L’INDENNITA’ PER I RATEI
DI FERIE NON GODUTE NELL’ULTIMO ANNO DEL RAPPORTO DI LAVORO HA NATURA
RETRIBUTIVA – Il relativo importo deve essere incluso nel calcolo del
t.f.r. (Cassazione Sezione Lavoro n. 11960 dell’8 giugno 2005, Pres. Mattone,
Rel. Roselli).
Francesco R., dipendente della s.p.a.
Fiat Auto, ha sempre goduto regolarmente delle ferie. Nell’ultimo anno di lavoro
egli non ne ha fruito perché la cessazione del rapporto è avvenuta prima del
periodo previsto per le ferie. Tra le spettanze di fine rapporto l’azienda gli
ha corrisposto una somma a titolo di indennità per le ferie non godute, in
applicazione del contratto collettivo che prevedeva, nel caso di risoluzione del
contratto di lavoro “il pagamento delle ferie in proporzione dei dodicesimi
maturati”.
Questa somma non è stata inclusa nella
retribuzione ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto. Il lavoratore
ha chiesto al Tribunale di Torino di condannare l’azienda al pagamento delle
differenze derivate dalla mancata inclusione dell’indennità per ferie non godute
nella base di calcolo del trattamento di fine rapporto. Il Tribunale ha
rigettato la domanda, in quanto ha escluso la natura retributiva dell’indennità.
Questa decisione è stata riformata dalla Corte di Appello di Torino che ha
condannato l’azienda al pagamento della differenza richiesta. Il pagamento dei
ratei di ferie non godute – ha osservato la Corte – essendo previsto dal
contratto collettivo e non derivando da un’inadempienza del datore di lavoro,
non aveva funzione risarcitoria, ma retributiva e pertanto il relativo importo
andava incluso nel calcolo del t.f.r. L’azienda ha proposto ricorso per
cassazione, censurando la sentenza della Corte di Appello di Torino per
violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 11960
dell’8 giugno 2005, Pres. Mattone, Rel. Roselli) ha rigettato il ricorso. Ai
sensi dell’art. 2109, secondo comma, cod. civ. – ha osservato la Cassazione – il
prestatore di lavoro ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuito, che
l’art. 36, terzo comma, Cost. definisce irrinunciabile; questo diritto è
proporzionale alla quantità di lavoro prestato ossia matura progressivamente
durante lo svolgimento del rapporto di lavoro, compreso il periodo di prova
talora anche in caso di sospensione, ad es. per maternità; le ferie debbono
essere di regola godute durante l’anno lavorativo ma col consenso del lavoratore
possono essere posticipate, mentre in caso di mancata fruizione il contratto
collettivo può prevedere il diritto ad un’indennità sostitutiva. Circa la
funzione, risarcitoria o retributiva, di questa indennità – ha rilevato la Corte
– esiste un contrasto di giurisprudenza; nella presente controversia tuttavia
non è necessario prendere posizione sul contrasto, essendo certo che, quando la
mancata fruizione delle ferie sia sicuramente non imputabile al datore di
lavoro, a causa della risoluzione del rapporto durante l’anno (in tal caso il
contratto collettivo sottoposto alla Corte di Appello prevedeva un compenso
proporzionale ai dodicesimi di retribuzione maturati) o anche a fine anno nel
caso di ferie posticipate, non è possibile ravvisare alcun inadempimento di
obblighi derivanti da legge o da contratto e quindi attribuire alcuna funzione
risarcitoria alle somme corrisposte al lavoratore, le quali assumono così natura
retributiva.
Questa interpretazione – ha aggiunto la
Corte – è corroborata dal secondo comma dell’art. 2120 cod. civ., secondo cui,
salvo diversa previsione dei contratti collettivi, la retribuzione annua, ai
fini della determinazione del trattamento di fine rapporto, comprende tutte le
somme corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale
e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese; tale
disposizione è ispirata al criterio di onnicomprensività, che è derogabile solo
dalla contrattazione collettiva, nel senso che vanno considerate come
retribuzione tutte le somme pagate per causa tipica e normale del rapporto di
lavoro ed anche non correlate alla effettiva prestazione lavorativa, con
esclusione di quelle dovute ad occasione accidentalmente connessa col rapporto;
in tal senso si è espressa la sentenza impugnata, la quale, in presenza di una
somma corrisposta in connessione e proporzione con le prestazioni lavorative già
eseguite ed in difetto di contraria clausola contrattuale, ha ritenuto doversi
comprendere le dette somme nella base di calcolo del trattamento di fine
rapporto.
