energie lavorative del dipendente la mera utilizzabilità di esse, stante la situazione di fatto caratterizzata dalla disponibilità del lavoratore, se richiesto in dipendenza di quell’ordine a riprendere servizio. Da ciò la conseguenza che, una volta rimosso quell’ordine con sentenza di riforma in appello, dichiarativa della legittimità del licenziamento, le retribuzioni relative a frazioni di tempo anteriori alla rimozione possono essere richieste, anche in distinto giudizio, in forza del principio di cui all’art. 2116 c.c., restando totalmente insensibili alla vicenda del venir meno del titolo giudiziale (Cass. Sez. Un. 13 aprile 1988, n. 2925). 
         Questo principio è stato confermato anche nella vigenza della nuova disciplina introdotta dalla legge n. 108 del 1990, sebbene rechi la qualificazione di tali attribuzioni come risarcimento e non più come retribuzione, atteso che il diritto all’indennità risarcitoria, corrisposta a norma del nuovo testo dell’art. 18 L. n. 300 del 1970 per il caso di inottemperanza all’ordine di reintegrazione, non sorge comunque dall’illegittimità del licenziamento (esclusa dalla sentenza di riforma), ma dall’inottemperanza all’ordine di reintegrazione, che, non essendo coercibile, implica la scelta datoriale di non utilizzare le prestazioni del lavoratore nonostante l’avvenuta ricostituzione del rapporto, ricostituzione da considerarsi definitiva nel detto periodo ai sensi e per gli effetti dell’art. 2126 c.c. (Cass. 14 maggio 1998, n. 4881).
         Sono questi principi dei quali hanno fatto applicazione le sentenze che, in caso di transazioni intervenute dopo la sentenza di primo grado, hanno escluso che la rinuncia del lavoratore alle retribuzioni dovute nel periodo tra ordine di reintegrazione e conferma degli effetti del licenziamento implicasse anche l’estinzione dell’obbligazione contributiva, siccome era definitivamente nata per effetto dell’art. 2126 c.c., essendo dovuta la retribuzione del periodo e restando sottratta ai poteri dispositivi delle parti l’obbligazione contributiva, ormai nata per effetto dell’indicata norma (Cass. 27 ottobre 1997, n. 10573; 17 aprile 2001, n. 5369; 7 marzo 2003 n. 3487).
         Nella fattispecie, invece, la sentenza impugnata ha affermato sussistere l’obbligo contributivo in relazione a retribuzioni che non spettavano al lavoratore, in quanto afferenti a periodo precedente la sentenza di reintegrazione; obbligo che, al contrario, doveva ritenersi escluso dall’estinzione del rapporto di lavoro determinato dal licenziamento, la cui efficacia è stata confermata con la rinuncia all’impugnazione (Cassazione Sezione Lavoro n. 11091 del 26 maggio 2005, Pres. Mattone, Rel. Picone).
 


Nel procedimento disciplinare deve essere rispettato il principio dell’immutabilità della contestazione –  A garanzia del diritto di difesa dell’incolpato –  Nel procedimento disciplinare la contestazione degli addebiti assolve alla finalità di consentire al lavoratore, una volta presa cognizione delle accuse rivoltegli, di esercitare compiutamente il proprio diritto di difesa. In tale ottica si ritiene che il requisito della specificità sussista ove la contestazione sia idonea a realizzare il risultato di consentire al lavoratore una puntuale difesa; a tal fine si richiede che la contestazione individui i fatti addebitati con sufficiente precisione, anche se sinteticamente, in modo che non risulti incertezza circa l’ambito delle questioni sulle quali il lavoratore è chiamato a difendersi. Tale principio deve essere coniugato con quello dell’immutabilità della contestazione che, per constante giurisprudenza è finalizzato ad impedire al datore di lavoro di porre a fondamento della sanzione disciplinare e, in particolare, del licenziamento, fatti diversi da quelli contestati. In altre parole, in applicazione di questo secondo principio, è precluso al datore di lavoro di far valere, a sostegno delle sue determinazioni disciplinari, circostanze nuove rispetto a quelle contestate, tali da implicare una diversa valutazione dell’infrazione disciplinare, dovendosi garantire l’effettivo diritto di difesa che la normativa sul procedimento disciplinare di cui all’art. 7 della legge n. 300 del 1970 assicura al lavoratore incolpato (Cassazione Sezione Lavoro n. 10292 del 17 maggio 2005, Pres. Ravagnani, Rel. Di Cerbo).