La Quarta Sezione
del Consiglio di Stato (Sentenza n. 2572/2004) ha stabilito che, in
presenza di valide ragioni, è possibile aggiungere al cognome paterno
anche quello della madre. I Giudici Amministrativi hanno precisato quanto
segue: "premesso che l'art. 158 R.D.L. 9 luglio 1939 n. 1238 pone come
unico divieto l'aggiunta al proprio cognome di un altro che abbia
importanza storica o appartenga a famiglia illustre o nota con il quale il
richiedente non abbia nessun rapporto; che, è stato affermato che,
pertanto, non sussiste divieto nel caso in cui il richiedente chieda di
aggiungere al proprio cognome quello della madre (Par. III, n. 1374/84);
che il principio di tendenziale stabilità del cognome, presente nel nostro
ordinamento, non implica l'assoluta assenza di deroghe alla regola della
riconoscibilità dell'individuo attraverso il solo cognome paterno (regola,
peraltro, costituente una mera scelta legislativa contingente e
modificabile, come dimostrano le innumerevoli iniziative parlamentari
presentate in tal senso, mutuate da esperienze di paesi diversi, europei e
non), la incontestata notorietà del cognome materno, M., del richiedente,
proprio in quanto tale, non poteva essere ignorata né
dall'Amministrazione, in sede di espressione di diniego, nè dal Tribunale
amministrativo in sede di valutazione della compiutezza della motivazione
del provvedimento". Con questa decisione il Consiglio ha respinto il
ricorso presentato dal Ministero di Grazia e Giustizia che, a sua volta,
aveva rigettato l'istanza di un cittadino che chiedeva di poter aggiungere
al proprio cognome anche quello della mamma.
Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
DIRITTO
1. L’appello è infondato.
Il diniego ministeriale di dare corso all’istanza di aggiunta del cognome
materno a quello paterno dell’originario ricorrente, reso nonostante il
favorevole parere espresso dal Procuratore generale presso la Corte di
appello, si fonda sulla prevalenza attribuita all’interesse pubblico
all’immutabilità del nome rispetto alle ragioni di natura affettiva e
sentimentale prospettate dal richiedente, nonché rispetto al desiderio di
rendere più saldo il rapporto affettivo tra fratelli (il richiedente e la
sorella, nata dalle seconde nozze della madre, che aveva presentato
analoga istanza di aggiunta al proprio del cognome materno).
Si sostiene, inoltre, nel provvedimento in questione che una modifica del
cognome dei due fratelli potrebbe indurre in errore sul loro reale status.
Il Tribunale amministrativo, nell’annullare il diniego, ha argomentato in
ragione di una mancata indicazione sia delle ragioni di dissenso
dell’Amministrazione, a fronte del parere positivo espresso dal
Procuratore generale, sia delle ragioni di non considerazione delle
giustificazioni di carattere morale ed affettivo, nonché di carattere
sociale, offerte a sostegno dell’istanza, nonché in ragione della
erroneità della tesi sostenuta nel provvedimento di diniego, secondo cui
l’accoglimento dell’istanza avrebbe potuto ingenerare errori sul reale
status della persona.
2. Le tesi del Tribunale amministrativo possono essere condivise.
Il diniego ministeriale di autorizzazione al mutamento di nome, ai sensi
degli artt. 153 e seguenti del R.D. 9 luglio 1939 n. 1238, costituisce,
come costantemente affermato da questo Consiglio di Stato (cfr. IV Sez.,
n. 906/89; par. III, n. 26/86), provvedimento eminentemente discrezionale,
in cui la salvaguardia dell’interesse pubblico alla tendenziale stabilità
del nome, connesso ai profili pubblicistici dello stesso come mezzo di
identificazione dell’individuo nella comunità sociale, può venire
contemperata con gli interessi di coloro che quel nome intendano mutare o
modificare nonché di coloro che a quel mutamento intendano opporsi.