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Il giudizio espresso,
come testimone, dal medico che ha rilasciato il certificato non è sufficiente a
provare la malattia del lavoratore – E’ necessaria la consulenza tecnica –
Ai fini della prova della malattia del lavoratore, non è sufficiente la
testimonianza del medico autore del relativo certificato, allorché tale
testimonianza si risolva in una valutazione di natura medico-legale. E’
principio costantemente affermato in giurisprudenza che la prova testimoniale
deve avere ad oggetto fatti e non apprezzamenti e che il giudice del merito deve
negare valore probatorio decisivo alle deposizioni testimoniali che si traducono
in una interpretazione soggettiva ovvero in un mero apprezzamento tecnico del
fatto. Per le valutazioni di natura specialistica e tecnica della situazione da
esaminare il giudice del merito deve avvalersi dello strumento giuridico
specifico offertogli dal codice di rito, ossia di una consulenza tecnica
d’ufficio, che oltretutto offre maggiori garanzie di tutela per il
contraddittore (Cassazione Sezione Lavoro n. 11747 del 6 giugno 2005, Pres.
Mercurio, Rel. D’Agostino
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Immediatezza
della contestazione e tempestività del recesso sono due distinti principi
che vanno applicati nel provvedimento disciplinare – Nel rispetto delle regole
di correttezza e buona fede – In tema di licenziamento disciplinare, la
giurisprudenza di legittimità ha elaborato due distinti principi, quello della
immediatezza della contestazione e quello della tempestività del recesso. Il
primo attiene al tempo intercorrente tra la data di commissione dell’infrazione
disciplinare (o della sua ultima manifestazione) e la sua contestazione da parte
del datore di lavoro. Più precisamente, la tempestività va valutata dal momento
in cui il datore di lavoro è venuto con certezza a conoscenza del fatto posto in
essere dal dipendente. La ragione per cui si richiede l’immediatezza viene
individuata nel principio di correttezza e buona fede, sia per consentire la
difesa dell’incolpato, nella prossimità temporale dei fatti, sia per sancire con
la contestazione la irregolarità della condotta, che un silenzio consapevole del
datore di lavoro potrebbe viceversa avallare come prassi consentita. Date queste
ragioni, e risolvendosi il principio di immediatezza in una pretesa di sollecito
comportamento del datore di lavoro, essa può essere valutata solo in relazione a
comportamenti consapevoli di questi, e cioè dalla conoscenza dei fatti, e non
dalla loro commissione. La tempestività del recesso attiene viceversa al tempo
intercorrente tra la contestazione e l’intimazione della sanzione. Solo in casi
del tutto particolari, fatti disciplinari molto antichi rispetto al momento in
cui sono venuti a conoscenza del datore di lavoro, potrebbero avere esaurito il
loro disvalore disciplinare, ma questo è un problema diverso, che non attiene al
principio della immediatezza, la quale decorre sempre dalla conoscenza del
fatto, bensì alla valutazione della sua gravità, rapportata anche al tempo
trascorso (Cassazione Sezione Lavoro n. 10302 del 17 maggio 2005, Pres. Mattone,
Rel. De Matteis).
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Le assenze per malattia
causate dall’adibizione del lavoratore a mansioni non compatibili con le sue
condizioni di salute non possono essere incluse nel calcolo del comporto – Si
applica l’art. 2087 cod. civ. – Il datore di lavoro, una volta che sia
emerso che il lavoratore, addetto a prestazioni di tipo manuale, presenta
infermità che mettono in dubbio la compatibilità delle mansioni cui è addetto
con il suo stato di salute, ha il dovere di verificare tale compatibilità e di
assumere i provvedimenti conseguenti, a norma dell’art. 2087 c.c. e dell’art. 4,
comma 5, lett. c) del d.lgs. n. 626/1994. L’eventuale impossibilità, sul piano
organizzativo, di assegnare il lavoratore a mansioni compatibili con le
specifiche infermità e limitazioni fisiche da cui il medesimo sia affetto non
giustifica l’assegnazione a mansioni non compatibili; salva rimanendo la
possibilità del datore di lavoro di licenziare il lavoratore per giustificato
motivo oggettivo, in caso di comprovata impossibilità di assegnazione dello
stesso a mansioni compatibili anche con deroga al divieto ad assegnazione a
mansioni di livello inferiore. Peraltro non è in discussione che le assenze per
malattia, che siano valutabili come conseguenza dell’illegittima assegnazione
del lavoratore a mansioni non compatibili con il suo stato di salute, non
possono rilevare ai fini del superamento del periodo di comporto (Cassazione
Sezione Lavoro n. 11092 del 26 maggio 2005, Pres. Mattone, Rel. Toffoli).
