Cassazione: prove di abusi? Non vanno cercate nel diario personale

Le prove degli abusi subiti non vanno ricercate nel diario personale. In esso, infatti, si possono trovare solitamente ''maliziosita''' che si riferiscono comunque a ''stereotipie e a moduli espressivi dell'eta' adolescenziale''. Lo sottolinea la Corte di Cassazione, occupandosi del caso di Antonio G., un 43enne veneto condannato per il reato di violenza sessuale continuata ed aggravata nei confronti della figlia della convivente. L'uomo, gia' condannato dalla Corte d'appello di Venezia, con sentenza dell'ottobre 2001, si e' opposto in Cassazione sostenendo, per attenuare la sua posizione, che le accuse lanciate dalla ragazza erano frutto ''della vendetta attuata nei suoi confronti per il rigore educativo impostole''. A conferma della sua difesa, l'uomo ha sostenuto che la ragazza, nel suo diario personale, non aveva mai fatto riferimento agli abusi a lui contestati. La Terza sezione penale ha respinto la tesi di Antonio G. e, condividendo la tesi dei giudici di merito, ha sottolineato come ''la corte lagunare evidenzia che logicamente nel diario non possono essere inseriti episodi cosi' sordidi''. Le ''maliziosita' del diario personale'', osserva ancora la Suprema Corte, riguardano ''stereotipie e moduli espressivi'' propri ''dell'eta' adolescienziale''.


Consiglio di Stato: quando è possibile aggiungere il cognome materno

La Quarta Sezione del Consiglio di Stato (Sentenza n. 2572/2004) ha stabilito che, in presenza di valide ragioni, è possibile aggiungere al cognome paterno anche quello della madre. I Giudici Amministrativi hanno precisato quanto segue: "premesso che l'art. 158 R.D.L. 9 luglio 1939 n. 1238 pone come unico divieto l'aggiunta al proprio cognome di un altro che abbia importanza storica o appartenga a famiglia illustre o nota con il quale il richiedente non abbia nessun rapporto; che, è stato affermato che, pertanto, non sussiste divieto nel caso in cui il richiedente chieda di aggiungere al proprio cognome quello della madre (Par. III, n. 1374/84); che il principio di tendenziale stabilità del cognome, presente nel nostro ordinamento, non implica l'assoluta assenza di deroghe alla regola della riconoscibilità dell'individuo attraverso il solo cognome paterno (regola, peraltro, costituente una mera scelta legislativa contingente e modificabile, come dimostrano le innumerevoli iniziative parlamentari presentate in tal senso, mutuate da esperienze di paesi diversi, europei e non), la incontestata notorietà del cognome materno, M., del richiedente, proprio in quanto tale, non poteva essere ignorata né dall'Amministrazione, in sede di espressione di diniego, nè dal Tribunale amministrativo in sede di valutazione della compiutezza della motivazione del provvedimento". Con questa decisione il Consiglio ha respinto il ricorso presentato dal Ministero di Grazia e Giustizia che, a sua volta, aveva rigettato l'istanza di un cittadino che chiedeva di poter aggiungere al proprio cognome anche quello della mamma.
Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)


DIRITTO

1. L’appello è infondato.

Il diniego ministeriale di dare corso all’istanza di aggiunta del cognome materno a quello paterno dell’originario ricorrente, reso nonostante il favorevole parere espresso dal Procuratore generale presso la Corte di appello, si fonda sulla prevalenza attribuita all’interesse pubblico all’immutabilità del nome rispetto alle ragioni di natura affettiva e sentimentale prospettate dal richiedente, nonché rispetto al desiderio di rendere più saldo il rapporto affettivo tra fratelli (il richiedente e la sorella, nata dalle seconde nozze della madre, che aveva presentato analoga istanza di aggiunta al proprio del cognome materno).

Si sostiene, inoltre, nel provvedimento in questione che una modifica del cognome dei due fratelli potrebbe indurre in errore sul loro reale status.

Il Tribunale amministrativo, nell’annullare il diniego, ha argomentato in ragione di una mancata indicazione sia delle ragioni di dissenso dell’Amministrazione, a fronte del parere positivo espresso dal Procuratore generale, sia delle ragioni di non considerazione delle giustificazioni di carattere morale ed affettivo, nonché di carattere sociale, offerte a sostegno dell’istanza, nonché in ragione della erroneità della tesi sostenuta nel provvedimento di diniego, secondo cui l’accoglimento dell’istanza avrebbe potuto ingenerare errori sul reale status della persona.