Dalla natura discrezionale dell’impugnato provvedimento di diniego
discende – secondo i principi – che il sindacato giurisdizionale dello
stesso può essere condotto, quanto al vizio intrinseco dello sviamento,
sotto il limitato profilo della manifesta irragionevolezza delle
argomentazioni amministrative o del difetto di motivazione.
Nella fattispecie in esame, il diniego si fonda su una comparazione, da
ritenere inadeguata, dell’interesse dell’istante M. C. con l’interesse
pubblico alla tendenziale stabilità del nome e si risolve nella
attribuzione di una prevalenza all’interesse alla immutabilità del nome.
Invero, è stata già affermata dalla Sezione (cfr. dec. n. 750/84 e
1220/73) l’illegittimità di un provvedimento che neghi al richiedente
l’aggiunta di un cognome al proprio ove esso non risulti sufficientemente
motivato in ordine al dissenso dagli atti istruttori, favorevoli alla
richiesta dell’interessato.
Nella fattispecie, il Ministero di grazia e giustizia non ha indicato le
ragioni di opposizione rispetto al favorevole parere espresso dal
Procuratore generale. Nel primo motivo di appello si sostiene che tale
parere, avente natura di atto interno, era comunque immotivato e come tale
non richiedeva una esplicita confutazione, ma tale argomentazione non può
essere condivisa.
Appare, invero, evidente che il parere favorevole del Procuratore generale
sia stato espresso con riferimento alle ragioni esplicitate dal
richiedente nella propria istanza, in condivisione delle stesse, sicchè,
trattandosi di provvedimento discrezionale, l’Amministrazione aveva
l’onere di rendere note le ragioni di esercizio del proprio potere in
dissenso rispetto a detto parere.
Né può condividersi quanto affermato nel secondo motivo di appello, circa
la mancata indicazione delle ragioni di ordine sociale sottostanti la
richiesta di modifica del cognome, che sarebbero state autonomamente
apprezzate dal T.A.R. nella sentenza impugnata.
Invero, premesso che l’art. 158 R.D.L. 9 luglio 1939 n. 1238 [1]pone come
unico divieto l’aggiunta al proprio cognome di un altro che abbia
importanza storica o appartenga a famiglia illustre o nota con il quale il
richiedente non abbia nessun rapporto; che, è stato affermato che,
pertanto, non sussiste divieto nel caso in cui il richiedente chieda di
aggiungere al proprio cognome quello della madre (Par. III, n. 1374/84);
che il principio di tendenziale stabilità del cognome, presente nel nostro
ordinamento, non implica l’assoluta assenza di deroghe alla regola della
riconoscibilità dell’individuo attraverso il solo cognome paterno (regola,
peraltro, costituente una mera scelta legislativa contingente e
modificabile, come dimostrano le innumerevoli iniziative parlamentari
presentate in tal senso, mutuate da esperienze di paesi diversi, europei e
non), la incontestata notorietà del cognome materno, M., del richiedente,
proprio in quanto tale, non poteva essere ignorata né
dall’Amministrazione, in sede di espressione di diniego, nè dal Tribunale
amministrativo in sede di valutazione della compiutezza della motivazione
del provvedimento.
Sotto tale profilo, vanno quindi, rigettate le tesi dell’Amministrazione
appellante.
Non possono, altresì, essere condivise le argomentazioni che confutano la
decisione impugnata relativamente al punto di motivazione del
provvedimento concernente la possibilità che una modifica del cognome dei
due fratelli potesse indurre ad un errore circa il loro reale status.
Invero, va al riguardo ricordato che non è previsto dall’ordinamento e
dalla normativa all’epoca applicabile un divieto esplicito all’aggiunta
del cognome materno; va, altresì, rilevato che le ragioni di possibile
confusione sul reale status delle persone indicate nel provvedimento non
appaiono sorrette da logicità, atteso che la richiesta presentata era di
aggiunta di altro cognome, quello materno, all’originario cognome paterno,
e non di modifica dello stesso, sicchè, tuttalpiù, l’effetto sarebbe stato
quello di una più evidente esplicitazione della provenienza familiare dei
richiedenti, nei limiti consentiti dall’ordinamento.