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Perché si proceda
alla contestazione disciplinare non è necessaria la certezza del fatto
addebitato – L’accertamento occorre per l’applicazione della sanzione –
Il principio dell’immediatezza della contestazione disciplinare
(anche se il relativo criterio deve essere inteso in senso relativo, dovendosi
tener conto della specifica natura dell’illecito nonché del tempo necessario
alle indagini, tanto maggiore quanto più complessa è l’organizzazione
aziendale), è fondato sulla regola della correttezza e della buona fede nello
svolgimento del rapporto; e, quale elemento costitutivo del diritto di
recesso, non consente di procrastinare la contestazione medesima.
E’ tuttavia da osservare che la contestazione, per la sua stessa
natura, non esige necessariamente l’assoluta certezza della realtà.
Indipendentemente dal fatto che questa certezza è conseguibile solo con una
sentenza inoppugnabile (anche in tal caso resta, tuttavia, una “verità”
formale, non reale), la stessa necessità della contestazione (quale mezzo che
ha la funzione di consentire al lavoratore di esprimere anche la sua diversa
ricostruzione dei fatti) presuppone la possibilità (inscritta nello stesso
procedimento ex art. 7 della Legge 20 maggio 1970 n. 300) che la realtà sia
oggettivamente diversa dai fatti contestati. Alla contestazione è pertanto
sufficiente una realtà che consenta di ritenere ragionevolmente sussistenti i
fatti da addebitare (la certezza diventa necessaria per l’irrogazione della
sanzione). Questa ragionevolezza, tuttavia, non solo giustifica la
contestazione (conferendo all’atto datoriale la veste della serietà ed
escludendo un comportamento arbitrario e – al limite – potenzialmente
offensivo), bensì (per il principio di buona fede, quale regola del
comportamento datoriale anche nel corso dell’indicato procedimento) la rende
necessaria. Ed il suo insorgere delinea (con ovvia approssimazione) il “dies
a quo” per la valutazione della tempestività (Cassazione Sezione Lavoro n.
9955 del 12 maggio 2005, Pres. Mercurio, Rel. Cuoco).
IL PROCEDIMENTO
DISCIPLINARE A CARICO DI UN
FUNZIONARIO MINISTERIALE DEVE ESSERE CONCLUSO NEL TERMINE DI 120 GIORNI DALLA
DATA DELLA CONTESTAZIONE DELL’ADDEBITO – L’inosservanza di questa
prescrizione comporta l’illegittimità della sanzione (Cassazione
Sezione Lavoro n. 10991 del 25 maggio 2005, Pres. Mattone, Rel. D’Agostino).
Mario D., funzionario del Ministero delle
Finanze, è stato arrestato il 4 giugno 1994 per tentata concussione nei
confronti di un contribuente e per resistenza e lesioni a pubblico ufficiale.