2. Le tesi del Tribunale amministrativo possono essere condivise.

Il diniego ministeriale di autorizzazione al mutamento di nome, ai sensi degli artt. 153 e seguenti del R.D. 9 luglio 1939 n. 1238, costituisce, come costantemente affermato da questo Consiglio di Stato (cfr. IV Sez., n. 906/89; par. III, n. 26/86), provvedimento eminentemente discrezionale, in cui la salvaguardia dell’interesse pubblico alla tendenziale stabilità del nome, connesso ai profili pubblicistici dello stesso come mezzo di identificazione dell’individuo nella comunità sociale, può venire contemperata con gli interessi di coloro che quel nome intendano mutare o modificare nonché di coloro che a quel mutamento intendano opporsi.

Dalla natura discrezionale dell’impugnato provvedimento di diniego discende – secondo i principi – che il sindacato giurisdizionale dello stesso può essere condotto, quanto al vizio intrinseco dello sviamento, sotto il limitato profilo della manifesta irragionevolezza delle argomentazioni amministrative o del difetto di motivazione.

Nella fattispecie in esame, il diniego si fonda su una comparazione, da ritenere inadeguata, dell’interesse dell’istante M. C. con l’interesse pubblico alla tendenziale stabilità del nome e si risolve nella attribuzione di una prevalenza all’interesse alla immutabilità del nome.

Invero, è stata già affermata dalla Sezione (cfr. dec. n. 750/84 e 1220/73) l’illegittimità di un provvedimento che neghi al richiedente l’aggiunta di un cognome al proprio ove esso non risulti sufficientemente motivato in ordine al dissenso dagli atti istruttori, favorevoli alla richiesta dell’interessato.

Nella fattispecie, il Ministero di grazia e giustizia non ha indicato le ragioni di opposizione rispetto al favorevole parere espresso dal Procuratore generale. Nel primo motivo di appello si sostiene che tale parere, avente natura di atto interno, era comunque immotivato e come tale non richiedeva una esplicita confutazione, ma tale argomentazione non può essere condivisa.

Appare, invero, evidente che il parere favorevole del Procuratore generale sia stato espresso con riferimento alle ragioni esplicitate dal richiedente nella propria istanza, in condivisione delle stesse, sicchè, trattandosi di provvedimento discrezionale, l’Amministrazione aveva l’onere di rendere note le ragioni di esercizio del proprio potere in dissenso rispetto a detto parere.

Né può condividersi quanto affermato nel secondo motivo di appello, circa la mancata indicazione delle ragioni di ordine sociale sottostanti la richiesta di modifica del cognome, che sarebbero state autonomamente apprezzate dal T.A.R. nella sentenza impugnata.

Invero, premesso che l’art. 158 R.D.L. 9 luglio 1939 n. 1238 [1]pone come unico divieto l’aggiunta al proprio cognome di un altro che abbia importanza storica o appartenga a famiglia illustre o nota con il quale il richiedente non abbia nessun rapporto; che, è stato affermato che, pertanto, non sussiste divieto nel caso in cui il richiedente chieda di aggiungere al proprio cognome quello della madre (Par. III, n. 1374/84); che il principio di tendenziale stabilità del cognome, presente nel nostro ordinamento, non implica l’assoluta assenza di deroghe alla regola della riconoscibilità dell’individuo attraverso il solo cognome paterno (regola, peraltro, costituente una mera scelta legislativa contingente e modificabile, come dimostrano le innumerevoli iniziative parlamentari presentate in tal senso, mutuate da esperienze di paesi diversi, europei e non), la incontestata notorietà del cognome materno, M., del richiedente, proprio in quanto tale, non poteva essere ignorata né dall’Amministrazione, in sede di espressione di diniego, nè dal Tribunale amministrativo in sede di valutazione della compiutezza della motivazione del provvedimento.

Sotto tale profilo, vanno quindi, rigettate le tesi dell’Amministrazione appellante.

