IL RINVIO A GIUDIZIO DEL LAVORATORE CON L’IMPUTAZIONE DI GRAVI REATI NON E’ SUFFICIENTE A GIUSTIFICARE IL LICENZIAMENTO –
Il giudice civile deve verificare la fondatezza degli addebiti (Cassazione Sezione Lavoro n. 13294 del 10 settembre 2003, Pres. Senese, Rel. Toffoli).
            Mario R., dipendente della Banca del Sud s.p.a., è stato rinviato a giudizio per bancarotta fraudolenta e false comunicazioni sociali con l’imputazione di avere, nella qualità di presidente di una cooperativa e in concorso con altri, esposto nei bilanci e nelle comunicazioni sociali fatti non rispondenti al vero, effettuato sottrazioni dolose di ingenti somme di denaro e utilizzato a fini personali i fondi sociali. La notizia è stata pubblicata dai giornali. La Banca ha licenziato il lavoratore, dopo averlo sottoposto a procedimento disciplinare, affermando che i gravi fatti penalmente rilevanti a lui attribuiti ledevano l’immagine aziendale e inclinavano irrimediabilmente il rapporto fiduciario fra le parti. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento davanti al Pretore di Messina, che ha rigettato la domanda. Questa decisione è stata confermata, in grado di appello, dal Tribunale di Messina. Mario R. ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo che il procedimento disciplinare nei suoi confronti avrebbe dovuto rimanere sospeso almeno fino alla pronuncia della sentenza penale di primo grado e che il Tribunale non aveva svolto alcun accertamento in ordine alla fondatezza delle accuse rivoltegli in sede penale.
            La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 13294 del 10 settembre 2003, Pres. Senese, Rel. Toffoli) ha accolto il ricorso, pur escludendo la fondatezza della tesi secondo cui l’azienda avrebbe dovuto attendere l’esito del giudizio penale di primo grado prima di eseguire il licenziamento. Non sussiste alcun principio – ha affermato la Corte – secondo cui non può essere intimato un licenziamento motivato in base alla commissione da parte del lavoratore di fatti integranti il reato prima che sia intervenuta al riguardo una condanna penale; il principio di non colpevolezza fino alla condanna definitiva, sancito dall’art. 27, secondo comma Cost., concerne unicamente le garanzie relative all’attuazione della pretesa punitiva dello Stato e non riguarda invece la disciplina dei rapporti di natura privatistica; il datore di lavoro può quindi legittimamente intimare il licenziamento in tronco, per giusta causa, per gravi fatti penalmente rilevanti senza necessità di attendere la sentenza definitiva di condanna.
            La sentenza impugnata – ha rilevato la Corte – è censurabile invece per violazione dei principi di legge in materia di licenziamento disciplinare per giusta causa e per illogicità della motivazione nella parte in cui il Tribunale, senza procedere ad alcun accertamento in merito alla commissione o meno da parte del lavoratore dei fatti addebitati, ha ritenuto che la notizia del rinvio a giudizio dell’impiegato e la pubblicità che era stata data alla stessa sulla stampa erano idonee a incrinare irreversibilmente il rapporto fiduciario.
            In tale maniera – ha osservato la Corte – il giudice di merito, dopo avere dato atto espressamente che la datrice di lavoro aveva adottato un provvedimento di licenziamento disciplinare, in sostanza ha ritenuto il licenziamento giustificato sulla base di una mera responsabilità oggettiva del medesimo dipendente, in contraddizione con il principio secondo cui la sussistenza di una giusta causa di licenziamento deve essere valutata di norma, e sicuramente quando si fa valere una responsabilità disciplinare del lavoratore, sulla base sia degli elementi soggettivi che di quelli oggettivi del fatto; ne consegue che l’avvenuta formulazione, a carico del lavoratore, di un’imputazione per reati connessi con il rapporto di lavoro, non costituisce giusta causa di licenziamento ove non sia anche dimostrata la colpevolezza del dipendente, anche perché il datore di lavoro, finché non sia fornita la prova degli addebiti contestati in sede penale, è sufficientemente tutelato dalla sospensione cautelare, da lui adottabile in base alla disciplina collettiva o nell’esercizio del potere direttivo e organizzativo. Deve anche considerarsi – ha osservato la Corte – che il giudice civile, ove non sussistano i presupposti per la sospensione del giudizio civile in attesa della definizione di quello penale e non vi sia un giudicato penale che spieghi effetto sul giudizio civile, deve procedere all’accertamento dei fatti rilevanti ai fini dei rapporti civilistici, pur se i fatti stessi possano rivestire anche rilevanza penale e sia pendente un giudizio penale in merito ad essi, salva in ogni caso la possibilità di valutare autonomamente le prove acquisite nel procedimento penale; il giudice di merito, pertanto, avrebbe dovuto verificare concretamente, sulla base di una valutazione delle prove acquisite, l’effettiva commissione o meno da parte del R. di fatti, riconducibili alla contestazione, sufficienti ad integrare una adeguata giustificazione del licenziamento, tenuti presenti tutti gli aspetti oggettivi e soggettivi al riguardo rilevanti.
            La Corte ha cassato la sentenza impugnata rinviando la causa alla Corte d’Appello di Catania per la quale ha formulato il seguente principio di diritto: “il giudice davanti a cui sia impugnato un licenziamento disciplinare intimato per giusta causa a seguito del rinvio a giudizio del lavoratore con l’imputazione di gravi reati potenzialmente incidenti sul rapporto fiduciario ancorché non commessi nello svolgimento del rapporto, deve accertare l’effettiva sussistenza di fatti, riconducibili alla contestazione, idonei ad evidenziare, per i loro profili oggettivi e soggettivi, l’adeguato fondamento di una sanzione disciplinare espulsiva, mentre non può ritenere integrata la giusta causa di licenziamento sulla base del solo fatto oggettivo del rinvio a giudizio del lavoratore e di una ritenuta incidenza di quest’ultimo sul rapporto fiduciario e sull’immagine dell’azienda”.

 

 

 

Il lavoratore che chiede all’azienda il risarcimento del danno alla salute ha l’onere di provare la nocività dell’ambiente di lavoro e il nesso causale fra questo e il pregiudizio subito – Non sussiste per l’impresa una responsabilità oggettiva – In base all’art. 2087 cod. civ. l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. L’art. 2087 cod. civ. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, con la conseguenza che incombe al lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso di derivazione causale del danno dalla violazione delle norme di sicurezza delle condizioni di lavoro; solo se il lavoratore abbia fornita la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi (Cassazione Sezione Lavoro n. 12467 del 25 agosto 2003, Pres. Senese, Rel. D’Agostino).

 

 
 


 

CONCORSI INTERNI
CORTE COSTITUZIONALE -
Sentenza 24 luglio 2003 n. 274 (riafferma che per l'accesso a posti di pubblico impiego il concorso pubblico è la regola e dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 4 della L. reg. Sardegna n. 11/2002).

 

CORTE COSTITUZIONALE - Sentenza 24 luglio 2003 n. 274 - Pres. CHIEPPA, Red. BILE - (giudizio promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 17 settembre 2002, depositato in cancelleria il 27 settembre 2002 ed iscritto al n. 60 del registro ricorsi 2002).

1. Pubblico impiego - Dirigenti - Accesso alla qualifica - Concorso pubblico - E’ la regola generale ex art. 97 Cost. - Deroghe - Limiti - Scivolamenti automatici verso posizioni superiori o concorsi interni per la copertura della totalità dei posti vacanti - Violano l’art. 97 Cost.

2. Pubblico impiego - Assunzione - Concorso pubblico - E’ la regola generale ex art. 97 Cost. - Deroghe - Sono ammissibili sono in particolari situazioni che ne dimostrino la ragionevolezza.

3. Pubblico impiego - Dirigenti - Regione Sardegna - Accesso alla qualifica dirigenziale - Ex art. 4 della L. reg. Sardegna n. 11/2002 - Previsione di concorsi interni generalizzati - Illegittimità costituzionale - Va dichiarata.

1. L'accesso dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni a funzioni più elevate non sfugge, di norma, alla regola del pubblico concorso, cui è possibile apportare deroghe solo se particolari situazioni ne dimostrino la ragionevolezza (1); di regola, questo requisito non è configurabile – con conseguente violazione dell’art. 97 Cost. – nel caso di norme che prevedano scivolamenti automatici verso posizioni superiori (senza concorso o comunque senza adeguate selezioni o verifiche attitudinali) o concorsi interni per la copertura della totalità dei posti vacanti (2).

2. Alla regola del pubblico concorso - quale metodo che, per l'accesso alla pubblica amministrazione, offre le migliori garanzie di selezione dei più capaci, in funzione dell'efficienza della stessa amministrazione (art. 97, comma 1, della Costituzione) - è possibile apportare deroghe (come del resto ammette il terzo comma dell'art. 97) solo quando ricorrano particolari situazioni che le rendano non irragionevoli (3).

3. Va dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, lettere b), d) ed e), della legge della Regione Sardegna 8 luglio 2002, n. 11, il quale introduce per l'accesso alla qualifica dirigenziale dell'amministrazione regionale (e degli enti regionali) una disciplina che - per l'effetto congiunto dell'attribuzione di tale qualifica senza concorso, dei concorsi riservati, e dell'abrogazione della previsione legislativa di concorsi pubblici per i posti dirigenziali residui – comporta una deroga ingiustificata all'art. 97 della Costituzione.

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(1) Cfr. da ult. Corte cost., sentenza 29 maggio 2002 n. 218, in www.giust.it n. 5-2002 (dichiara costituzionalmente illegittima una norma che prevedeva la promozione a semplice domanda di dipendenti delle Camere di commercio), con commento di L. OLIVERI, L’inesistenza delle "carriere" nel rapporto di lavoro alle dipendenze della p.a.

(2) Cfr. da ult. Corte cost., sentenza 23 luglio 2002 n. 373, in www.giust.it n. 7-8/2002 (dichiara illegittime le norme dettate dalla Regione Puglia che riservano la copertura del 100% dei posti messi a concorso al personale interno), con breve nota di commento sulla "soluzione 50%" prospettata dalla Corte.

(3) Cfr. da ult. Corte cost., ordinanza n. 517 del 2002.

 


Commento di

LUIGI OLIVERI

Il rispetto della Costituzione come vincolo invalicabile alla potestà normativa di regioni ed enti locali – Effetti della sentenza della Consulta 24.7.2003, n. 274 sull’interpretazione delle disposizioni di cui alla legge 131/2003


La sentenza 24 luglio 2003, n. 274 della Corte Costituzionale assume una rilevanza di enorme importanza nell’assetto costituzionale della Nazione.

Non tanto per la, scontata, dichiarazione di incostituzionalità dell’ennesima norma (stavolta della regione Sardegna) che, in violazione dell’articolo 97 della Costituzione, ha cercato di ottenere consenso politico mediante la concessione di percorsi di carriera assolutamente difformi dal dettato costituzionale.

Ma, soprattutto, per il quadro nell’ambito del quale la Consulta è intervenuta, per come, cioè, ha dedotto il suo potere di decidere la questione di legittimità, ritenendola ammissibile e, per la parte relativa alla violazione dei precetti costituzionali sull’accesso alla dirigenza, fondata.

La sentenza contiene un’affermazione fondamentale, specie alla luce dell’entrata in vigore della legge 131/2003, che ha già dato modo ad alcuni di dedurne un’estensione sostanzialmente smisurata del potere normativo di comuni, province, città metropolitane e regioni.

La Consulta, invece, con estrema sinteticità ed in modo tranciante afferma: “Lo stesso art. 114 della Costituzione non comporta affatto una totale equiparazione fra gli enti in esso indicati, che dispongono di poteri profondamente diversi tra loro: basti considerare che solo allo Stato spetta il potere di revisione costituzionale e che i Comuni, le Città metropolitane e le Province (diverse da quelle autonome) non hanno potestà legislativa”.

Parole da scolpire nel marmo. Con queste secche e brevi frasi, la Consulta entra per la prima volta nel vivo dell’interpretazione della legge costituzionale 3/2001, in riferimento alla potestà normativa dei vari enti territoriali che compongono la Repubblica.

Provando a destrutturare la frase, estrapoliamone i contenuti di rilievo:

1) L’articolo 114 della Costituzione non comporta una totale equiparazione tra gli enti in esso indicati;

2) Gli enti indicati dall’articolo 114 della Costituzione dispongono di poteri profondamente diversi tra loro;

3) Solo lo Stato può revisionare la Costituzione;

4) Le regioni, dunque, dispongono esclusivamente del potere legislativo ordinario;

5) Comuni, province, città metropolitane dispongono di un potere normativo di minor momento ed intensità e, soprattutto, non hanno potestà legislativa.

Si tratta di affermazioni decisive per la corretta interpretazione di tutta la questione delle competenze, del riparto e dei poteri normativi. L’interpretazione della Consulta si pone in deciso contrasto con ogni teoria [1] tendente ad affermare il venire in essere, dopo la legge costituzionale 3/2001, di un’equiparazione tra la potestà normativa di livello primario, la legge, e la potestà normativa di altro livello (per non dire di livello secondario), consistente negli statuti ed i regolamenti locali. Affermando, nei rapporti tra Stato e regioni, per un verso la piena competenza legislativa delle seconde, ma ricordando che essa non può travalicare i limiti normativi previsti dalla Costituzione. Tutta la costituzione e non solo la Parte II del Titolo V.

Il cuore del ragionamento posto in essere dalla Consulta è contenuto nell’affermazione che abbiamo catalogato al n. 1).

La Consulta fornisce, per la prima volta, una lettura interpretativa che spegne i troppo accesi toni federalistici. L’articolo 114 pone, sì, comuni, province, città metropolitane, regioni e Stato in posizione di “pari dignità”, come enti territoriali tutti concorrenti alla costituzione della Repubblica.

La pari dignità comporta necessariamente il riconoscimento e la valorizzazione di ruoli, competenze e funzioni di tali enti. Ma non può portare alla medesima rilevanza di tali ruoli, competenze e funzioni.

Ciascun ente ha pari dignità, ma nel rispetto della propria dimensione territoriale, dell’estensione delle proprie competenze, dei confini della propria potestà normativa.

La pari dignità presuppone che la Costituzione riconosca espressamente una potestà statutaria per gli enti locali e che parifichi la potestà legislativa regionale a quella statale. Ma ruolo, competenze e funzioni dello Stato sono diversi, peculiari rispetto a quelli degli altri enti. Lo stesso avviene nei rapporti reciproci.

Dunque, “pari dignità”, non “equiparazione”. Del resto, se così non fosse, la legge costituzionale 3/2001 avrebbe dato vita non ad un sistema di autonomia policentrica, ma avrebbe fatto sorgere tantissimi enti dotati di sovranità, tutti provvisti di poteri normativi legislativi equiparati tra loro. Una situazione, insomma, da civiltà dei comuni medievali o da ordinamento delle pòlis della Grecia classica. Grandissimi esempi di governo illuminato delle comunità, ma, oggettivamente, non proprio in linea col disegno costituzionale vigente.

Ma, avverte la Consulta, le cose non stanno così. L’articolo 114 non ha fondato un’equiparazione tra gli enti ivi elencati. Li considera tutti elementi fondanti della Repubblica. Tuttavia, e qui passiamo alla seconda affermazione, essi sono dotati di poteri estremamente diversi tra loro.

La Consulta si è soffermata sul potere più rilevante, quello normativo, al quale torneremo tra breve. E’, tuttavia, assolutamente da condividere l’affermazione della Corte costituzionale. Basta leggere la Costituzione per rendersi conto che gli enti locali concorrono solo all’ordinamento amministrativo della Repubblica; che le regioni concorrono all’ordinamento anche legislativo, nell’ambito delle proprie competenze. E che lo Stato, oltre a completare l’ordinamento legislativo, esercita la principale funzione di Governo, nonché assicura il pieno soddisfacimento dell'esigenza di tutelare l'unità giuridica ed economica dell'ordinamento stesso (altra fondamentale affermazione contenuta nella sentenza 274/2003).