3. L’appello è, pertanto, infondato e va respinto, con conseguente
conferma della sentenza impugnata.
Nulla è dovuto per le spese.
P. Q. M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione IV –
definitivamente pronunciando in ordine al ricorso in appello indicato in
epigrafe, lo rigetta e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.
Nulla per le spese.
Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2004 dal Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale, Sezione Quarta, nella Camera di Consiglio con
l'intervento dei Signori:
Dps: guida operativa del
Garante
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Con
provvedimento 11 giugno 2004 il Garante per la protezione dei dati
personali ha diffuso la guida operativa per redigere il documento
programmatico per la sicurezza, obbligo a cui sono tenuti i titolari
di trattamenti di dati sensibili e giudiziari in attuazione dell'all.
B del D.Lgs. n. 196 del 2003. La guida è divisa in due parti, nella
prima sono contenute alcune informazioni di carattere descrittivo e
istruzioni per la compilazione, mentre nella seconda sono riportate
alcune esemplificazioni di tabelle che possono essere utilizzate per
la redazione del documento.
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Anche nei
casi di particolare difficoltà,
il medico che non osservi l’obbligo di diligenza può essere ritenuto
responsabile del danno causato al paziente – Seppure la colpa sia lieve –
In materia di responsabilità del medico per danni causati al suo
paziente, la limitazione, stabilita dall’art. 2236 cod. civ., della
responsabilità del prestatore d’opera intellettuale alla colpa grave –
configurabile nel caso di mancata applicazione delle cognizioni generali e
fondamentali attinenti alla professione – è applicabile soltanto per la
colpa di imperizia nei casi di prestazioni particolarmente difficili. Non
può invece mai difettare, neppure nei casi di particolare difficoltà, nel
comportamento del medico, l’osservanza degli obblighi di diligenza del
professionista, che è un debitore qualificato, ai sensi dell’art. 1176,
secondo comma, cod. civ., e di prudenza, e che pertanto, pur nei casi di
particolare difficoltà, risponde anche per colpa lieve.
La difficoltà dell’intervento e la diligenza del professionista,
vanno valutate in concreto, rapportandole al livello della sua
specializzazione ed alle strutture tecniche a sua disposizione; egli
perciò, da un lato, deve valutare con grande prudenza e scrupolo i limiti
della propria adeguatezza professionale, ricorrendo anche all’ausilio di
un consulto se la sua situazione non è così urgente da sconsigliarlo;
dall’altro, deve adottare tutte le possibili misure volte ad ovviare alle
carenze strutturali ed organizzative incidenti sugli accertamenti
diagnostici e sui risultati dell’intervento, ovvero, ove ciò non sia
possibile, deve informarne il paziente, consigliandogli, se manca
l’urgenza di intervenire, il ricovero in una struttura più idonea.
Nella valutazione della responsabilità del medico, il
giudice del merito, per non incorrere nel vizio di motivazione, in
presenza di contrasto tra più consulenze tecniche d’ufficio espletate nel
corso del processo, può ben seguire le conclusioni dell’una o dell’altra,
ma è tenuto a fornire adeguata, logica ed esauriente motivazione del
convincimento raggiunto, enunciando gli elementi probatori, i criteri di
valutazione e gli argomenti logici e giuridici che lo hanno indotto alla
scelta. Tale obbligo è ancor più cogente e rigoroso allorquando la
preferenza sia accordata alla consulenza precedente, sulle cui conclusioni
quella successiva, dalla quale il giudice si discosta, abbia espresso il
proprio ragionato esame critico (Cassazione Sezione Terza Civile n. 12273
del 5 luglio 2004, Pres. Nicastro, Rel. Chiarini).
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