Non possono, altresì, essere condivise le argomentazioni che confutano la decisione impugnata relativamente al punto di motivazione del provvedimento concernente la possibilità che una modifica del cognome dei due fratelli potesse indurre ad un errore circa il loro reale status.

Invero, va al riguardo ricordato che non è previsto dall’ordinamento e dalla normativa all’epoca applicabile un divieto esplicito all’aggiunta del cognome materno; va, altresì, rilevato che le ragioni di possibile confusione sul reale status delle persone indicate nel provvedimento non appaiono sorrette da logicità, atteso che la richiesta presentata era di aggiunta di altro cognome, quello materno, all’originario cognome paterno, e non di modifica dello stesso, sicchè, tuttalpiù, l’effetto sarebbe stato quello di una più evidente esplicitazione della provenienza familiare dei richiedenti, nei limiti consentiti dall’ordinamento.

3. L’appello è, pertanto, infondato e va respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.

Nulla è dovuto per le spese.

P. Q. M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione IV – definitivamente pronunciando in ordine al ricorso in appello indicato in epigrafe, lo rigetta e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.

Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2004 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, nella Camera di Consiglio con l'intervento dei Signori:

 

 


 

 

Dps: guida operativa del Garante

Con provvedimento 11 giugno 2004 il Garante per la protezione dei dati personali ha diffuso la guida operativa per redigere il documento programmatico per la sicurezza, obbligo a cui sono tenuti i titolari di trattamenti di dati sensibili e giudiziari in attuazione dell'all. B del D.Lgs. n. 196 del 2003. La guida è divisa in due parti, nella prima sono contenute alcune informazioni di carattere descrittivo e istruzioni per la compilazione, mentre nella seconda sono riportate alcune esemplificazioni di tabelle che possono essere utilizzate per la redazione del documento.

 


 

 

Anche nei casi di particolare difficoltà, il medico che non osservi l’obbligo di diligenza può essere ritenuto responsabile del danno causato al paziente – Seppure la colpa sia lieve – In materia di responsabilità del medico per danni causati al suo paziente, la limitazione, stabilita dall’art. 2236 cod. civ., della responsabilità del prestatore d’opera intellettuale alla colpa grave – configurabile nel caso di mancata applicazione delle cognizioni generali e fondamentali attinenti alla professione – è applicabile soltanto per la colpa di imperizia nei casi di prestazioni particolarmente difficili. Non può invece mai difettare, neppure nei casi di particolare difficoltà, nel comportamento del medico, l’osservanza degli obblighi di diligenza del professionista, che è un debitore qualificato, ai sensi dell’art. 1176, secondo comma, cod. civ., e di prudenza, e che pertanto, pur nei casi di particolare difficoltà, risponde anche per colpa lieve.
        La difficoltà dell’intervento e la diligenza del professionista, vanno valutate in concreto, rapportandole al livello della sua specializzazione ed alle strutture tecniche a sua disposizione; egli perciò, da un lato, deve valutare con grande prudenza e scrupolo i limiti della propria adeguatezza professionale, ricorrendo anche all’ausilio di un consulto se la sua situazione non è così urgente da sconsigliarlo; dall’altro, deve adottare tutte le possibili misure volte ad ovviare alle carenze strutturali ed organizzative incidenti sugli accertamenti diagnostici e sui risultati dell’intervento, ovvero, ove ciò non sia possibile, deve informarne il paziente, consigliandogli, se manca l’urgenza di intervenire, il ricovero in una struttura più idonea.
       
Nella valutazione della responsabilità del medico, il giudice del merito, per non incorrere nel vizio di motivazione, in presenza di contrasto tra più consulenze tecniche d’ufficio espletate nel corso del processo, può ben seguire le conclusioni dell’una o dell’altra, ma è tenuto a fornire adeguata, logica ed esauriente motivazione del convincimento raggiunto, enunciando gli elementi probatori, i criteri di valutazione e gli argomenti logici e giuridici che lo hanno indotto alla scelta. Tale obbligo è ancor più cogente e rigoroso allorquando la preferenza sia accordata alla consulenza precedente, sulle cui conclusioni quella successiva, dalla quale il giudice si discosta, abbia espresso il proprio ragionato esame critico (Cassazione Sezione Terza Civile n. 12273 del 5 luglio 2004, Pres. Nicastro, Rel. Chiarini).