In effetti, il comma 2 dell’articolo 114 della Costituzione sottolinea che comuni, province, città metropolitane e regioni sono:

a) enti autonomi, non enti sovrani;

b) che hanno propri statuti, non che dispongono di potestà normativa legislativa e, dunque parificata a quella dello Stato (con l’eccezione delle regioni);

c) che hanno propri poteri, il che significa che dispongono di potestà riconosciute loro, ma diverse, qualitativamente e quantitativamente, da quelle dello Stato;

d) che hanno proprie funzioni, nell’accezione di cui alla precedente lettera c);

e) che debbono rispettare i principi fissati dalla Costituzione, limite ultimo, invalicabile per l’esercizio di qualsiasi potere, funzione, normazione.

Inutile sottolineare che i poteri degli enti locali sono diversissimi da quelli delle regioni e quelli di queste assolutamente differenti da quelli statali.

In particolare, (affermazioni n. 3 e 4) allo Stato la Costituzione riserva un potere rilevantissimo: la revisione della Costituzione, che è competenza esclusiva del Parlamento nazionale. E’ solo un esempio, quello fornito dalla Consulta, dell’enorme “disuguaglianza” che caratterizza l’esercizio dei poteri di enti pur aventi pari dignità.

Ma si tratta di un esempio volutamente inserito nella sentenza, per sottolineare che le regioni, pur dotate di potestà legislativa, nell’esercizio di essa non possono certo modificare la Costituzione o, comunque, dettare disposizioni contrastanti con essa, come ha fatto la regione Sardegna consentendo l’accesso alla dirigenza sostanzialmente per progressione verticale, perfino a personale non laureato, violando principi costituzionali stabiliti dall’articolo 97 della Costituzione e tradotti in via operativa nell’articolo 28 del D.lgs 165/2001.

Per quanto riguarda comuni, province e città metropolitane, la Consulta si limita ad considerare che essi “non hanno potestà legislativa”.

Si chiude, con queste pochissime parole, la porta ad ogni teoria incline a ritenere che gli enti locali dispongano di una potestà normativa parificata o, in ogni modo, assimilabile a quella legislativa.

Gli enti locali dispongono di un potere normativo proprio, di portata inferiore a quello legislativo, comunque non in grado di intaccare principi e disposizioni di legge, se non nella misura in cui questa lo consenta.

Nella sentenza della Consulta, dunque, c’è un avviso: è assolutamente chiaro che se alle regioni non è permesso con legge (ma non è permesso allo Stato) derogare o contrastare con principi costituzionali fondamentali, quali l’accesso agli impieghi pubblici mediante concorso pubblico, a maggior ragione ciò non sarà consentito agli enti locali. Che, in merito, non dispongono nemmeno di un potere di intensità primaria di carattere legislativo, ma solo di potestà normativa secondaria. Che, per effetto della legge costituzionale 3/2001 e della legge 131/2003 è da valorizzare, da considerare come strumento normativo di fondamentale rilievo per l’ordinamento locale. Ma che non può non essere considerata come normativa di completamento che trae e rende concreti principi generali fissati dalla Costituzione e dall’ordinamento legislativo, per renderli attuali e specifici nell’ambito dell’ordinamento locale.

Dunque, no a statuti e regolamenti che contrastino con la Costituzione ed i principi fondamentali.

Quali principi? Risponde sempre la Consulta: “pur dopo la riforma (la legge costituzionale 3/2001, nda), lo Stato può impugnare in via principale una legge regionale deducendo la violazione di qualsiasi parametro costituzionale”.

Pertanto, le leggi regionali devono rispettare tutti i canoni di costituzionalità espressi o desumibili dalla carta costituzionale. La sentenza chiarisce, pertanto, che il problema della costituzionalità delle leggi regionali non è limitato al solo parametro della competenza, come delineato (in verità in modo non completamente chiaro) dall’articolo 117.

L’articolo 97 della Costituzione rappresenta un “parametro”, cioè un criterio di misurazione e valutazione della costituzionalità delle leggi che disciplinano l’accesso agli impieghi pubblici. E leggi regionali che prevedano lo scivolamento verso la dirigenza, senza concorso, senza laurea, in base ad un criterio di anzianità, sono contrarie al parametro, quindi non valutabili come costituzionali. Dunque, incostituzionali.

L’articolo 117 della Costituzione, nel riservare alla potestà legislativa esclusiva delle regioni la materia dell’ordinamento e della propria organizzazione, non ha riservato alle regioni una competenza legislativa di rilievo costituzionale, tale da permettere loro di legiferare in merito senza tenere conto dei principi fissati dall’articolo 97. Se così non fosse, esso sarebbe solo applicabile alle amministrazioni dello Stato. Ma un principio costituzionale riguarda l’intera Repubblica, costituita, oltre che dallo Stato, da comuni, province, città metropolitane e regioni. Tali enti, dunque, debbono rispettare questo, come gli altri principi costituzionali fissati dalla Costituzione.

Non solo le regioni, nell’esercizio della potestà legislativa. Ma anche gli enti locali, nell’esercizio della potestà statutaria e regolamentare.

La valorizzazione di quest’ultima, allora, passa per un intervento del legislatore (futuro) che faccia a meno di entrare con eccessiva pervasività nella trattazione esaustiva della materia dell’ordinamento locale, lasciando a statuti e regolamenti spazi ampli per fissare discipline organizzative e funzionali. Stato e regioni, dunque, debbono in merito produrre leggi brevi, che esprimano ampli principi, tali da non comprimere un'autonomia regolamentare che, in quanto prevista dalla Costituzione, non può essere compressa.

E’, in fondo, questa la previsione contenuta nella legge 131/2003, quando all’articolo 4, comma 1, prevede che “i comuni, le province e le città metropolitane hanno potestà normativa secondo i principi fissati dalla Costituzione. La potestà normativa consiste nella potestà statutaria e on quella regolamentare”.

Non mancano, al contrario, interpretazioni che attribuiscono alla legge 131/2003 un significato di maggiore portata, che proprio per effetto della sentenza della Consulta 274/2003 non possono essere condivise.

Si tratta, per esempio, delle posizioni dell’Anci espresse dal presidente con una lettera di presentazione della legge 131/2003 ai sindaci, nella quale si legge che il suo articolo quattro è una “disposizione che rafforza il potere statutario e regolamentare dell'ente locale rimarcando la riserva di competenza prevista in Costituzione della potestà regolamentare in ordine alla organizzazione e allo svolgimento delle funzioni amministrative esercitate dell'ente locale (art, 4)”.

La lettera riporta un allegato tecnico [2], che commenta la legge, dal quale emerge che è già possibile adottare i regolamenti di cui all’articolo 4, comma 6, della legge 131/2003, in particolare i regolamenti di organizzazione, i quali incontrerebbero i soli limiti del rigoroso rispetto della Costituzione, dei principi generali in materia di organizzazione pubblica, delle norme statutarie in vigore in ciascun ente e delle norme del TUEL concernenti le materie indicate nell’articolo 117, comma, 2, lettera p), della Costituzione.

Tale posizione, in particolare quando afferma la sussistenza di una riserva di competenza prevista dalla Costituzione in favore della potestà normativa e regolamentare degli enti locali non può considerarsi corretta.

Occorre dare atto all’Anci di aver sottolineato la necessità di un rigoroso rispetto della Costituzione e dei principi generali in materia di organizzazione pubblica, il che conferma l’impossibilità per gli enti locali di introdurre, per via statutaria e regolamentare, modalità di accesso agli impieghi che contrastino con l’articolo 97 della Costituzione.

Tuttavia, l’eventuale sussistenza di una riserva normativa in favore di statuti e regolamenti locali determinerebbe, nella sostanza, un’equiparazione tra legge e potestà normativa locale. Infatti, la riserva porrebbe le leggi in posizione di competenza e non di gerarchia con i regolamenti.

Ma non è questa la conseguenza della riforma costituzionale e della legge 131/2003. In primo luogo, perché non esiste , nella Costituzione, alcuna riserva espressa di materie agli statuti.

La riserva di materie, per essere tale, non può che consistere nella previsione esplicita o implicita dell’esclusione dal campo di operazione di alcune fonti di una certa materia, assegnata al campo di applicazione di altre fonti.

Ma la Costituzione si limita soltanto a prevedere la potestà statutaria. Non assegna, in via esclusiva, agli statuti alcuna materia. Dunque, non v’è una riserva di competenza agli statuti.

Se la riserva normativa in favore degli statuti non è stata disposta dalla Costituzione, tanto meno essa può ricavarsi da una legge ordinaria, quale è la legge 131/2003.

Del resto, tale ultima norma non prevede alcuna riserva esplicita agli statuti. Il comma 1 dell’articolo 4, in fondo, non fa che ripetere quanto già stabilito dall’articolo 114, comma 2, della Costituzione. Ed abbiamo visto in precedenza come la Consulta intenda l’attribuzione dei poteri ai vari enti territoriali, in base al principio della pari dignità: potestà normativa, per gli enti locali, diversa, di contenuto ed estensione differenti rispetto alla potestà legislativa.

Il comma 2 dell’articolo 4 della legge 131/2003 non fa che esplicitare meglio la portata normativa dello statuto, chiarendo che oltre ad essere in armonia con la Costituzione, deve armonizzarsi anche con i principi generali in materia di organizzazione pubblica. L’articolo tocca, dunque, proprio il tema della potestà organizzativa degli enti locali, impedendo allo statuto di creare un ordinamento ellittico, non rispettoso dei principi generali non solo desumibili o fissati dalla Costituzione, ma anche dalla legislazione in materia di organizzazione pubblica. Non può che trattarsi di principi desumibili dalla legislazione, dal momento che l’articolo 4, comma 2, li tratta come cosa distinta dai principi costituzionali. Il che conferma l’insussistenza di un rapporto di competenza tra legge e statuto, in quanto la competenza esclude qualsiasi tipo di influenza di una fonte normativa nell’ambito della potestà normativa di altra fonte.

Un punto focale della legge 131/2003 è rappresentato dall’articolo 4, comma 3, a mente del quale “l’organizzazione degli enti locali è disciplinata dai regolamenti nel rispetto delle norme statutarie”.

La nota interpretativa dell’Anci attribuisce particolare enfasi a questa disposizione, mettendola in stretta relazione con il comma 6 del medesimo articolo 4, ai sensi del quale “fino all’adozione dei regolamenti degli enti locali, si applicano le vigenti norme statali e regionali, fermo restando quanto previsto dal presente articolo”.

Se ci si limita alla lettura di questi due commi, si potrebbe concludere che effettivamente l’organizzazione è riservata ai regolamenti locali, i quali risultano soggetti solo allo statuto.

Ma, richiamando quanto rilevato sopra in merito all’inesistenza di una riserva di materie alla potestà normativa locale, il combinato disposto dei commi 3 e 6 dell’articolo 4 della legge 131/2003 non può:

a) interpretarsi come riserva ai regolamenti locali della materia dell’organizzazione;

b) considerarsi come dettato che fissa un assoggettamento della legge ai regolamenti.

Quanto alla lettera a), perché se la Costituzione non ha previsto tale riserva di competenza, certo non può provvedere il legislatore ordinario, per il noto principio che la legislazione ordinaria non può prevedere riserve normative, che sono stabilite solo dal legislatore costituente. Il legislatore ordinario può solo decidere come attuare la propria potestà normativa, stabilendo di non intervenire in maniera pervasiva su tutta la regolamentazione della materia di propria competenza, demandando alla normazione secondaria, di altri organi o enti (Governo o enti locali) una parte della disciplina normativa.

Quanto alla lettera b), perché significherebbe che il legislatore ordinario, esercitando poteri costituenti, avrebbe assegnato ai regolamenti un ruolo quasi sovraordinato alle leggi.

In realtà, l’articolo 4, comma 3, della legge 131/2003 risulta una norma priva di contenuto particolarmente innovativo.

Essa, infatti, non fa che riprodurre, per altro con una portata anche di minor momento, quanto già previsto dall’articolo 89 del D.lgs 267/2000, che al comma 1 prevede quanto segue: “gli enti locali disciplinano, con propri regolamenti, in conformità allo statuto, l’ordinamento generale degli uffici e dei servizi, in base a criteri di autonomia, funzionalità ed economicità della gestione e secondo principi di professionalità e responsabilità”.

L’identità tra l’articolo 4, comma 3, della legge 131/2003 e l’articolo 89, comma 1, del D.lgs 267/2000 appare assoluta. Quest’ultima norma si diffonde, poi (anche nei successivi commi), nell’esplicitazione di una serie di principi regolatori delle modalità di organizzazione.

La portata innovativa della legge 131/2003 potrebbe esplicarsi in particolare proprio nei confronti di tali disposizioni di principio. Applicando, infatti, il principio della valorizzazione degli statuti, contenuto nell’articolo 2, comma 4, lettera a), della legge 131/2003 e l’attribuzione allo statuto della materia specifica dell’organizzazione pubblica, si potrebbe sostenere che la determinazione dei principi di cui al comma 1 e ai commi seguenti dell’articolo 89 del testo unico non sia più di competenza della legge statale sull’ordinamento locale, bensì direttamente dello statuto.

Dunque, sarebbe lo statuto e non la legge la fonte di individuazione e posizione dei principi di organizzazione dell’ente, che debbono poi essere rispettati dal regolamento di organizzazione.

Anche questa, comunque, non è affatto una novità. L’articolo 6 del D.lgs 267/2000 prevede che lo statuto “stabilisce le norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente” ed “i criteri generali in materia di organizzazione”. Nella legge 131/2003, tuttavia, si rende esplicito il principio che le norme fondamentali ed i criteri generali in tema di organizzazione sono fissati direttamente dagli statuti e non da una legge sull’ordinamento locale [3]. Fermo rimanendo che gli statuti non possono stabilire tali principi in contrasto con la Costituzione, in particolare l’articolo 97, ed i principi generali di organizzazione pubblica, fissati, in particolare, dal D.lgs 165/2001.

Insomma, lo statuto, e di conseguenza il regolamento di organizzazione, non potrebbe certo prevedere l’accesso agli impieghi, ed in particolare alla dirigenza, per concorso interno o progressione verticale, né, ad esempio, la soppressione del principio della separazione delle funzioni di indirizzo politico amministrativo da quelle gestionali. Se facesse ciò, lo statuto andrebbe contro ai principi costituzionali e generali dell’ordinamento: violerebbe la Costituzione e la legge, sarebbe, pertanto, illegittimo. E’ esattamente quanto avveniva prima della vigenza della legge 131/2003.

Il comma 6 dell’articolo 4 di tale ultima norma, allora, non può essere inteso come disposizione che assegni ai regolamenti una posizione di preminenza sulla legge, come regola generale. Essa significa che nell’ambito della potestà normativa che la legge ordinaria, disponendo di se stessa, assegna ai regolamenti, questi possono sostituire la propria normativa a quella contenuta nelle leggi.

Dunque, posto che lo statuto di un ente disponga di contenuti rispettosi dei limiti previsti dalla legge costituzionale 3/2001 e dall’articolo 4 della legge 131/2003, allora il regolamento potrebbe contenere regole di organizzazione da misurare solo in relazione allo statuto. In mancanza, si applicano ancora le norme, di carattere organizzativo, di rango legislativo.

Anche in questo caso esiste già un esempio chiaro di quanto prevede il comma 6 dell’articolo 4, nell’ordinamento locale, precisamente ancora una volta nell’articolo 89, al comma 4. Il quale, in sostanza, prevede che il regolamento di organizzazione locale può prevedere una disciplina delle procedure di concorso in tutto diversa da quella stabilita dal Dpr 487/1994 (guarda caso, una norma regolamentare). Se il regolamento non fissa tale disciplina, allora si applica quella nazionale. Ma la disciplina regolamentare locale, deve rispettare i principi costituzionali, ordinamentali e statutari. Il coma 3 dell’articolo 89 del testo unico dispone espressamente che vanno rispettati i principi di cui all’articolo 36 del D.lgs 29/1993 (oggi articolo 35 del D.lgs 165/2001). Domani, in assenza dell’articolo 89 del testo unico, oppure considerato questo disapplicato dall’aggiornamento dello statuto, tali limiti continueranno comunque ad applicarsi, in quanto l’ente locale con il regolamento di organizzazione continua ad esercitare una potestà solo regolamentare e non legislativa. Le disposizioni di legge, i principi sull’accesso agli impieghi, pertanto, costituiranno pur sempre un limite alla potestà normativa regolamentare, che non potrà andarvi contro, anche perché tali principi sono presidiati dall’articolo 97 della Costituzione.