Per questo egli ha subito, da parte del Ministero, la sospensione cautelare
dal servizio. Successivamente, mentre era ancora in corso il procedimento
penale, il Ministero, nel giugno del 2000, gli ha comunicato il licenziamento
per giusta causa con motivazione riferita ai fatti oggetto del processo
penale. Mario D. ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Verona,
sostenendo che si trattava di un provvedimento disciplinare e che pertanto
doveva ritenersi illegittimo per inosservanza delle norme procedimentali
previste dal contratto collettivo del 1995 per l’applicazione delle sanzioni
disciplinari. Il Ministero si è difeso sostenendo, tra l’altro, che non si era
trattato di un provvedimento disciplinare ma di un licenziamento per giusta
causa intimato in base all’art. 2119 cod. civ. Il Tribunale ha rigettato la
domanda ma la sua decisione è stata integralmente riformata dalla Corte di
Appello di Venezia, che ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento ed ha
condannato il Ministero a reintegrare il dipendente e a corrispondergli le
retribuzioni dalla data del licenziamento a quello della effettiva
reintegrazione. La Corte ha affermato che il licenziamento era ontologicamente
disciplinare e di conseguenza doveva ritenersi illegittimo, sia perché il
Ministero non aveva rispettato il termine di 120 giorni dalla contestazione
dell’addebito per concludere il procedimento (stabilito dall’art. 24 comma 6
del CCNL del 1995) sia perché il provvedimento era stato irrogato nonostante
che l’art. 25, commi 6 e 7, del CCNL prevedesse la sospensione del
procedimento disciplinare in pendenza del procedimento penale promosso per i
medesimi fatti. Il Ministero ha proposto ricorso per cassazione censurando la
sentenza impugnata per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 10991
del 25 maggio 2005, Pres. Mattone, Rel. D’Agostino) ha rigettato il ricorso,
richiamando la sua giurisprudenza secondo cui ai fini della qualificazione del
licenziamento come “disciplinare” rilevano non soltanto le violazioni del
codice disciplinare predisposto dal datore di lavoro, ma anche le violazioni
di norme di legge, in primo luogo delle leggi penali, nonché l’inosservanza
degli altri doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza
necessità di specifica previsione. Trattandosi di provvedimento disciplinare –
ha osservato la Corte – il Ministero era tenuto a rispettare le norme
procedimentali e di garanzia previste dal contratto collettivo. Pertanto – ha
concluso la Cassazione – la Corte di Appello ha correttamente ritenuto
illegittimo il licenziamento per violazione di due disposizioni procedimentali:
a) per il mancato rispetto del termine di 120 giorni dalla contestazione per
concludere il procedimento a pena di estinzione dello stesso (art. 24 comma 6
del CCNL), con la conseguente violazione della forma convenzionale; b) per il
mancato rispetto della sospensione del procedimento disciplinare in pendenza
del procedimento penale per i medesimi fatti e fino alla sentenza definitiva
(art. 25 commi 6 e 7 CCNL), con la conseguenza che il recesso è stato adottato
in carenza del relativo potere.
L’USO TEMPORANEO PER
FINI PERSONALI DI UN’AUTOVETTURA AZIENDALE DI CUI SI ABBIA LA DETENZIONE NON
COSTITUISCE UNA MANCANZA TANTO GRAVE DA GIUSTIFICARE IL LICENZIAMENTO –
Deve escludersi la configurabilità di un reato (Cassazione Sezione
Lavoro n. 10287 del 17 maggio 2005, Pres. Mileo, Rel. Toffoli).
Umberto G., dipendente della srl Tecnology
Italiana con mansioni di installatore e programmatore di macchinari presso i
clienti dell’azienda, residente a Genova, ha rilevato un’autovettura aziendale
per effettuare un viaggio di servizio in Spagna. Ciò è avvenuto il venerdì, in
vista della partenza prevista per il lunedì successivo. Nel fine settimana
egli ha utilizzato l’autovettura per recarsi a Cremona per ragioni personali.
L’azienda lo ha sottoposto a procedimento disciplinare per uso personale di
materiale aziendale. Il lavoratore ha ammesso la sua responsabilità,
sostenendo di avere avuto una improvvisa necessità di fare uso della vettura.
L’azienda lo ha licenziato. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento
davanti al Tribunale di Genova contestando la gravità del comportamento
attribuitogli. Il Tribunale ha annullato il licenziamento, ha ordinato la
reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro ed ha condannato l’azienda
al risarcimento del danno. La società ha proposto appello sostenendo tra
l’altro che il dipendente aveva tenuto un comportamento penalmente rilevante.
La Corte di Genova ha rigettato
l’impugnazione osservando che doveva escludersi la configurabilità di reati.