Alla potestà statutaria e regolamentare locale non può certo essere consentito ciò che la Consulta non consente ad una legge regionale.

Si potrebbe sostenere, tornando alla disciplina dell’organizzazione, per confutare quanto sin qui esposto, che l’articolo 4, comma 4, della legge 131/2003 stabilisce una riserva normativa espressa per i regolamenti locali, quando dispone che “la disciplina dell’organizzazione, dello svolgimento e della gestione delle funzioni dei Comuni, delle Province e delle Città metropolitane è riservata alla potestà regolamentare dell’ente locale, nell’ambito della legislazione dello Stato o della Regione, che ne assicura i requisiti minimi di uniformità, secondo le rispettive competenze, conformemente a quanto previsto dagli articoli 114, 117, sesto comma, e 118 della Costituzione”.

Occorre precisare, tuttavia, che il comma 4 non si riferisce alla materia dell’organizzazione dell’ente, intesa come disciplina delle strutture, individuazione delle loro competenze, delle modalità di assegnazione degli incarichi di direzione, fissazione dell’articolazione di massimo livello delle strutture stesse, individuazione degli strumenti direzionali e di controllo.

Si riferisce, invece, all’organizzazione delle funzioni degli enti locali, cioè al modo con il quale le strutture (individuate dal regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi), svolgono la propria attività. Si tratta, dunque, di regolamenti operativi, rivolti verso l’esterno, che indicano a terzi cosa fare, quali termini rispettare, quali principi e disposizioni osservare nell’entrare in relazione con l’ente locale. Il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, invece, ha una rilevanza diretta esclusivamente interna, perché dice agli uffici quale è la loro consistenza, quale la loro collocazione, quali le competenze (che hanno un’influenza diretta anche esterna, tuttavia), quali gli strumenti gestionali da adottare.

L’articolo 4, comma 4, della legge 131/2003 non pone, a ben vedere una riserva normativa per il regolamenti locali, perché tale riserva è già fissata dall’articolo 117, comma 6, della Costituzione.

Ma tale riserva, si badi, non è posta lungo la linea che mette in relazione i regolamenti con le leggi. Essa, invece, è una riserva che riguarda il rapporto tra regolamenti locali e regolamenti statali e regionali [4]. I regolamenti locali, dunque, sono posti sullo stesso piano di quelli statali e regionali. La riserva, pertanto, prevista dalla Costituzione e ribadita dalla legge 131/2003, opera tra fonti regolamentari, creando un rapporto di competenza tra regolamenti locali e regolamenti statali e regionali, non tra regolamenti locali e leggi.

Si nota, del resto, nel testo proprio dell’articolo 4, comma 4, della legge 131/2003 il collegamento tra articolo 117, comma 6, ed articolo 118 della Costituzione. Allora, la legge 131/2003 non ha previsto per i regolamenti locali una vera riserva di competenza, ma si è occupata della definizione dei rapporti tra legge e regolamenti nel senso di escludere che le leggi possano entrare nella regolamentazione diretta della materia organizzativa, come per esempio, indicando quali e quanti uffici debbano esistere, quali compiti debbano svolgere, quali procedure debbano seguire. E, soprattutto, di escludere che a questo scopo possano essere adottati regolamenti statali o regionali.

Le leggi statali e regionali, semmai, possono solo limitarsi a dettare criteri minimi di uniformità nella gestione delle funzioni, per evitare che da un ente all’altro vi siano eccessive differenze, incidenti in maniera negativa sulla popolazione amministrata.

I regolamenti cui si riferisce il comma 6 dell’articolo 4 della legge 131/2003 sono, piuttosto, quelli mediante i quali gli enti locali dettano la disciplina di organizzazione e svolgimento delle loro funzioni, non i regolamenti “di organizzazione” delle strutture amministrative.

In ogni caso, è da rilevare che la legge 131/2003, nel disporre questa spuria riserva di competenza ai regolamenti locali in tema di organizzazione delle funzioni, non fa altro che applicare la potestà normativa, prevista dall'articolo 97 della Costituzione, di disporre di se stessa e autolimitare la propria portata, nell'esercizio della riserva relativa contenuta nell'articolo 97 stesso, sicchè per questa strada appare in linea con la Costituzione.

La Consulta, sottolineando la diversità dei poteri dello Stato, delle regioni e degli enti locali, ha fornito una chiave di lettura dei limiti della potestà legislativa regionale, da un lato, e statutaria e regolamentare locale, dall’altro, molto chiara, che preserva l’ordinamento da iniziative come quelle del comune di Lauro, ad esempio, in materia di eliminazione della figura del segretario comunale, in base ad una presunta sussistenza di uno “statuto costituzionale” che avrebbe pari rango alla legge e funzione costituente.

Infine, un accenno al merito della sentenza 274/2003 della Consulta. Essa afferma: “l'accesso dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni a funzioni più elevate non sfugge, di norma, alla regola del pubblico concorso, cui è possibile apportare deroghe solo se particolari situazioni ne dimostrino la ragionevolezza; […] di regola, questo requisito non è configurabile – con conseguente violazione del parametro evocato – a proposito di norme che prevedano scivolamenti automatici verso posizioni superiori (senza concorso o comunque senza adeguate selezioni o verifiche attitudinali) o concorsi interni per la copertura della totalità dei posti vacanti (da ultimo, sentenza n. 373 del 2002)”.

Non c’è molto da commentare, in proposito. La Consulta continua a ribadire da anni sempre il medesimo concetto. Sembra stucchevole, invece, il fatto che da anni prosegua il tentativo di aggirare nei modi più disparati un precetto costituzionale chiaro e preservato dalla Costituzione.

L’articolo 97 è la norma costituzionale che impedisce una completa ed assoluta equiparazione del lavoro pubblico con quello privato.

Per superare tale disposizione, che non necessariamente deve considerarsi capo saldo non demolibile, non c’è che una strada: la sua modifica od abrogazione. Ma tentativi di aggiramento o deroghe, in vigenza dell’articolo 97, non possono che essere considerati illegittimi, incostituzionali e non applicabili. Poiché repetita iuvant e la Consulta, in fondo, per missione emette sentenze, va benissimo che tale concetto sia ripetuto fino alla nausea. Sarebbe, però, auspicabile che l’esercizio delle potestà normative fosse attuato con maggiore efficacia e capacità di raggiungimento di fini  di interesse generale.

 


[1] Per tutti, V. Papadia, La riforma del titolo V, parte II, della Costituzione, alla luce della l.c. n. 3/2001, effetti sugli statuti e sui regolamenti degli enti locali: nuovo assetto delle fonti giuridiche, in Comuni d'Italia 9/2002, pag, 1105 e segg; contra, L. Oliveri, La posizione dei regolamenti degli enti locali nella gerarchia delle fonti – le materie assegnate dalla Costituzione alla potestà regolamentare, in www.giust.it n. 10-2002.

[2] Eccone il testo:

NOTA TECNICA RELATIVA ALL’ATTUAZIONE DELL’ART. 4 DELLA LEGGE RECANTE “DISPOSIZIONI PER L’ADEGUAMENTO DELL’ORDINAMENTO DELLA REPUBBLICA ALLA LEGGE COSTITUZIONALE 18 OTTOBRE 2001, N.3”

L’art. 4 della legge cd. La Loggia stabilisce:

· che gli statuti devono essere in armonia con la Costituzione e con i principi generali dell’organizzazione pubblica, nel rispetto di quanto stabilito dalla legge statale di attuazione dell’art.117, II comma, lettera p), della Costituzione (art.4, 2 comma);

· che gli statuti disciplinano i principi di organizzazione e funzionamento dell’ente, le forme di controllo anche sostitutivo, nonché le garanzie delle minoranze e le forme di partecipazione popolare (art.4, 2 comma);

· che l’organizzazione degli enti locali è disciplinata dai regolamenti (art.4, 3 comma);

· che la disciplina dell’organizzazione, dello svolgimento e della gestione delle funzioni amministrative degli enti locali è riservata alla potestà regolamentare dell’ente, nell’ambito della legislazione statale e regionale, secondo le rispettive competenze, che ne assicura i requisiti minimi di uniformità (art.4, 4 comma);

· che fino all’adozione dei regolamenti degli enti locali, si applicano le vigenti norme statali e regionali, fermo restando quanto indicato dall’articolo (art.4, 6 comma).

Queste disposizioni devono essere interpretate a parere dell’ANCI nel senso che gli statuti, oltre che essere in armonia con la Costituzione e i principi dell’organizzazione pubblica, devono rispettare le leggi statali che disciplinano le materie di cui all’art. 117, II comma, lettera p), della Costituzione.

L’ Associazione ritiene che allo stato la legge statale richiamata sussiste e sia il TUEL per la parte riguardante gli organi di governo e la legislazione statale in materia elettorale.

Ne consegue che già ora i Comuni e le Province possono adeguare i propri statuti in base a quanto disposto dall’art. 4, 2 comma.

Per quanto riguarda quanto stabilito dall’art. 4, 6 comma in ordine al dovere per gli enti locali di adottare regolamenti nel rispetto di quanto previsto dalla disposizione, l’Associazione ritiene che il potere regolamentare possa essere immediatamente esercitato, anche senza preventivo adeguamento degli statuti a quanto previsto dall’art. 4, 2 comma, ovviamente nel rigoroso rispetto di quanto previsto dagli statuti locali vigenti. A maggior ragione e con maggior ampiezza il potere regolamentare potrà essere esercitato ove i Comuni e le Province procedano all’adeguamento degli statuti.

Stabilito dunque che il potere regolamentare di cui all’art.4, 6 comma, è fin da ora pienamente esercitabile nei limiti anzidetti, va precisato inoltre che l’adozione dei regolamenti di organizzazione di cui all’art. 4, 3 comma, non incontra ostacoli trattandosi di regolamenti relativi all’organizzazione degli enti e non relativi all’esercizio delle funzioni amministrative.

Ne consegue dunque che tali regolamenti potranno e dovranno essere adottati dall’ente territoriale secondo la tempistica e con il contenuto che ciascun ente deciderà, fermo restando il rigoroso rispetto della Costituzione, dei principi generali in materia di organizzazione pubblica, delle norme statutarie in vigore in ciascun ente e delle norme del TUEL concernenti le materie indicate nell’art. 117, II comma, lettera p).

Per quanto riguarda invece i regolamenti locali di cui all’art. 4, 4 comma, trattandosi in questo caso di regolamenti relativi all’esercizio delle funzioni amministrative assegnate all’ente locale, pur restando fermo il pieno potere di procedere alla loro adozione, si può agevolmente affermare che essi dovranno rispettare  comunque i requisiti minimi di uniformità che le leggi statali e regionali di settore già pongono o porranno in futuro.

Sicchè l’art. 4, 6 comma si applica anche per questi ultimi regolamenti, fermo restando il rigoroso rispetto del limite suindicato consistente nei requisiti minimi di uniformità previsti dalla legislazione statale e regionale, secondo la rispettiva competenza.

Infine, solo per completezza, va ricordato che quanto esposto vale, in quanto applicabile, anche per le Unioni di Comuni e le Comunità montane, in base a quanto contemplato dall’art. 4, 5 comma.

[3] Bisogna, però, prendere atto che questa limitazione vale per il legislatore statale. Nulla esclude che le regioni possano intervenire legislativamente in questo ambito nella materia dell’ordinamento locale, che non è riservata alla potestà esclusiva legislativa dello Stato, se non nei precisi e ristretti ambiti di cui all’articolo 117, comma 2, lettera p), della Costituzione.

[4] Vedasi O. Forlenza e G. Terracciano, Regioni ed enti locali dopo la riforma costituzionale, ed. Il Sole 24Ore, Milano 2002, pag. 147.

 


 

SENTENZA N. 274

ANNO 2003

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori:

- Riccardo CHIEPPA Presidente

- Gustavo ZAGREBELSKY Giudice

- Valerio ONIDA "

- Carlo MEZZANOTTE "

- Fernanda CONTRI "

- Guido NEPPI MODONA "

- Piero Alberto CAPOTOSTI "

- Annibale MARINI "

- Franco BILE "

- Giovanni Maria FLICK "

- Francesco AMIRANTE "

- Ugo DE SIERVO "

- Romano VACCARELLA "

- Paolo MADDALENA "

- Alfio FINOCCHIARO "

ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 3 e 4 della legge della Regione Sardegna 8 luglio 2002, n. 11 (Norme varie in materia di personale regionale e modifiche alla legge reg. 13 novembre 1998 n. 31), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 17 settembre 2002, depositato in cancelleria il 27 settembre 2002 ed iscritto al n. 60 del registro ricorsi 2002.

Visto l'atto di costituzione della Regione Sardegna;

udito nell'udienza pubblica del 6 maggio 2003 il Giudice relatore Franco Bile;

uditi l'avvocato dello Stato Giorgio D'Amato per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Sergio Panunzio per la Regione Sardegna.

Ritenuto in fatto

1.- Con il ricorso in epigrafe il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato in via principale gli articoli 3 e 4 della legge della Regione Sardegna 8 luglio 2002, n. 11 (Norme varie in materia di personale regionale e modifiche alla legge reg. 13 novembre 1998 n. 31), assumendo che essi sarebbero in contrasto con gli articoli 3, primo comma, 97, primo e terzo comma, 51, primo comma, ed 81 della Costituzione, nonché con l'art. 3 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), sotto il profilo dell'inosservanza dei limiti alle competenze legislative della Regione, desumibili:

a) per quanto riguarda l'art. 3, dall'art. 12, comma 4, del decreto legislativo 1° dicembre 1997, n. 468 (Revisione della disciplina dei lavori socialmente utili, a norma dell'articolo 22 della L. 24 giugno 1997, n. 196);

b) e, per quel che concerne l'art. 4, dagli articoli 1, comma 3, e 28, comma 1, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell'articolo 2 della L. 23 ottobre 1992, n. 421) e dall'art. 51 della legge 8 giugno 1990, n. 142 (Ordinamento delle autonomie locali).

Il ricorrente, in via preliminare, osserva che questa Corte (particolarmente nelle sentenze n. 1 del 1999 e n. 194 del 2002) ha più volte ritenuto in contrasto con gli articoli 3, primo comma, e 97, primo e terzo comma, della Costituzione le disposizioni legislative, le quali, mediante riserve di posti od altrimenti, in concreto escludano o gravemente limitino l'effettività della regola del concorso "aperto" ad esterni per l'accesso agli impieghi nelle amministrazioni pubbliche, in quanto le procedure concorsuali, quando non distorte e non marginalizzate, appaiono funzionali all'assicurazione del valore costituzionale della parità di trattamento e dell'eguaglianza tra più soggetti aspiranti ad un provvedimento lato sensu concessorio e di quello dell'efficienza, imparzialità e buon andamento dell'amministrazione.

2.- Dopo questa premessa, il ricorrente illustra la prima censura, rilevando:

a) che il citato art. 3 della legge regionale ha previsto, nel comma 1, l'immissione nei "ruoli organici", dei soggetti addetti a lavori socialmente utili operanti alla data del 23 luglio 2002 presso l'amministrazione e gli enti regionali e, nel comma 2, di dipendenti assunti a termine od a tempo determinato ed in servizio alla anzidetta data;

b) che tali inquadramenti dovrebbero avvenire "nei limiti dei posti che risulteranno vacanti a conclusione delle selezioni interne previste dall'art. 2" della stessa legge per il personale dipendente, ossia con riguardo a quel 50% dei posti vacanti per il quale si sarebbero dovuti - se non fosse intervenuta la norma censurata - bandire concorsi non riservati;

c) che in tal modo si assicurerebbe ai beneficiari della "progressione verticale" mediante le "selezioni interne" anche l'ulteriore vantaggio di un blocco dei concorsi (e quindi di non avere in anni futuri l'effettiva concorrenza di elementi giovani provenienti da concorsi "aperti").

Senonché, pur essendo la riduzione del numero degli addetti ai lavori socialmente utili un obiettivo meritevole di considerazione, esso non potrebbe, però, essere perseguito, oltre che in modo casuale (posto che ne beneficerebbero coloro che si trovano ad operare per la Regione), a scapito dell'effettività dei menzionati parametri costituzionali.

D'altro canto, il legislatore statale, con l'art. 12, comma 4, del decreto legislativo n. 468 del 1997, a suo tempo recepito dallo stesso legislatore sardo (art. 1, comma 1, della legge della Regione Sardegna 1° agosto 2000, n. 16 "Provvedimenti relativi al personale impiegato dall'Amministrazione regionale e dagli enti regionali nei lavori socialmente utili e nei progetti-obiettivo e disciplina dei compensi spettanti agli amministratori del fondo per l'integrazione del trattamento di quiescenza, di previdenza e di assistenza del personale dipendente dall'Amministrazione regionale") avrebbe fissato un limite quantitativo, cioè una quota del 30%, per la riserva di posti a favore degli addetti ai lavori in questione, e, quindi, anche il limite massimo di comprimibilità - in via eccezionale - degli indicati valori costituzionali.

Inoltre, anche se la stabilizzazione di parte dei dipendenti non a tempo indeterminato potrebbe, forse, essere considerata un obiettivo da tenere in considerazione, tuttavia, a pena di elusione di quei valori, non potrebbero legittimarsi <<pratiche "non-virtuose" (ed anche sovente espressamente vietate dall'ordinamento)>> e non potrebbero <<esonerarsi i dipendenti temporanei dall'onere di competere con "esterni" in normali procedure concorsuali>>.

D'altronde, le proroghe dei rapporti del personale assunto a termine e dei lavoratori addetti a lavori socialmente utili, disposte dall'art. 2, comma 2, della legge della Regione Sardegna n. 16 del 2000, dall'art. 1, comma 1, delle legge della Regione Sardegna 13 agosto 2001, n. 13 (Proroga per un ulteriore periodo, dell'utilizzazione del personale impiegato dall'Amministrazione e dagli enti regionali nei progetti-obiettivo e nei lavori socialmente utili) ed - ora - dall'art. 3, comma 4, della legge in esame non potrebbero essere ritenute produttive di "affidamenti" suscettibili di consolidarsi malgrado opposte indicazioni costituzionali.

Infine, viene rilevato come l'art. 3, comma 2, neppure distinguerebbe tra dipendenti, a seconda delle "qualifiche per le quali erano state indette le selezioni o effettuato l'accertamento dell'idoneità"; e che il comma 5 dell'art. 3 sarebbe illegittimo in riferimento <<all'art. 81 Cost. ed al patto di stabilità interna>>, giacché <<la previsione di spesa "a regime">> meriterebbe una verifica.

3. – Quanto alla censura relativa all'art. 4, il ricorrente lamenta che esso ha introdotto modifiche all'art. 77 rubricato "prima costituzione della dirigenza" della legge della Regione Sardegna 13 novembre 1998, n. 31 (Disciplina del personale regionale e dell'organizzazione e degli uffici della Regione), ed in particolare che:

aa) modificandone il comma 2, ha "attribuito" - ope legis anche se in sede di prima applicazione della legge – "la qualifica di dirigente" a dipendenti in possesso (oltre che dell'anzianità e dell'appartenenza alle "fasce" ivi indicate) del diploma di laurea;

bb) aggiungendovi [art. 4 lett. b)] il comma 2-bis, ha aperto anche a dipendenti non laureati l'accesso senza concorso alla dirigenza, posto che tale norma non sarebbe di significato univoco, laddove recita che "hanno comunque titolo all'attribuzione della qualifica" anziché che "è attribuita la qualifica" ed inoltre, sarebbe contraddetto dal comma 7 del citato art. 77, rimasto invariato;

cc) modificandone [art. 4 lett. d)] i commi 5 e 9, ha aumentato la già troppo elevata quota (75 per cento) dei posti "rimasti" vacanti nella dotazione della dirigenza dopo gli inquadramenti di cui ai commi 1 e 2, riservata al concorso interno, al 90 per cento;

dd) abrogandone [art. 4 lett. e)] il comma 10, ove, - ancorché in coda alle procedure di "attribuzione" ope legis della qualifica di dirigente ed al concorso interno - era prevista l'indizione di concorsi pubblici per l'accesso alla dirigenza, ha eliminato tale possibilità.

Secondo il ricorrente, l'insieme delle tre disposizioni contenute nelle lettere b), d) ed e) dell'art. 4 contrasterebbe con gli evocati parametri costituzionali e con le indicate norme interposte, in quanto l'accesso alla qualifica di dirigente di ruolo deve avvenire mediante concorso o procedura selettiva di pari serietà, ai quali potrebbero essere ammessi soltanto soggetti muniti di laurea. La riserva di posti ai concorsi interni non potrebbe, del resto, assorbire la quasi totalità delle vacanze, giacché la dirigenza non potrebbe divenire, per il cumulo di attribuzioni ope legis e di concorsi interni, un'ulteriore prosecuzione della "progressione verticale", non essendo i concorsi o le procedure equipollenti per l'accesso alla dirigenza promozioni, bensì - anche agli effetti dell'art. 68, comma 4, del citato d.lgs. n. 29 del 1992 [rectius 1993] - procedure per l'assunzione.

4.- Si è costituita in giudizio la Regione Sardegna, depositando memoria, nella quale preliminarmente ha sostenuto l'inammissibilità della censura di violazione dell'art. 3 della legge costituzionale n. 3 del 1948, in quanto non sarebbero stati individuati quali fra i limiti da tale norma indicati sarebbero stati violati.

In secondo luogo, ha ulteriormente eccepito l'inammissibilità del ricorso, assumendo che esso eccederebbe l'ambito entro cui il Governo è legittimato ad impugnare le leggi regionali, per come emerge dall'art. 127 della Costituzione, nel testo novellato dall'art. 8 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), che sarebbe applicabile - anche ai sensi dell'art. 10 della legge costituzionale ora citata - alle leggi della deducente, non essendo più applicabile l'art. 33, comma 2, dello statuto.

Il ricorso sarebbe, altresì, infondato nel merito.

Infatti, la disciplina delle competenze legislative regionali prevista dallo statuto ed in particolare quella di cui al citato art. 3, comma 1, pur essendo in rapporto di specialità con la Costituzione, non sarebbe rimasta indifferente alla riforma del Titolo V, nel senso che, in forza dell'art. 10 della citata legge costituzionale n. 3 del 2001, non sarebbero più opponibili alla competenza legislativa esclusiva regionale i limiti originariamente previsti dallo stesso art. 3, che non trovino più corrispondenza nel nuovo articolo 117, primo comma, della Costituzione. Poiché la competenza regionale esclusiva o residuale spettante alle Regioni ad autonomia ordinaria in base al quarto comma dello stesso art. 117 non incontrerebbe limiti nella legislazione statale, altrettanto dovrebbe valere per la competenza esclusiva della Regione Sardegna nella materia dell'ordinamento degli uffici e dello stato giuridico ed economico dei dipendenti regionali. Essa, ormai, incontrerebbe soltanto il limite (oltre che delle norme costituzionali) degli obblighi internazionali e quello dei vincoli comunitari (ex primo comma dell'art. 117), ma non più quello delle "norme fondamentali delle riforme economico-sociali" e quello dei "principi dell'ordinamento giuridico" (che non abbiano rango costituzionale). D'altro canto, il limite dei principi fondamentali della legislazione statale concernerebbe solo la competenza legislativa concorrente.

Un'ulteriore subordinata ragione di infondatezza emergerebbe per il fatto che l'art. 3 apporterebbe una deroga ragionevole e come tale consentita dallo stesso art. 97 Cost. al principio del concorso, concernendo soggetti che hanno stabilito da lungo tempo un rapporto con l'amministrazione in base a procedure selettive, mentre l'art. 4 sarebbe oggetto di censure che impingono nel merito della scelta del legislatore regionale e non sarebbero suscettibili di sindacato.

5.- Nell'imminenza della pubblica udienza entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.

5.1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri replica preliminarmente all'eccezione di inammissibilità del ricorso prospettata dalla Regione con riferimento alla non deducibilità da parte dello Stato con il ricorso in via principale della violazione di qualsiasi norma costituzionale, assumendo che questa Corte avrebbe disatteso tale interpretazione del nuovo art. 127 della Costituzione nella sentenza n. 94 del 2003.

Con riguardo all'eccezione circa il venir meno del limite delle "norme fondamentali di riforme economico-sociali", di cui all'art. 3 Cost., se ne argomenta l'infondatezza, in quanto l'art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001 consentirebbe soltanto di <<applicare alle Regioni a statuto speciale "parti" della legge costituzionale>>, ma non di <<operare "ritagli" demolitori alle disposizioni, esse pure costituzionali, recate dagli Statuti speciali….>>.

5.2. – A sua volta, la Regione Sardegna insiste nell'eccezione di inammissibilità del ricorso con riferimento alla deduzione di parametri costituzionali non inerenti la delimitazione della competenza legislativa regionale, in ragione della identica dignità costituzionale fra Stato e Regioni e, quindi, della pari collocazione dei rispettivi atti legislativi nel sistema delle fonti, a seguito della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione.

La memoria, quindi, insiste sul venir meno per la potestà legislativa esclusiva regionale - in forza dell'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 - del limite delle norme di riforme economico-sociali, che non sarebbe più configurabile, in quanto la sua permanenza, in contrasto con detta norma, porrebbe la potestà legislativa regionale esclusiva (come quelle delle altre Regioni e Province a statuto speciale) in una posizione di soggezione a limiti molto più incisivi di quelli che incontrerebbe nel nuovo ordinamento costituzionale la potestà legislativa esclusiva delle Regioni a statuto ordinario.

In subordine, la Regione sostiene che, qualora si desse rilievo alla circostanza che la potestà legislativa esclusiva delle Regioni e Province a statuto speciale d'autonomia è molto più ampia di quella riconosciuta alle Regioni ordinarie dal nuovo art. 117, dovrebbe escludersi il venir meno del suddetto limite soltanto con riferimento a quelle materie di competenza legislativa esclusiva degli enti ad autonomia speciale, che non coincidono con quelle attribuite alla competenza esclusiva delle Regioni a statuto ordinario dal nuovo art. 117, quarto comma, Cost., ma non potrebbe negarsi che esso sia almeno venuto meno per quelle materie di competenza esclusiva secondo gli statuti di autonomia speciale, che, invece, coincidono con quelle ora affidate alla competenza esclusiva delle Regioni ordinarie.

Poiché la disciplina dell'ordinamento degli uffici regionali e dello stato giuridico ed economico del relativo personale, in base al nuovo art. 117 deve considerarsi attribuita alla legislazione esclusiva delle Regioni ordinarie ex quarto comma di detta norma, sarebbe, dunque, palese - in forza di questa argomentazione interpretativa subordinata - l'insussistenza nella specie dell'operare del limite delle "norme fondamentali di riforme economico-sociale".

Nel merito, la Regione ribadisce le argomentazioni svolte in ordine alla infondatezza delle censure mosse alla normativa impugnata, di cui analiticamente riafferma la legittimità, in considerazione (per quanto concerne l'art. 5) della sua coerenza con la legislazione statale in tema di ammortizzatori sociali e (con riferimento all'art. 4) della peculiarità della situazione fattuale alla quale il legislatore regionale ha dovuto porre rimedio.

Considerato in diritto

1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato in via principale gli artt. 3 e 4 della legge della Regione Sardegna 8 luglio 2002, n. 11 (Norme varie in materia di personale regionale e modifiche alla legge regionale 13 novembre 1998, n. 31), per contrasto con gli artt. 3, primo comma, 97, primo e terzo comma, 51, primo comma, e 81 della Costituzione, nonché con le <<relative norme interposte e per inosservanza dei limiti posti dall'art. 3 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna) alle competenze legislative della Regione>>.

1.1. – L'art. 3 autorizza l'amministrazione e gli enti regionali ad inquadrare nei propri ruoli organici i soggetti impiegati presso di essi in lavori socialmente utili alla data di entrata in vigore della legge, e i dipendenti assunti a termine o a tempo determinato il cui rapporto a quella data sia in atto o sia stato prorogato almeno una volta (commi 1 e 2); limita tali inquadramenti ai posti risultati vacanti a conclusione delle selezioni interne previste dall'art. 2 per la copertura del 50 per cento dei posti dell'organico (comma 3); proroga fino a tale inquadramento i rapporti del personale in esame (comma 4); e prevede la copertura degli oneri finanziari (comma 5).

Secondo il ricorrente, siffatta immissione di personale nei ruoli organici si risolve in una deroga ingiustificata alla regola del concorso pubblico per l'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni, posta dall'art. 97 della Costituzione; e viola altresì la legislazione statale in tema di addetti a lavori socialmente utili, per i quali la riserva è limitata al solo 30 per cento dei posti (art. 12, comma 4, del decreto legislativo 1 dicembre 1997, n. 468, Revisione della disciplina dei lavori socialmente utili, a norma dell'art. 22 della legge 24 giugno 1997, n. 196).

Infine il comma 5 dell'art. 3 è censurato <<con riguardo all'art. 81 della Costituzione ed al patto di stabilità interna>>, in quanto <<la previsione di spesa "a regime" merita una verifica>>.

 

1.2. – L'art. 4 introduce una serie di modifiche all'art. 77 della legge regionale 13 novembre 1998, n. 31 (poi modificato dalla legge n. 6 del 2000), che attribuiva ope legis la qualifica di dirigente al personale regionale avente qualifica funzionale dirigenziale in base alla legislazione previgente (comma 1); prevedeva poi l'attribuzione di tale qualifica, con decreto dell'assessore competente, ai dipendenti laureati inquadrati nel ruolo speciale apicale, con particolari requisiti di anzianità di servizio e di esercizio delle funzioni (comma 2); disponeva infine che, dopo questi inquadramenti, il 75% dei posti di dirigente ancora vacanti sarebbe stato coperto con concorsi interni per titoli ed esami (commi 5 ss.), dopo i quali sarebbero stati indetti concorsi pubblici (comma 10).

Le modifiche apportate a tali disposizioni - non impugnate dallo Stato – dalle lettere b, d ed e) dell'art. 4, oggi censurato, riguardano rispettivamente l'introduzione nell'art. 77 del comma 2-bis, secondo cui <<hanno comunque titolo alla qualifica di dirigente>> i dipendenti con determinati requisiti, fra i quali non ricorre la laurea; l'aumento dal 75 al 90% della quota dei posti dirigenziali, rimasti vacanti dopo gli inquadramenti, riservata al concorso interno; e l'abrogazione del comma 10 dell'art. 77, che (sia pure dopo l'espletamento delle procedure di cui ai commi precedenti) prevedeva concorsi pubblici per l'accesso alla dirigenza.

Secondo il ricorrente, questa normativa contrasta con gli artt. 3, primo comma, 97, primo e terzo comma, e 51 della Costituzione, integrati da norme interposte, quali l'art. 1, comma 3, e l'art. 28, comma 1, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell'art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) e l'art. 51 della legge 8 giugno 1990, n. 142 (Ordinamento delle autonomie locali): questi parametri infatti - esigendo che l'accesso alla qualifica di dirigente di ruolo avvenga mediante concorso o procedura selettiva di pari serietà, aperti soltanto a soggetti muniti di laurea - non consentono che si ricorra a concorsi interni per coprire la quasi totalità delle vacanze, e che la dirigenza divenga, per il cumulo di attribuzioni ope legis e di concorsi interni, un'ulteriore prosecuzione della "progressione verticale".