La detenzione dell’autovettura da parte di Umberto G. – ha osservato la Corte
– era legittima e non era contestato che al termine del viaggio a Cremona
egli avrebbe ricondotto la ventura nel proprio garage per farne l’uso
consentito il successivo lunedì. Si era verificato quindi l’uso improprio
temporaneo della vettura, che non integrava né il furto d’uso, avendo il
soggetto già la detenzione della cosa e mancando quindi lo spossessamento,
così come delineato dalla dottrina e dalla giurisprudenza penalistica, e
neanche l’appropriazione indebita, in quanto tale ipotesi richiede, oltre alla
previa detenzione della cosa, la definitiva perdita del bene da parte del
legittimo proprietario, o attraverso il consumo del medesimo, o attraverso la
sua irreversibile acquisizione al patrimonio dell’autore del fatto. Peraltro,
non poteva considerarsi prova dell’intento appropriativo il fatto che Umberto
G. avesse scaricato il materiale dell’azienda dalla vettura prima del viaggio
indebito, poiché si trattava di una condotta cautelativa, finalizzata ad
evitare che anche l’attrezzatura aziendale fosse soggetta al viaggio ed
esposta quindi a maggiori rischi di furto o perdita rispetto a quelli
esistenti durante il ricovero nel garage. Ne conseguiva, secondo la Corte
d’appello, che il giudicante era libero di valutare la rispondenza del fatto
contestato all’ipotesi di cui all’art. 2119 c.c. In concreto, ad avviso della
Corte, la sanzione del licenziamento non era proporzionata alla gravità del
fatto. Era indubitabile che l’uso della vettura aziendale era stato nella
specie ingiustificato e commesso in violazione dell’esplicito divieto da parte
della datrice di lavoro di fare uso delle vetture aziendali per scopi
personali, tuttavia il fatto non poteva avere determinato una rottura del
rapporto fiduciario tale da non consentire la prosecuzione del rapporto. Nel
caso in esame l’assunto secondo cui l’uso improprio della vettura per una
giornata era tale da ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario non era
fondato: in assenza di deduzioni su come tale mancanza potesse riflettersi
sull’esecuzione da parte di Umberto G. delle mansioni affidategli, gli unici
rilievi idonei a giustificare il licenziamento avrebbero potuto essere o
quello relativo alla pregressa reiterazione della condotta, circostanza che
non era dedotta, oppure quello dell’esistenza di un timore di reiterazione
della condotta in futuro. Rispetto a quest’ultima ipotesi, però, non era
possibile una previsione positiva e, soprattutto, non poteva affermarsi
l’inidoneità dissuasiva di una diversa e minore sanzione non espulsiva.
L’azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della
Corte di Appello per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro 10287 del
17 maggio 2005, Pres. Mileo, Rel. Toffoli) ha rigettato il ricorso. Come è
noto, le nozioni penalistiche di possesso e di detenzione, rilevanti ai fini
della delimitazione delle aree coperte dalle figure delittuose del furto e
della appropriazione indebita, non coincidono perfettamente con le
corrispondenti nozioni civilistiche, caratterizzate peraltro dall’esistenza di
diversi tipi di detenzione. In particolare, deve ricordarsi che il “possesso”
della cosa mobile da parte dell’agente, che fa escludere la configurabilità
del furto – perché lo stesso consiste nel fatto di “impossessarsi” della cosa
– e contemporaneamente rende configurabile la figura dell’appropriazione
indebita della cosa altrui, nel caso in cui concorrano gli elementi
costitutivi della appropriazione, richiede un potere sulla cosa che si
eserciti al di fuori dei poteri di vigilanza e custodia che spettano al
proprietario.
L’obbligo del datore di
lavoro di corrispondere la retribuzione in caso di
mancata reintegrazione dopo l’annullamento del licenziamento permane anche se
la sentenza di primo grado viene riformata – In base all’art. 18 St. Lav. -
L’art. 18, L. 20 maggio 1970, n. 300, nel prevedere l’obbligo del
datore di lavoro (inottemperante all’ordine di reintegrazione contenuto nella
sentenza pretorile dichiarativa della illegittimità del licenziamento) di
corrispondere al lavoratore le retribuzioni dovutegli in virtù del rapporto di
lavoro, equiparava alla effettiva utilizzazione delle energie lavorative del
dipendente la mera utilizzabilità di esse, stante la situazione di fatto
caratterizzata dalla disponibilità del lavoratore, se richiesto in dipendenza
di quell’ordine a riprendere servizio. Da ciò la conseguenza che, una volta
rimosso quell’ordine con sentenza di riforma in appello, dichiarativa della
legittimità del licenziamento, le retribuzioni relative a frazioni di tempo
anteriori alla rimozione possono essere richieste, anche in distinto giudizio,
in forza del principio di cui all’art. 2116 c.c., restando totalmente
insensibili alla vicenda del venir meno del titolo giudiziale (Cass. Sez. Un.