2. - La Regione resistente ha sollevato talune eccezioni preliminari di inammissibilità del ricorso.

2.1. - La prima di esse pone il problema se – nell'assetto derivato dalla riforma del titolo V della seconda parte della Costituzione, introdotta dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 – lo Stato, impugnando in via principale una legge regionale, possa dedurre come parametro violato qualsiasi norma costituzionale, ovvero solo quelle concernenti il riparto delle competenze legislative.

Il problema è prospettato in quanto il ricorso dello Stato denuncia la violazione non solo dell'art. 3 dello statuto della Regione Sardegna, relativo ai limiti della potestà legislativa regionale, ma anche degli artt. 3, 51, 81 e 97 della Costituzione, che non riguardano direttamente tali limiti.

Prima della ricordata riforma costituzionale, questa Corte, a partire dalla sentenza n. 30 del 1959, aveva ritenuto che lo Stato, a differenza delle Regioni, fosse legittimato ad evocare qualsiasi parametro costituzionale, pur se non direttamente relativo a delimitazioni di competenze.

Questo orientamento si riconduceva alla differenza tra il testo (originario) dell'art. 127 della Costituzione e quello dell'art. 2, comma 1, della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 (Norme sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie di indipendenza della Corte costituzionale). Infatti il primo - prevedendo il ricorso dello Stato contro la legge della regione che "ecceda la competenza" regionale - consentiva di ravvisare tale <<eccesso>> nel contrasto della legge impugnata con qualsiasi principio costituzionale. Invece il secondo – relativo al ricorso della Regione contro la legge dello Stato o di altra Regione che "invada la sfera di competenza" della ricorrente – induceva a ritenere che potesse essere dedotta solo la violazione di parametri (costituzionali e interposti) incidenti, direttamente o indirettamente, sul riparto delle competenze. Era evidente l'asimmetria fra i parametri rispettivamente deducibili.

Nel nuovo testo dell'art. 127 della Costituzione, il primo comma continua a prevedere l'impugnazione da parte del Governo della legge regionale che "ecceda la competenza" della Regione. Il secondo comma invece concerne l'impugnazione, da parte della Regione, della legge dello Stato (o di altra Regione) che "leda la sua [cioè della Regione ricorrente] sfera di competenza", così conservando la diversità rispetto alla disciplina del ricorso dello Stato, con una formulazione sostanzialmente simile a quella dell'art. 2 della legge costituzionale n. 1 del 1948.

Certamente il mero dato testuale - già richiamato dalla Corte nella sentenza n. 94 del 2003 - non è decisivo ai fini della soluzione del problema, ben potendo una norma conservare nel tempo la formulazione originaria e tuttavia consentire una diversa interpretazione in ragione del successivo mutamento del contesto nel quale essa sia inserita.

E proprio sul piano sistematico si è talora rilevato come l'insieme delle modifiche apportate dalla riforma costituzionale del 2001 al quadro complessivo dei rapporti fra Stato e Regioni porti ad escludere la persistenza della ricordata asimmetria. In questa prospettiva sono apparsi particolarmente rilevanti l'art. 114, che pone sullo stesso piano lo Stato e le Regioni, come entità costitutive della Repubblica, accanto ai Comuni, alle Città metropolitane e alle Province; l'art. 117, che ribalta il criterio prima accolto, elencando specificamente le competenze legislative dello Stato e fissando una clausola residuale in favore delle Regioni; e infine l'art. 127, che configura il ricorso del Governo contro le leggi regionali come successivo, e non più preventivo.

Ma - ai fini di individuare il contenuto di tale ricorso governativo – è decisivo rilevare come, nel nuovo assetto costituzionale scaturito dalla riforma, allo Stato sia pur sempre riservata, nell'ordinamento generale della Repubblica, una posizione peculiare desumibile non solo dalla proclamazione di principio di cui all'art. 5 della Costituzione, ma anche dalla ripetuta evocazione di un'istanza unitaria, manifestata dal richiamo al rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, come limiti di tutte le potestà legislative (art. 117, comma 1) e dal riconoscimento dell'esigenza di tutelare l'unità giuridica ed economica dell'ordinamento stesso (art. 120, comma 2). E tale istanza postula necessariamente che nel sistema esista un soggetto – lo Stato, appunto – avente il compito di assicurarne il pieno soddisfacimento.

Lo stesso art. 114 della Costituzione non comporta affatto una totale equiparazione fra gli enti in esso indicati, che dispongono di poteri profondamente diversi tra loro: basti considerare che solo allo Stato spetta il potere di revisione costituzionale e che i Comuni, le Città metropolitane e le Province (diverse da quelle autonome) non hanno potestà legislativa.

In conclusione, pur dopo la riforma, lo Stato può impugnare in via principale una legge regionale deducendo la violazione di qualsiasi parametro costituzionale.

 

2.2. - La Regione Sardegna ha eccepito poi l'inammissibilità del ricorso sotto il profilo che esso non precisa in relazione a quale parte dell'art. 3 dello statuto la legge impugnata abbia ecceduto dai limiti della potestà legislativa regionale e, in particolare, se abbia violato <<norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica>>.

L'eccezione non è fondata, perché – malgrado una certa genericità delle censure - da esse si ricava comunque la denuncia del mancato rispetto di norme assunte come rientranti nell'indicata categoria.

Infatti, l'invocazione degli altri limiti di cui all'art. 3 dello statuto non sarebbe comprensibile, in ragione della loro estraneità rispetto all'oggetto della normativa impugnata, e d'altro canto - a proposito della questione relativa all'accesso alla dirigenza di cui all'art. 4 - il ricorso evoca l'art. 1, comma 3, del decreto legislativo n. 29 del 1993, il quale a sua volta richiama testi da cui sono desumibili principi fondamentali di riforme economico-sociali.

2.3. – Anche le altre eccezioni di inammissibilità proposte dalla Regione sono infondate.

Quanto al rilievo che lo Stato avrebbe genericamente qualificato <<norme fondamentali di riforme economico-sociali>> quelle assunte come violate, è decisivo che - spettando a questa Corte valutare la fondatezza di tale qualificazione - l'eventuale difetto di motivazione del ricorso sul punto non preclude l'esame del merito della censura.

Quanto poi alla mancata considerazione da parte del ricorrente della già intervenuta abrogazione, all'atto della proposizione del ricorso, di alcune fra le norme evocate come interposte a proposito dell'impugnato art. 4, la Regione non considera che il loro contenuto risulta in sostanza trasferito in altre disposizioni, pur se non sempre del tutto coincidenti e talora modificate dalla legislazione successiva. Infatti il contenuto degli artt. 1 e 28 del decreto legislativo n. 29 del 1993 - abrogati dall'art. 72 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) – è stato trasfuso negli artt. 1 e 28 di tale decreto; e il contenuto dell'art. 51 della legge 8 giugno 1990, n. 142 (Ordinamento delle autonomie locali) - abrogato dall'art. 274, lett. q), del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali) - è stato trasfuso negli artt. 107 ss. del decreto stesso.

3. – Passando all'esame delle questioni di legittimità costituzionale relative all'art. 3 della legge sarda n. 11 del 2002, la censura di violazione dell'art. 81 della Costituzione (prospettata in relazione al comma 5 della norma impugnata) è inammissibile per assoluta genericità. La motivazione sulla non manifesta infondatezza si riduce infatti all'apodittico richiamo all'opportunità di verificare la previsione di spesa, in riferimento al <<patto di stabilità interna>>.

3.1. – Le altre questioni di legittimità costituzionale relative all'art. 3 della legge regionale non sono fondate.

3.2. - Con riferimento alla censura di violazione dell'art. 3 dello statuto sardo, la Regione ritiene che la recente riforma costituzionale abbia fatto venir meno - relativamente alle aree di potestà legislativa esclusiva delle Regioni (e Province) autonome coincidenti con aree ora attribuite alla potestà legislativa esclusiva (<<residuale>>) delle Regioni ordinarie - il limite costituito dall'obbligo (ove previsto dai relativi statuti, come appunto quello sardo) di rispettare le norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica.

La tesi è fondata.

Infatti, se – in riferimento alle citate aree - il vincolo di quel limite permanesse pur nel nuovo assetto costituzionale, la potestà legislativa esclusiva delle Regioni (e Province) autonome sarebbe irragionevolmente ristretta entro confini più angusti di quelli che oggi incontra la potestà legislativa <<residuale>> delle Regioni ordinarie.

Per esse infatti - nelle materie di cui al quarto comma del nuovo art. 117 della Costituzione - valgono soltanto i limiti di cui al primo comma dello stesso articolo (e, se del caso, quelli indirettamente derivanti dall'esercizio da parte dello Stato della potestà legislativa esclusiva in <<materie>> suscettibili, per la loro configurazione, di interferire su quelle in esame), onde devono escludersi ulteriori limiti derivanti da leggi statali già qualificabili come norme fondamentali di riforma economico-sociale.

Pertanto - ai sensi dell'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 – la particolare <<forma di autonomia>> così emergente dal nuovo art. 117 della Costituzione in favore delle Regioni ordinarie si applica anche alle Regioni a statuto speciale, come la Sardegna, ed alle Province autonome, in quanto <<più ampia>> rispetto a quelle previste dai rispettivi statuti.

Da questa ricostruzione (pienamente conforme al criterio interpretativo enunciato dalla sentenza n. 103 del 2003) discende che - essendo la materia dello stato giuridico ed economico del personale della Regione Sardegna, e degli enti regionali, riservata dall'art. 3, lett. a), dello statuto alla legislazione esclusiva della Regione, ed essendo l'analoga materia, per le Regioni a statuto ordinario, riconducibile al quarto comma dell'art. 117 - la tesi sostenuta nel ricorso, secondo cui la legge regionale avrebbe dovuto rispettare le disposizioni statali recanti norme fondamentali di riforme economico-sociali, non può essere accolta.

3.3. – L'art. 3 della legge regionale in esame non lede nemmeno gli artt. 3, primo comma, e 97, primo e terzo comma, della Costituzione.

La giurisprudenza di questa Corte ritiene che alla regola del pubblico concorso - quale metodo che, per l'accesso alla pubblica amministrazione, offre le migliori garanzie di selezione dei più capaci, in funzione dell'efficienza della stessa amministrazione (art. 97, comma 1, della Costituzione) - sia possibile apportare deroghe (come del resto ammette il terzo comma dell'art. 97) qualora ricorrano particolari situazioni che le rendano non irragionevoli (da ultimo, ordinanza n. 517 del 2002).

Ai fini di una valutazione di non irragionevolezza della disciplina in esame è rilevante considerare come essa riguardi l'inserimento in posti di ruolo di soggetti i quali si trovavano da tempo, nell'ambito dell'amministrazione regionale (o degli enti regionali), in una posizione di precarietà, perché assunti con contratto a termine o con la particolare qualificazione connessa alla figura degli addetti a lavori socialmente utili; e quindi verosimilmente avevano, nella precarietà, acquisito l'esperienza necessaria a far ritenere la stabilizzazione della loro posizione funzionale alle esigenze di buon andamento dell'amministrazione (art. 97, comma 1, della Costituzione).

In questo senso è significativo che, in base al comma 3 dell'impugnato art. 3, all'inquadramento nei ruoli consegua la stabilizzazione in posizioni corrispondenti al profilo delle prestazioni espletate in via precaria.

D'altronde plurimi indici normativi mostrano come anche il legislatore statale abbia ritenuto siffatta stabilizzazione meritevole di considerazione: l'art. 78, comma 6, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Legge finanziaria 2001), modificato da ultimo dall'art. 50 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Legge finanziaria 2002), ha previsto, per gli anni 2001-2003, l'assunzione da parte delle Regioni di addetti a lavori socialmente utili; e ancor prima l'art. 6, comma 3, del decreto legislativo 28 febbraio 2000, n. 81 (Integrazioni e modifiche della disciplina dei lavori socialmente utili, a norma dell'art. 45, comma 2, della legge 17 maggio 1999, n. 144), aveva stabilito che le Regioni, per agevolare la stabilizzazione di questi soggetti, <<possono utilizzare risorse proprie>>.

4. - L'art. 4 della legge regionale - concernente l'accesso alla dirigenza nell'amministrazione della Regione (e degli enti regionali) - viola l'art. 97, primo e terzo comma, della Costituzione.

La norma ha notevolmente ampliato la deroga al principio del concorso pubblico già introdotta dall'art. 77 della legge n. 31 del 1998 (retro, n. 1.2.), introducendo in tale articolo il comma 2-bis, che, in presenza di taluni requisiti, attribuisce il <<titolo alla qualifica di dirigente>> anche al personale apicale non laureato (art. 4, lett. b); aumentando dal 75 al 90 per cento la percentuale dei posti rimasti vacanti riservati al concorso interno (art. 4, lett. d); ed eliminando del tutto la previsione del concorso pubblico per la copertura della pur minima quota residua di posti (art. 4, lett. e).

Questa Corte ha spesso affermato (da ultimo, sentenza n. 218 del 2002) che l'accesso dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni a funzioni più elevate non sfugge, di norma, alla regola del pubblico concorso, cui è possibile apportare deroghe solo se particolari situazioni ne dimostrino la ragionevolezza; ed ha precisato che, di regola, questo requisito non è configurabile – con conseguente violazione del parametro evocato – a proposito di norme che prevedano scivolamenti automatici verso posizioni superiori (senza concorso o comunque senza adeguate selezioni o verifiche attitudinali) o concorsi interni per la copertura della totalità dei posti vacanti (da ultimo, sentenza n. 373 del 2002).

Siffatta violazione ricorre nella specie, in quanto la normativa censurata introduce per l'accesso alla qualifica dirigenziale dell'amministrazione regionale (e degli enti regionali) una disciplina che - per l'effetto congiunto dell'attribuzione di tale qualifica senza concorso, dei concorsi riservati, e dell'abrogazione della previsione legislativa di concorsi pubblici per i posti dirigenziali residui – comporta una deroga ingiustificata all'art. 97 della Costituzione.

Gli altri profili di censura restano assorbiti.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 5, della legge della Regione Sardegna 8 luglio 2002, n. 11 (Norme varie in materia di personale regionale e modifiche alla legge regionale 13 novembre 1998, n. 31), sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento all'art. 81 della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3 della legge della Regione Sardegna 8 luglio 2002, n. 11, sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 97, primo e terzo comma, della Costituzione, nonché all'art. 3 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, lettere b), d) ed e), della legge della Regione Sardegna 8 luglio 2002, n. 11.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale0, Palazzo della Consulta, l'8 luglio 2003.

F.to:

Riccardo CHIEPPA, Presidente

Franco BILE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 luglio 2003.

 


 

 

DIRITTO DI ACCESSO E TUTELA DELLA PRIVACY
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V – Sentenza 3 luglio 2003 n. 4002 (sulla valutazione in concreto che la P.A. deve compiere nel caso di istanza di accesso ai dati idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale di un soggetto); v. anche in argomento da ult. TAR PUGLIA-BARI, SEZ. I – Sentenza 7 luglio 2003 n. 2782, con nota di L. SPAGNOLETTI, Diritto di accesso, tutela della privacy, poteri istruttori del giudice civile ..

 

 

CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V – Sentenza 3 luglio 2003 n. 4002 – Pres. ff. Allegretta, Est. Cerreto - Di Sante (Avv.ti G. Mangia e A. Marsilio) c. Comune di Martinsicuro (n.c.) e Giorgetti (n.c.) – (conferma T.A.R. Abruzzo - L’Aquila, 3 ottobre 2001, n. 582).

Atto amministrativo – Diritto di accesso – Accesso ai dati sensibili – Limiti ex art. 16, 2° comma, del D.L.vo n. 135/1999 – Valutazione dell’interesse alla riservatezza – Va compiuta in concreto – Fattispecie.

L’art. 16, 2° comma, del D.L.vo 11 maggio 1999 n. 135 (secondo il quale l’accesso ai dati idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale è consentito se il diritto da far valere o difendere è di rango almeno pari a quello dell’interessato), non risolve in astratto il conflitto tra l’interesse del terzo a conseguire l’accesso e quello alla riservatezza dell’interessato, ma consente all’Amministrazione che detiene i dati sensibili – e, in mancanza, al Giudice amministrativo - di valutare in concreto ciascuna fattispecie, al fine di stabilire se l’accesso sia necessario o meno per far valere o difendere un diritto almeno pari a quello dell’interessato (1) (nella specie è stato ritenuto legittimo il silenzio-rigetto formatosi su di una istanza con la quale la appellante aveva chiesto di accedere all’esito della visita medica di leva del marito che intendeva produrre in un procedimento per la nullità del matrimonio per incapacità del marito stesso ad assumersi gli obblighi matrimoniali essenziali per cause di natura psichica; ha osservato la Sez. V del CdS che nella specie non vi era motivo per rivelare dati riservati, atteso che il marito aveva dichiarato al Tribunale ecclesiastico, innanzi al quale pendeva detto procedimento, di essere favorevole alla declaratoria di nullità del matrimonio).

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(1) Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 30 marzo 2001, n. 1882, in www.giust.it n. 4-2001 e sez. VI, 9 maggio 2002, n. 2542, in Foro amm. CDS 2002, f. 5.

Alla stregua del principio nella specie è stata ritenuto legittimo il silenzio-rigetto formatosi su di una istanza con la quale era stato chiesto da parte della ricorrente di accedere all’esito della visita medica di leva del marito; la domanda di accesso era stata presentata dalla moglie al fine della tutela giudiziaria e per ragioni istruttorie nell’ambito del procedimento per la nullità del matrimonio pendente presso il Tribunale ecclesiastico regionale di Chieti, adito dalla moglie per incapacità dell’altro coniuge ad assumersi gli obblighi matrimoniali essenziali per cause di natura psichica.

Ha osservato in proposito la Sez. V del CdS, confermando la sentenza di primo grado, che nella specie non appariva ben chiara l’esigenza di difesa prospettata dall’istante, in quanto il coniuge aveva dichiarato al Tribunale ecclesiastico di essere favorevole alla declaratoria di nullità del matrimonio; d’altra parte, nella dichiarazione del coniuge doveva ritenersi implicitamente ammessa anche la ragione per la quale viene richiesta la nullità del matrimonio, salvo gli accertamenti del caso. Per cui non vi era motivo nella specie per rivelare dati riservati.

Sul rapporto tra diritto di accesso e tutela della riservatezza v. nella rivista www.giust.it:

CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - Sentenza 30 marzo 2001 n. 1882

CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - Sentenza 26 gennaio 1999 n. 59 con nota di G. Virga, Il difficile rapporto tra diritto di accesso e diritto alla riservatezza alla luce delle norme sulla partecipazione amministrativa (come conciliare due diritti apparentemente in conflitto)

CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - Sentenza 2 dicembre 1998 n. 1725

TAR PUGLIA-BARI, SEZ. I – Sentenza 3 settembre 2002 n. 3827

TAR LOMBARDIA-MILANO, SEZ. II - Sentenza 23 giugno 2000 n. 4615

TAR EMILIA ROMAGNA-BOLOGNA, SEZ. I – Sentenza 6 dicembre 2001 n. 1207

GARANTE PRIVACY - Newsletter 4-10 novembre 2002

Rassegna stampa - Cherchi, Riservatezza ed accesso

 


 

FATTO e DIRITTO

1. Con l’appello in epigrafe, l’interessata ha fatto presente che in data 13.1.2001 aveva presentato istanza presso il Tribunale ecclesiastico regionale di Chieti per la dichiarazione di nullità del matrimonio contratto nel 1994 con Abramo Giorgetti, per incapacità di costui ad assumersi gli obblighi matrimoniali essenziali per cause di natura psichica; che con decreto di accettazione del 5.3.2001 la causa era stata iscritta a ruolo; che con comunicazione del 2.4.2001 il convenuto dichiarava di essere favorevole alla richiesta di nullità matrimoniale; che nella sessione del 6.4.2001 veniva dichiarata aperta la fase istruttoria; che intanto con raccomandata del 28.2.2001 l’istante richiedeva all’Ufficio leva del comune di Martinsicuro, ai sensi dell’art. 22 L. n. 241/1990, copia dell’esito di leva del sig. Giorgetti, comprensivo dell’articolo di riforma, al fine della propria tutela giudiziaria e per ragioni istruttorie nell’ambito del procedimento per la nullità del matrimonio; che l’istanza di accesso non aveva seguito nel termine prescritto, per cui adiva il TAR Abruzzo, che respingeva il ricorso con la sentenza in epigrafe.

Ha dedotto che la sentenza appellata era erronea ed ingiusta per le seguenti ragioni:

-il TAR aveva ritenuto prevalente il diritto alla riservatezza dei dati relativi alla salute della persona senza valutare adeguatamente in merito alla fattispecie concreta l’interesse contrapposto all’ostensione, come del resto recentemente ritenuto dalla sez. VI del Consiglio di Stato con decisione n. 1882 del 30.3.2001 in considerazione di quanto disposto dall’art. 16 D. L.vo 11.5.199 n. 135;

-nella specie doveva ritenersi prevalente rispetto al diritto alla privacy l’interesse dell’istante ad essere libera, per cui impedirle di dimostrare in sede ecclesiastica la nullità del precedente matrimonio veniva a costituire una lesione del diritto all’accertamento del proprio stato di nubile;

-il processo ecclesiatico comunque assicurava la segretezza della documentazione esibita;

-d’altra parte il Tribunale ecclesiastico non avrebbe potuto chiedere la documentazione in questione;

-inoltre il processo ecclesiastico si basava sulla documentazione delle parti

-irrilevante era poi la circostanza che il convenuto si fosse dichiarato disponibile alla nullità del matrimonio, non solo in quanto non si era costituito nel relativo giudizio ma neppure, pur volendo, avrebbe potuto esibire direttamente la documentazione in questione, in quanto il foglio di congedo rilasciato all’interessato non riportava la specifica causa di inidoneità ai sensi della L. 22.11.1997 n. 890.

Ha concluso chiedendo l’accertamento del diritto ad accedere ed estrarre copia dell’esito di leva, comprensivo della motivazione di riforma, del sig. Giorgetti.

Alla pubblica udienza dell’8.4.2003, il ricorso è stato trattenuto in decisione.

2. Il problema che si pone è quello del rapporto tra diritto di accesso ai documenti detenuti da una Pubblica amministrazione ed il diritto alla riservatezza, trattandosi nella specie di notizie relative alla salute di un terzo.

Invero, l’oggetto dell’accesso è costituito dall’esito di leva del sig. Giorgetti, comprensivo dell’articolo di riforma, al fine della tutela giudiziaria e per ragioni istruttorie nell’ambito del procedimento per la nullità del matrimonio pendente presso il Tribunale ecclesiastico regionale di Chieti, adito dalla sig.ra Di Sante per incapacità del coniuge ad assumersi gli obblighi matrimoniali essenziali per cause di natura psichica.

Trattasi cioè di dati particolarmente sensibili, per i quali l’art. 22 L. 31.12.1996 n. 675 prescrive perfino il consenso scritto del titolare e, se trattati da Enti pubblici, ne subordina l’ostensibilità ad un’espressa previsione legislativa.

E’ intervenuto poi in materia l’art. 16 D. L.vo 11.5.199 n. 135, il quale ha espressamente statuito, per quanto interessa, che quando il trattamento concerne dati idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale, il trattamento è consentito se il diritto da far valere o difendere è di rango almeno pari a quello dell’interessato.

Con la conseguenza che il menzionato art. 16 non risolve in astratto il conflitto tra l’interesse del terzo a conseguire l’accesso e quello alla riservatezza dell’interessato, ma consente all’Amministrazione che detiene i dati sensibili, ed in sostituzione al giudice amministrativo, di valutare in concreto ciascuna fattispecie al fine di stabilire se l’accesso sia necessario o meno per far valere o difendere un diritto almeno pari a quello dell’interessato (v. le decisioni di questo Consiglio, sez. VI, n. 1882 del 30.3.2001 e n. 2542 del del 9.5.2002).

3. Tale valutazione è stata sostanzialmente effettuata dal TAR, il quale ha tra l’altro evidenziato che nella specie non appariva ben chiara l’esigenza di difesa prospettata dall’istante in quanto il coniuge aveva dichiarato al Tribunale ecclesiastico di essere favorevole alla declaratoria di nullità del matrimonio.

La conclusione del TAR deve essere condivisa in quanto nella dichiarazione del coniuge deve ritenersi implicitamente ammessa anche la ragione per la quale viene richiesta la nullità del matrimonio, salvo gli accertamenti del caso.

Né vale obiettare da parte dell’appellante che trattandosi di esito della visita di leva neppure il coniuge potrebbe essere a conoscenza della specifica causa di inidoneità, atteso che la L. 22.11.1997 n. 890 consente espressamente al diretto interessato di richiedere la comunicazione di tali ulteriori elementi.

Per cui non vi è motivo nella fattispecie per rivelare dati riservati.

4. Per quanto considerato l’appello deve essere respinto.

Non occorre pronunciarsi sulle spese del presente grado di giudizio in quanto le parti intimate non si sono costituite.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, respinge l’appello indicato in epigrafe.

Nulla spese.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 8.4.2003 con l’intervento dei Signori:

Corrado Allegretta Presidente F.F.

Goffredo Zaccardi Consigliere

Aldo Fera Consigliere

Aniello Cerreto Consigliere Est.

Claudio Marchitiello Consigliere

L'ESTENSORE Il PRESIDENTE F.F.

f.to Aniello Cerreto f.to Corrado Alegretta

Depositata in segreteria il 3 luglio 2003

 

TAR PUGLIA-BARI, SEZ. I – Sentenza 7 luglio 2003 n. 2782 – Pres. Ferrari, Est. Mangialardi – C. (Avv. C.) c. Centro servizi amministrativi di Foggia – Ufficio scolastico regionale della Puglia (Avv. Stato Campanile) – (accoglie).

1. Atto amministrativo – Diritto di accesso – Istanza di accesso – Riferimento all’art. 19 r.d. 17 agosto 1907, n. 642 e all’art. 21 legge 6 dicembre 1971, n, 1034 – Inammissibilità dell’istanza e del successivo ricorso giurisdizionale – Esclusione – Prevalenza del contenuto sulla forma – Necessità – Principio di conservazione degli atti giuridici (artt. 1367 e 1424 cod. civ.)

2. Atto amministrativo – Diritto di accesso – Documentazione relativa a gestione di scuole materne private e relativi contributi statali – Scuole materne private già gestite da associazione di volontariato disciolta – Istante già investito della qualità di vicepresidente dell’associazione – Legittimazione – Sussiste

3. Atto amministrativo – Diritto di accesso – Documentazione relativa a gestione di scuole materne private e relativi contributi statali – Genitore separato legalmente e non affidatario onerato del mantenimento di figlio che ha assunto la qualità di gestore di scuole materne private – Legittimazione – Sussiste

4. Atto amministrativo – Diritto di accesso - Documentazione relativa a gestione di scuole materne private e relativi contributi statali – Genitore separato legalmente onerato del mantenimento di figlio che ha assunto la qualità di gestore di scuole materne private - Pendenza giudizio civile sulla misura del mantenimento – Poteri istruttori del giudice civile – Irrilevanza ai fini dell’esercizio del diritto di accesso

5. Atto amministrativo – Diritto di accesso - Documentazione relativa a gestione di scuole materne private e relativi contributi statali – Genitore separato legalmente onerato del mantenimento di figlio che ha assunto la qualità di gestore di scuole materne private – Tutela della privacy del figlio – Bilanciamento con il diritto di accesso – Necessità – Prevalenza del diritto di accesso.

1. La formulazione di una istanza di accesso a documenti amministrativi secondo la desueta procedura di cui all’art. 19 del r.d. 17 agosto 1907, n. 642, intesa a far constare il rifiuto dell’amministrazione al rilascio del provvedimento impugnato al fine di non incorrere nella decadenza per il suo mancato deposito, non integra una ragione di inammissibilità né della istanza di accesso né del successivo ricorso giurisdizionale contro le determinazioni in materia di accesso, poiché in ossequio al principio generale di conservazione degli atti giuridici (come desumibile tra l’altro dagli artt. 1367 e 1424 del codice civile) occorre assegnare prevalenza al contenuto sostanziale dell’istanza, indubitabilmente rivolta all’esercizio del diritto di accesso (1).

2. La qualità di vicepresidente di un’associazione di volontariato, ancorché disciolta, che provvedeva alla gestione di scuole materne private, costituisce titolo di legittimazione all’esercizio del diritto di accesso alla documentazione relativa alla gestione delle suddette scuole ed alla liquidazione in favore delle stesse di contributi statali, al fine precipuo di consentire il controllo sull’osservanza delle disposizioni statutarie della disciolta associazione relative alla devoluzione del patrimonio (nella specie alla Provincia di Foggia dei Frati minori cappuccini) e così di curare un interesse personale e giuridicamente rilevante dell’istante connesso agli adempimenti liquidatori successivi allo scioglimento dell’associazione (2).

3. Il genitore separato legalmente che sia onerato del mantenimento di un figlio che abbia assunto la qualità di gestore di scuole private è legittimato ad esercitare il diritto di accesso alla documentazione relativa alla gestione delle scuole ed alla liquidazione in favore delle stesse di contributi statali, in funzione della cura e tutela nella sede giudiziaria civile dell’esatta delimitazione dell’obbligo di mantenimento, sia quanto all’an sia in relazione al quantum, in relazione alla sussistenza e consistenza delle disponibilità reddituali del figlio (3).

4. La pendenza di un giudizio civile in ordine alla spettanza e alla misura dell’assegno di mantenimento di un figlio che rivesta la qualità di gestore di scuole materne private e la possibilità di esercizio, in quella sede processuale, di poteri istruttori intesi all’acquisizione di documenti amministrativi, non esclude né limita l’esercizio del diritto di accesso alla documentazione amministrativa da parte di genitore separato legalmente onerato del mantenimento, ancorché questi rivesta la qualità di parte di quel giudizio (4).

5. Tra il diritto di accesso del genitore, legalmente separato e onerato del mantenimento del figlio, alla documentazione amministrativa comprovante la sussistenza e consistenza di disponibilità reddituali in capo al figlio e il diritto alla privacy di quest’ultimo occorre operare un bilanciamento che, tenuto conto dell’inerenza dell’accesso alla cura e tutela di interessi personali e giuridicamente rilevanti, può fondare l’affermazione della prevalenza del diritto di accesso (5).

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(1-2) Non constano precedenti specifici in termini.

(3) Sulla rilevanza delle disponibilità reddituali del figlio ai fini della spettanza e della misura dell’assegno di mantenimento cfr. Cass. Civ. Sez. I, 7 maggio 1998 n. 4616; 30 agosto 1999, n. 9109; 3 aprile 2002, n. 4765.

(4) Giurisprudenza pacifica. Tra le tante, vedi, Cons. Stato, 7 marzo 1994 n. 216 e 24 febbraio 1994, n. 177 e T.A.R. Puglia, Bari, Sez. 1, 22 ottobre 1994, n. 1143, citate nel testo della sentenza.

5) Sul bilanciamento tra diritto di accesso e diritto alla privacy vedi da ultimo Cons. Stato, Sez. V, 3 luglio 2003, n. 4002, in questa rivista n. 7/8-2003.

Diritto di accesso, tutela della privacy, poteri istruttori del giudice civile:

alcune importanti puntualizzazioni

di LEONARDO SPAGNOLETTI

 

 

La sentenza che si annota merita particolare segnalazione e considerazione perché contiene importanti puntualizzazioni sul rapporto tra diritto di accesso e tutela della privacy e tra il rimedio giurisdizionale ex art. 25 della legge n. 241 del 1990 e i poteri istruttori (officiosi o ad impulso di parte) in altri giudizi (civili o amministrativi) nel contesto di una fattispecie assai singolare, nella quale evidenti esigenze di tutela della riservatezza impongono di tacere i nomi dei protagonisti, classicamente sostituiti con i patronimici della scolastica giuridica (del pari nel testo della sentenza sono riportate le sole iniziali degli interessati e la denominazione dell’associazione non riconosciuta e delle scuole private è sostituita con lettere dell’alfabeto).