13 aprile 1988, n. 2925).
Questo principio è stato confermato anche nella vigenza della nuova
disciplina introdotta dalla legge n. 108 del 1990, sebbene rechi la
qualificazione di tali attribuzioni come risarcimento e non più come
retribuzione, atteso che il diritto all’indennità risarcitoria, corrisposta a
norma del nuovo testo dell’art. 18 L. n. 300 del 1970 per il caso di
inottemperanza all’ordine di reintegrazione, non sorge comunque
dall’illegittimità del licenziamento (esclusa dalla sentenza di riforma), ma
dall’inottemperanza all’ordine di reintegrazione, che, non essendo coercibile,
implica la scelta datoriale di non utilizzare le prestazioni del lavoratore
nonostante l’avvenuta ricostituzione del rapporto, ricostituzione da
considerarsi definitiva nel detto periodo ai sensi e per gli effetti dell’art.
2126 c.c. (Cass. 14 maggio 1998, n. 4881).
Sono questi principi dei quali hanno fatto applicazione le sentenze
che, in caso di transazioni intervenute dopo la sentenza di primo grado, hanno
escluso che la rinuncia del lavoratore alle retribuzioni dovute nel periodo
tra ordine di reintegrazione e conferma degli effetti del licenziamento
implicasse anche l’estinzione dell’obbligazione contributiva, siccome era
definitivamente nata per effetto dell’art. 2126 c.c., essendo dovuta la
retribuzione del periodo e restando sottratta ai poteri dispositivi delle
parti l’obbligazione contributiva, ormai nata per effetto dell’indicata norma
(Cass. 27 ottobre 1997, n. 10573; 17 aprile 2001, n. 5369; 7 marzo 2003 n.
3487).
Nella fattispecie, invece, la sentenza impugnata ha affermato
sussistere l’obbligo contributivo in relazione a retribuzioni che non
spettavano al lavoratore, in quanto afferenti a periodo precedente la sentenza
di reintegrazione; obbligo che, al contrario, doveva ritenersi escluso
dall’estinzione del rapporto di lavoro determinato dal licenziamento, la cui
efficacia è stata confermata con la rinuncia all’impugnazione (Cassazione
Sezione Lavoro n. 11091 del 26 maggio 2005, Pres. Mattone, Rel. Picone).
Nel procedimento disciplinare
deve essere rispettato il principio dell’immutabilità della contestazione
– A garanzia del diritto di difesa dell’incolpato – Nel procedimento
disciplinare la contestazione degli addebiti assolve alla finalità di
consentire al lavoratore, una volta presa cognizione delle accuse
rivoltegli, di esercitare compiutamente il proprio diritto di difesa. In
tale ottica si ritiene che il requisito della specificità sussista ove la
contestazione sia idonea a realizzare il risultato di consentire al
lavoratore una puntuale difesa; a tal fine si richiede che la
contestazione individui i fatti addebitati con sufficiente precisione,
anche se sinteticamente, in modo che non risulti incertezza circa l’ambito
delle questioni sulle quali il lavoratore è chiamato a difendersi. Tale
principio deve essere coniugato con quello dell’immutabilità della
contestazione che, per constante giurisprudenza è finalizzato ad impedire
al datore di lavoro di porre a fondamento della sanzione disciplinare e,
in particolare, del licenziamento, fatti diversi da quelli contestati. In
altre parole, in applicazione di questo secondo principio, è precluso al
datore di lavoro di far valere, a sostegno delle sue determinazioni
disciplinari, circostanze nuove rispetto a quelle contestate, tali da
implicare una diversa valutazione dell’infrazione disciplinare, dovendosi
garantire l’effettivo diritto di difesa che la normativa sul procedimento
disciplinare di cui all’art. 7 della legge n. 300 del 1970 assicura al
lavoratore incolpato (Cassazione Sezione Lavoro n. 10292 del 17 maggio
2005, Pres. Ravagnani, Rel. Di Cerbo).
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