Il ricorrente Tizio, che quale avvocato stava in giudizio di persona, ha rivestito la qualità di vicepresidente di un’associazione di volontariato che gestiva tre scuole materne private e che è stata sciolta, per la volontà prevalente degli altri soci, tra i quali il coniuge Caia, già investito della presidenza dell’associazione, col quale pende giudizio civile di separazione personale.

La gestione delle tre scuole private, due delle quali hanno cambiato denominazione, è stata assunta dalla figlia maggiorenne del ricorrente Mevia, convivente col coniuge Caia.

Tizio ha dunque notificato, in forma giudiziale, un’interpellanza ai sensi dell’art. 19 del r.d. n. 642 del 1907 (e richiamando anche l’art. 21 della legge n. 1034 del 1971) intesa ad ottenere il rilascio di copia degli atti relativi al cambio di denominazione di due delle tre scuole, all’eventuale concessione di contributi statali, regionali e comunali in favore delle istituzioni scolastiche e ai conseguenti mandati di pagamento in favore del gestore Mevia.

In un primo tempo il primo dirigente del Centro Servizi Amministrativi (già Provveditorato agli Studi) della provincia di Foggia ha parzialmente corrisposto all’istanza di accesso, con dichiarazione raccolta dall’ufficiale giudiziario che procedeva alla notifica dell’interpellanza, fornendo notizie sulla nuova denominazione di due delle tre scuole, e rinviando per i relativi atti autorizzativi al circolo didattico nella cui circoscrizione esse operavano, e rilasciando documentazione relativa ai contributi statali (i soli sui quali il funzionario fosse in grado di riferire) erogati in favore dell’altra scuola nel periodo gennaio/agosto 2002.

Con ulteriore interpellanza il ricorrente ha reiterato l’istanza di accesso agli atti relativi ai contributi statali erogati in favore delle scuole di nuova denominazione, alla quale però lo stesso dirigente statale ha questa volta opposto diniego fondato sull’insufficienza di elementi atti a qualificare la legittimazione del ricorrente e diffidando Tizio dall’utilizzate i documenti già rilasciati ; dalla narrativa della sentenza si evince che il « revirement » in ordine all’accessibilità degli atti si ricollega a diffide provenienti da Caia e Mevia.

A sostegno del ricorso, ed in relazione alla contestata legittimazione, Tizio ha allegato la titolarità di due distinti interessi personali e giuridicamente rilevanti : la qualità di vicepresidente di disciolta associazione di volontariato le cui norme statutarie imponevano per il caso di scioglimento la devoluzione di beni, fondi e ogni sostanza relativa al mantenimento dell’associazione in favore della Provincia di Foggia dei Frati Minori Cappuccini (l’associazione era intestata al Santo di Pietrelcina e le stesse scuole private avevano denominazione che richiamava lo stesso Santo, il Santo fondatore dell’ordine francescano e una tradizionale figura dell’iconografia cristiana) ; la qualità di genitore non convivente onerato del mantenimento della figlia Mevia, e come tale portatore di interesse conoscitivo qualificato in ordine alla sua condizione reddituale connessa all’assunta qualità di gestore delle tre scuole materne private.

L’Amministrazione scolastica, in replica, richiamate le diffide formulate da Caia e Mevia in ordine al rilascio della chiesta documentazione, ha evidenziato come l’istanza di accesso fosse stata proposta nella forma dell’interpello ex artt. 19 del r.d. 642 del 1907 e 21 della legge n. 1034 del 1971 (pur senza dedurne esplicitamente l’inammissibilità) e sostenuto la carenza in capo a Tizio di un interesse conoscitivo qualificato, oltre a sottolineare che almeno parte della documentazione richiesta non fosse detenuta dal C.S.A.

Il Tribunale pugliese si è, anzitutto, prospettato il problema dell’ammissibilità dell’istanza di accesso (e quindi della procedibilità del ricorso ex art. 25 della legge n. 241 del 1990) in riferimento alla forma impressagli da Tizio, che ha utilizzato la ormai desueta interpellanza di cui all’art. 19 del r.d. n. 642 del 1907, necessaria, prima delle novità processuali introdotte dall’art. 21 della legge n. 1034 del 1971 (nella sua originaria formulazione), ai fini di far constare il rifiuto del rilascio della copia del provvedimento impugnato, adempimento al quale era subordinata la possibilità di evitare la decadenza connessa al mancato deposito dell’atto impugnato.

Sotto tale profilo la sentenza osserva come « …la circostanza, evidenziata nelle difese dell’Amministrazione, che nelle sue interpellanze di accesso il Ciccorelli non abbia citato la legge 241/90 ma fatto riferimento alla procedura (desueta) di cui all’art. 19 del regolamento di procedura dinanzi al Consiglio di Stato oltre che all’art. 21 legge TAR, non determina inammissibilità delle istanze né del successivo ricorso (perché l’interessato) ha chiesto copia di atti e documenti in possesso –quanto meno in parte, e di ciò di dirà in prosieguo- del C.S.A. di Foggia e quindi ha sostanzialmente esercitato il suo diritto di accesso; il fatto che l’istante abbia fatto riferimento all’art. 19 r.d. n. 642/1907 ed all’art. 21 legge TAR piuttosto che all’art. 25 legge 241/90 non può negativamente cadere a detrimento della richiesta azionata, se non altro in applicazione del il principio della conservazione degli atti giuridici (vedi artt. 1367 e 1424 c.c) inteso alla tutela di situazioni giuridiche soggettive protette ed a dare prevalenza all’aspetto sostanziale su quello formale".

Il principio di conservazione è dunque desunto dalla disciplina generale dei contratti, ed in specie dal principio, attinente alle regole di interpretazione del contratto, secondo il quale nei casi dubbi il contratto e le sue clausole devono intendersi "…nel senso in cui possano avere qualche effetto, anziché il quello secondo cui non ne avrebbero alcuno" (art. 1367 cod.civ.), nonché dal principio di conversione del contratto che, ove nullo "…può produrre gli effetti di un contratto diverso del quale contenga i requisiti di sostanza e forma, qualora, avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, debba ritenersi che esse lo avrebbero voluto se avessero conosciuto la nullità".

A prescindere da ogni questione in ordine all’applicabilità di tali principi ad atti unilaterali privi di contenuto negoziale in senso stretto, il Tribunale pugliese lodevolmente pone l’accento sull’esigenza, nell’assenza di una disciplina "formale" dell’istanza di accesso, di assegnare valenza al contenuto ed ai fini dell’atto col quale viene esercitato il diritto di accesso, nel senso che qualora siano specificati l’oggetto dell’accesso (ovvero indicati con sufficiente determinatezza i documenti amministrativi richiesti in copia) e sia manifestato un interesse conoscitivo specifico, ogni altra questione in ordine all’ammissibilità dell’accesso deve ritenersi "concentrata" sull’enucleazione di un interesse qualificato, personale, diretto, giuridicamente rilevante e non emulativo, o, se si preferisce sulla ricostruzione di una "legittimazione" all’accesso, che ne costituisce il rovescio anche a fini processuali.

In stretta linea di continuità e consequenzialità logico-giuridica, il Tribunale procede quindi all’esame dell’esistenza di un interesse conoscitivo qualificato, e quindi della legittimazione all’accesso di Tizio, che ricostruisce in funzione di una duplicità di situazioni giuridiche, afferenti, rispettivamente :

a) all’interesse alla verifica dell’esatta liquidazione dei beni dell’associazione non riconosciuta, destinati per previsione statutaria alla devoluzione in favore della Provincia di Foggia dei Frati minori cappuccini, correlato alla già rivestita qualità di vicepresidente (e comunque socio) della disciolta associazione ;

b) all’interesse alla conoscenza delle condizioni reddituali della figlia Mevia, del mantenimento della quale Tizio è onerato quale genitore non convivente, anche in funzione, per quanto è dato di comprendere, di un mutamento delle condizioni stabilite al momento della separazione legale dal coniuge Caia, nel quale la figlia Mevia non aveva ancora assunto la qualità di gestore delle tre scuole materne private.

In effetti, pur apparendo condivisibile il riconoscimento della « doppia legittimazione », in relazione all’oggetto dell’istanza di accesso (autorizzazioni all’esercizio delle scuole private, verifica documentale della qualità di gestore in capo a Mevia, misura di contributi pubblici eventualmente erogati in favore delle istituzioni scolastiche), sembra di poter cogliere una più marcata accentuazione dell’interesse conoscitivo connesso alle vicende patrimoniali del giudizio di separazione, ed in specie alla disponibilità in capo a Mevia, nella sua nuova qualità, di disponibilità reddituali idonee ad escludere o ridurre l’obbligo di mantenimento gravante su Tizio.

La sentenza, infatti, si sofferma in modo particolare su tale profilo di legittimazione, osservando come « anche in caso di separazione personale tra coniugi, l’obbligo dei genitori di concorrere tra loro, secondo le regole di cui all’art. 148 c.c., al mantenimento dei figli, non cessa automaticamente col raggiungimento da parte di questi della maggiore età, ma perdura immutato finchè il genitore interessato alla declaratoria della cessazione dell’obbligo stesso non dia la prova che il figlio ha raggiunto la indipendenza economica ovvero che il mancato svolgimento di una attività economica dipende da un suo atteggiamento di inerzia (ex multis Cass. Civ. Sez. I, 7 maggio 1998 n. 4616; 30 agosto 1999, n. 9109; 3 aprile 2002, n. 4765)…"; e rilevando che "L’interessato, che comunque nelle sue istanze aveva fatto riferimento al giudizio pendente presso il Tribunale di Foggia, esplicita il suo diritto a conoscere la situazione reddituale della figlia, ormai imprenditrice siccome gestrice di tre scuole materne private"; per concludere che "…la pretesa a conoscere gli atti amministrativi finalizzati alla concessione del contributo statale delle scuole materne private ed i mandati di pagamento disposti a favore della nuova gestrice appare fondata a questo Collegio", anche in tale prospettiva.

 

Escluso, del tutto correttamente e secondo giurisprudenza ormai pacifica, che ai fini del riconoscimento del diritto di accesso assuma rilievo la natura giuridica della posizione giuridica soggettiva alla cui cura (e tutela) è orientato l’accesso (se di interesse legittimo o di diritto soggettivo), come del pari la rilevanza della pendenza di altro giudizio rivolto alla tutela della posizione soggettiva "sottesa" al diritto all’accesso e della possibilità di acquisire in via istruttoria in quel giudizio la documentazione amministrativa richiesta; la sentenza si sofferma in particolare sulla posizione giuridica sottostante, individuata come proiezione del diritto di difesa giurisdizionale in relazione al c.d. diritto alla prova inteso quale diritto di "difendersi provando" ; ed osserva come « Il diritto alla prova implica anche il diritto all’assunzione del mezzo di prova non risultando sensato configurare il diritto ad ottenere l’ammissione di un mezzo di prova (in sede processuale), ma non il diritto di ottenerne l’acquisizione (in sede amministrativa)".

 

Il passo può risultare criptico, ma esso può essere inteso come evidenziazione paradossale che non può negarsi, sul terreno sostanziale del diritto di accesso agli atti amministrativi, quanto è assicurato dall’ordinamento sul terreno processuale dell’acquisizione di mezzi di prova, ove costituiti da documenti amministrativi, posto che l’istituito parallelismo non è ovviamente sostenibile in senso assoluto poiché il contenuto del diritto di accesso è nell’esercizio di un interesse conoscitivo personale e qualificato che prescinde per definizione dalla sussistenza e fondatezza di altra posizione giuridica soggettiva al soddisfacimento della quale possa essere orientato, in via di fatto, l’esercizio del diritto di accesso.

 

Altrettanto interessante è la puntualizzazione dei rapporti tra diritto di accesso e tutela della privacy, con la sottolineatura che nel bilanciamento tra i relativi interessi occorre individuare quello prevalente.

 

Sotto tale angolo visuale, il richiamo all’art. 16 comma 1 lettera c) del d.P.R. 11 maggio 1999, n. 135, che in effetti dichiara di rilevante interesse pubblico il trattamento, tra gli altri, dei dati "effettuati in conformità alle leggi e ai regolamenti per l'applicazione della disciplina sull'accesso ai documenti amministrativi" può essere inteso nel solo senso che la disposizione conferma e rafforza la possibile prevalenza del diritto di accesso sulla tutela della privacy.

 

Viene infatti in rilievo l’art. 20 della legge 31 dicembre 1996, n. 675, che consente la comunicazione e diffusione di dati personali da parte di privati e di enti pubblici, oltre che col consenso espresso dell’interessato, in una serie di ipotesi tra le quali quelle della lettera c) riguardano il caso in cui comunicazione e diffusione costituiscano "adempimento di un obbligo previsto dalla legge, da un regolamento o dalla normativa comunitaria", e quindi anche degli obblighi di ostensione connessi all’esercizio del diritto di accesso dagli artt. 22 ss. della legge n. 241 del 1990, esulando di certo nel caso di specie il limite riveniente da particolari categorie di dati (i dati "sensibili", e cioè "idonei a rivelare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale": art. 22 della legge n. 675 del 1996), che subordina il trattamento di tali dati, e quindi anche la loro comunicazione e diffusione, al consenso dell’interessato e all’autorizzazione del Garante.

 

Altra questione è quella dell’inerenza dei dati richiesti nel caso di specie alla sfera della riservatezza della figlia Mevia (art. 24 comma 1 lettera d) della legge n. 241 del 1990, nella specificazione fornita dall’art. 8 comma 5 lettera d) del d.P.R. 27 giugno 1992, n. 352, ancorché il contenuto del dato (situazione reddituale della figlia) solo mediatamente rientri nell’enumerazione ivi contenuta, con riferimento all’interesse professionale o a quello commerciale, e che potrebbe giustificare una limitazione dell’accesso alla sola forma della visione, con esclusione dell’estrazione di copia.

 

Peraltro, nella determinazione negativa relativa all’istanza di accesso non è stato esplicitato un limite di tal genere, onde è comprensibile che la sentenza non se ne sia dato carico, tenuto conto che il limite non risulta opposto dalla dalla stessa interessata, che non risulta costituita quale controinteressata, a quanto è dato di conoscere ritualmente intimata (dalla sentenza nulla si evince al riguardo, ma trattasi di mero refuso).

 

Nel complesso, dunque, la pregevole sentenza del Tribunale pugliese si segnala per la riaffermazione di importanti principi in materia di accesso, contestualizzati ad una fattispecie affatto peculiare e di grande interesse.

 


 

(omissis)

per l'annullamento

del provvedimento del C.S.A. del 10.5.2003 di diniego di accesso ad atti amministrativi, in calce alla richiesta del 10.5.2003; e in conseguenza per sentir ordinare al CSA in persona del legale rappresentante la esibizione degli atti richiesti;

(omissis)

FATTO

L’attuale ricorrente, quale Vice Presidente dell’associazione di volontariato "X" che ha gestito nella persona del Presidente sig.ra M. A. scuole materne private in Foggia denominate "A", "B" e "C", avendo appreso che le suddette scuole risultavano ora intestate alla sig.ra C. G. P., estranea a detta associazione, significando di avere diritto personale e patrimoniale all’acquisizione e di atti che riconoscevano il cambio di intestazione delle suddette scuole e di atti che riconoscevano alla Ciccorelli contributi di qualsiasi genere ed a qualsiasi titolo essendo pendente dinanzi al Tribunale di Foggia causa recante R.G. 3391/01, con atto di interpellanza datato 5 maggio 2003 per il tramite di Ufficiale giudiziario, chiedeva vuoi alla Direzione Didattica "De Amicis", vuoi all’ ex Provveditorato agli Studi (ora CSA), copia autentica di : a) atti che dimostrassero il cambio di intestazione delle scuole materne private dianzi indicate; b) atti in base ai quali venivano concesse alle suddette scuole contributi statali, regionali e comunali; c) mandati di pagamento effettuati in favore della C. quale intestataria delle scuole. In sede di accesso presso il (ex) Provveditorato, il primo dirigente del C.S.A. –giusto verbale del 8.5.03- dichiarava all’Ufficiale giudiziario che al momento non funzionavano più le scuole private "A" e "B". Quanto alla prima, la stessa in funzione per l’a.s. 2000/2001, successivamente aveva assunto diversa denominazione e cioè "A1"; all’uopo allegava comunicazione della direzione didattica, significando che l’eventuale atto pubblico per il cambio di gestione non era agli atti dell’Ufficio e possibilmente poteva essere agli atti del II Circolo De Amicis.

Ugualmente veniva riferito per la scuola "B", ora "B1".

Per la scuola "C" che risultava di nuova istituzione per l’a.s. 2001/2002, allegava altra comunicazione.

In ordine ai contributi, rappresentando di potere riferire solo per quelli statali, non essendo quelli regionali o comunali, gestiti dal C.S.A., dichiarava di non poter riferire in ordine ai contributi riguardanti le scuole "A"e "B" perché scuole non funzionanti con gestione C. G.

Rilasciava quindi documentazione riguardante la scuola "C", cioè il contributo ministeriale periodo gennaio/agosto 2002, risultando quelli per il periodo successivo ancora in corso di definizione.

Con successivo interpello del 9 maggio 2003 l’attuale ricorrente reiterava la richiesta sottolineando la nuova denominazione di due delle tre scuole e questa volta il Dirigente del C.S.A. (vedi verbale del 9.5.2003) eccepiva difetto di legittimazione in capo al C. siccome vice Presidente di una associazione non più esistente, aggiungendo pure che non era specificata la natura della causa pendente presso il Tribunale di Foggia.

Annotava altresì il Dirigente che "la richiesta potrà essere riconsiderata qualora siano addotti elementi probatori di una legittimazione a richiedere atti amministrativi che riguardino persone diverse dall’istante medesimo" e nel contempo diffidava il C. ad utilizzare i documenti già rilasciatigli, riservandosi di proporre azione penale ed altri interventi presso l’Ordine degli Avvocati per la tutela della posizione giuridica personale e dell’Ufficio che rappresentava.

E’ seguito quindi il presente ricorso ex art. 25 legge 241/90 notificato il 19.5.2003 e depositato il successivo 31 maggio. L’interessato, ricostruita la vicenda che aveva dato luogo all’interpello del 9.5.2003 e documentando il precedente del 5.5. 2003, chiede l’annullamento del diniego opposto dal Dirigente del CSA e l’esibizione degli atti. Rappresenta il particolare il suo diritto all’accesso e quale vice presidente dell’associazione di volontariato (presidente la sig.ra M., moglie in via di separazione) che aveva ceduto la proprietà di esse scuole ad altri estranee alla associazione (e cioè alla C. G.P. figlia maggiorenne) e quale genitore onerato del mantenimento di essa C. G. convivente con la madre, nella causa di separazione personale dei coniugi C.. Sotto questo secondo profilo insiste sul suo diritto a conoscere la situazione patrimoniale della figlia maggiorenne, intestataria di scuole materne private, per eventualmente proporre istanze dinanzi al giudice per la modifica dei provvedimenti che lo avevano onerato del mantenimento di essa figlia maggiorenne.

Si è costituita l’amministrazione opponendosi all’avverso gravame. Ha rappresentato che tra il primo e secondo interpello erano pervenute all’Ufficio formali diffide delle sigg.re M. A. e C. G. a fornire al C. C. qualsiasi tipo di informazione inerenti le scuole materne in questione e ciò perché l’associazione di volontariato, di cui l’istante si dichiarava vice presidente, era stata sciolta nel 2001. Ha sottolineato la difesa erariale che la richiesta di accesso era stata avanzata ai sensi dell’art. 19 r.d. 642/1907 e dell’art. 21 legge 1034/71 senza alcun riferimento alla legge 241/90 e comunque la carenza di interesse qualificato all’accesso vuoi per quanto rappresentato nelle diffide di parte contro interessata vuoi perché esso interesse qualificato non poteva ritenersi evidenziato nel richiamo assolutamente criptico alla pendenza di causa dinanzi al Tribunale di Foggia. Ha rappresentato poi la difesa erariale che parte dei documenti chiesti non erano mai stati in possesso di esso CSA e che comunque il Dirigente aveva evidenziato la possibilità di riconsiderare la richiesta qualora addotti elementi probatori di una legittimazione a richiedere atti amministrativi che riguardino persone diverse dall’istante.

Parte ricorrente a sua volta ha insistito nelle sue prospettazioni con memoria del 25 giugno 2003.

DIRITTO

Il ricorso è fondato nei termini che seguono.

Preliminarmente la circostanza, evidenziata nelle difese dell’Amministrazione, che nelle sue interpellanze di accesso il C. non abbia citato la legge 241/90 ma fatto riferimento alla procedura (desueta) di cui all’art. 19 del regolamento di procedura dinanzi al Consiglio di Stato oltre che all’art. 21 legge TAR, non determina inammissibilità delle istanze né del successivo ricorso (per il vero detta inammissibilità non è stata neppure espressamente chiesta da parte resistente). L’attuale ricorrente nelle sue interpellanze per il tramite di Ufficiale Giudiziario ha chiesto copia di atti e documenti in possesso –quanto meno in parte, e di ciò di dirà in prosieguo- del C.S.A. di Foggia e quindi ha sostanzialmente esercitato il suo diritto di accesso; il fatto che l’istante abbia fatto riferimento all’art. 19 r.d. n. 642/1907 ed all’art. 21 legge TAR piuttosto che all’art. 25 legge 241/90 non può negativamente cadere a detrimento della richiesta azionata, se non altro in applicazione del il principio della conservazione degli atti giuridici (vedi artt. 1367 e 1424 c.c) inteso alla tutela di situazioni giuridiche soggettive protette ed a dare prevalenza all’’aspetto sostanziale su quello formale.

Passando al merito, il punto di causa è la legittimazione del C., vice presidente di associazione di volontariato che in Foggia gestiva tre scuole materne private (presidente dell’associazione era sua moglie sig.ra M. A. in via di separazione giudiziale dal marito –procedimento n. 3991/01 pendente presso il G.I. del Tribunale di Foggia, dopo Ordinanza Presidenziale) nonché padre separato onerato al mantenimento della figlia maggiorenne C. G.P., ad avere accesso agli atti riguardanti il cambio di gestione di esse tre scuole materne, delle quali due avevano cambiato denominazione, nonché agli atti finalizzati alla concessione di contributo statale alle scuole materne ed ai mandati di pagamento disposti a favore della nuova gestrice, che risultava essere la già nominata C. G.P.

Detta legittimazione è stata e viene contestata dalla amministrazione sotto entrambi i profili; quanto al primo perché l’associazione doveva intendersi giuridicamente sciolta per il venir meno di tre soci su quattro e, quanto al secondo, perché si faceva semplice riferimento ad una causa pendente presso il Tribunale di Foggia e comunque, vedi relazione della amministrazione depositata in data 11.6.03, perché gli atti qualora pertinenti alla causa di separazione personale tra i coniugi potevano essere acquisiti previa autorizzazione del Giudice.

La rappresentata tesi difensiva va reietta.

Ritiene di premettere il Collegio che l’accesso come disciplinato dalla legge 241/90 è un vero e proprio diritto soggettivo da ricondursi ad una prospettiva più ampia di quella inerente alla mera conoscibilità degli atti e documenti amministrativi, con l’accentuazione della sua coerenza ad un modello nuovo di organizzazione amministrativa ispirata al principio di pubblicità in contrapposizione al previgente sistema di segretezza (o riservatezza) dell’attività amministrativa. Giusta poi la formula adoperata nell’art. 22 delle legge n. 241 che riconosce "a chiunque vi abbia interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti" il diritto di accesso ai documenti amministrativi, non si pone alcuna riserva in favore delle sole posizioni di interesse legittimo; la formula dianzi riportata porta invero ad includervi, ai fini della legittimazione, le situazioni nelle quali la rilevanza giuridica sia piena e diretta, quali le situazioni di diritto soggettivo di cui sia titolare, o pretenda di essere titolare, il richiedente. Va quindi confermata la linea interpretativa secondo cui l’esercizio dell’accesso ben può essere prodromico alla tutela di posizioni di diritto soggettivo purchè la richiesta provenga da soggetto che sia titolare di un interesse personale e concreto alla tutela. (cfr. C.d.S. Sez. VI, 13 maggio 2003, n. 2549).

Tornando ora alla contestata legittimazione del C., e sottolineandosi che il Dirigente scolastico si era comunque riservato di riconsiderare la richiesta di accesso qualora fossero addotti elementi probatori per la legittimazione, a parere del Collegio essa legittimazione si rinviene in capo all’interessato nella sua precipua veste di vice presidente dell’associazione di volontariato "X", che gli conferisce una posizione giuridicamente rilevante e degna di tutela a conoscere atti relativi al cambio di gestione delle scuole materne private "A" e "B" già gestite dalla sig.ra M. quale presidente dell’associazione in parola. Non può opporsi l’avvenuto scioglimento della associazione per dimissionamento della maggioranza dei soci (tre su quattro); anzi ciò viene a rafforzare il suo titolo all’accesso. Va infatti osservato che l’art. 25 dello statuto dell’associazione- al centro della cui attività era la istituzione di scuola materna per l’educazione dell’infanzia con specifiche finalità pedagogiche- disponeva che in caso di scioglimento della società , e questo poteva avvenire a richiesta dei tre quarti dei soci, "i beni, i fondi e tutto ciò che è servito al mantenimento dell’associazione, viene trasferito per la piena disponibilità alla Provincia di Foggia dei Frati Minori Cappuccini di Foggia". Orbene alla diffida fatta pervenire al CSA dalla Sig.ra M., di cui si è detto in precedenza, a rilasciare informazioni e documenti riguardanti la di lei persona e inerenti all’Associazione "X" ormai sciolta, veniva allegata nota A.R. del 4 aprile 2002 inviata dalla stessa all’attuale ricorrente, in cui si rappresentavano le proprie dimissioni e da Presidente e da socio e contestuale recesso di altri due soci con contestale invito ad esso C., ormai unico componente dell’associazione, a provvedere con ogni sollecitudine ad ogni adempimento ed atto connesso e/o conseguente ai suddetti recessi. Di qui un ben evidente titolo dell’unico e residuo socio, già vice presidente, formalmente responsabilizzato con la nota di cui innanzi, a conoscere vicende inerenti scuole già gestite dall’associazione in parola per i connessi riflessi economico patrimoniali, dovendosi il tutto devolvere ai Frati Cappuccini in virtù della norma statutaria.

La legittimazione rinviene poi al C. anche sotto l’altro profilo, e cioè quale padre separato ed onerato al mantenimento della figlia maggiorenne C. G.P., nuova gestrice delle scuole materne private.

E’ noto infatti che anche in caso di separazione personale tra coniugi, l’obbligo dei genitori di concorrere tra loro, secondo le regole di cui all’art. 148 c.c., al mantenimento dei figli, non cessa automaticamente col raggiungimento da parte di questi della maggiore età, ma perdura immutato finchè il genitore interessato alla declaratoria della cessazione dell’obbligo stesso non dia la prova che il figlio ha raggiunto la indipendenza economica ovvero che il mancato svolgimento di una attività economica dipende da un suo atteggiamento di inerzia (ex multis Cass. Civ. Sez. I, 7 maggio 1998 n. 4616; 30 agosto 1999, n. 9109; 3 aprile 2002, n. 4765).

L’interessato, che comunque nelle sue istanze aveva fatto riferimento al giudizio pendente presso il Tribunale di Foggia, esplicita il suo diritto a conoscere la situazione reddituale della figlia, ormai imprenditrice siccome gestrice di tre scuole materne private. Orbene la pretesa a conoscere gli atti amministrativi finalizzati alla concessione del contributo statale delle scuole materne private ed i mandati di pagamento disposti a favore della nuova gestrice appare fondata a questo Collegio, che a riguardo ribadisce la ricostruzione del giudizio ex art. 25 legge 241/90 come giudizio di accertamento (e condanna dell’amministrazione ad un facere specifico) più che come giudizio di impugnazione, il tutto in conseguenza, corollario cioè, del riconoscimento della posizione giuridica disciplinata dall’art. 22 legge citata in termini di un vero e proprio diritto soggettivo (cfr. Sent. questo TAR, II Sez., n. 520 del 7 luglio 1997).

A favore della ostensione degli atti e mandati di cui sopra si è detto militano le seguenti considerazioni.

E’ ormai diffuso il riconoscimento dell’esistenza di un diritto alla prova come essenziale manifestazione della garanzia fondamentale all’azione ed alla difesa in giudizio. Il diritto di agire e difendersi provando va considerato condizione necessaria per l’attuazione di tale garanzia. Il diritto alla prova implica anche il diritto all’assunzione del mezzo di prova non risultando sensato configurare il diritto ad ottenere l’ammissione di un mezzo di prova (in sede processuale), ma non il diritto di ottenerne l’acquisizione (in sede amministrativa). E’ pur vero che al diritto all’ostensione può contrapporsi se non altro da un punto di vista teorico il diritto alla privacy del figlio maggiorenne in riferimento alla sua situazione reddituale, ma nel bilanciamento delle confliggenti posizioni, pare al Collegio che vada data prevalenza a quella del genitore che, provando una sufficiente situazione reddituale del figlio, può vedersi dichiarata l’insussistenza del suo obbligo al mantenimento.

Osserva sul punto il Collegio che per effetto della dichiarazione di rilevante interesse pubblico contenuta nell’art. 16 comma 1 lett. c) d.lgs. n. 135/99 (disposizioni integrative della legge 31 dicembre 1996 n. 675, sul trattamento di dati sensibili da parte di soggetti pubblici), i rapporti tra accesso e privacy anche quando sono coinvolti dati c.d. sensibili, riprendono ad essere sottoposti all’assetto normativo tracciato nella legge 241 volta alla massimizzazione della circolazione informativa (cfr. C.d.S. Sez. VI, 30 marzo 2001, n. 1882), con la conseguenza della prevalenza del principio della pubblicità rispetto a quello della riservatezza e sempre che la posizione del richiedente sia sorretta dalla necessità di difendere i propri "interessi".

Per completezza il Collegio deve farsi carico di una osservazione contenuta nella relazione della amministrazione e cioè che, a tutto concedere, copia dei mandati e sovvenzioni statali conferiti alla nuova gestrice (cioè alla figlia del C.), stante la causa di separazione, potevano essere acquisiti previa autorizzazione del Giudice (della separazione).

A riguardo e richiamandosi quanto in precedenza detto in ordine al diritto all’assunzione del mezzo di prova propedeutico al diritto all’ammissione della prova e sottolineata l’autonomia del diritto di accesso come conformato dal legislatore rispetto al processo la cui pendenza non è ostativa al suo esercizio che non può essere surrogato dalla richiesta di incombenti istruttori perché questi sono nella disponibilità del difensore che decide di attivarli ed in quella del giudice che decide di ammetterli (sull’autonomia del diritto di accesso rispetto al processo vedi C.d.S. sez. IV, 7 marzo 1994 n. 216), considera il Collegio irrilevante il fatto che la situazione giuridica sostanziale sia devoluta alla cognizione di un giudice diverso da quello amministrativo. Sul punto si è già pronunciata la giurisprudenza del C.d.S. (Sez. IV, 24 febbraio 1996, n. 177) che ha a riguardo sottolineato l’autonomia del diritto di accesso ai documenti amministrativi e la sua tutelabilità affidata alla giurisdizione esclusiva del g.a. prevista dall’art. 24 legge 241 e ciò indipendentemente dal fatto che la situazione giuridica sostanziale, cui si riferisce la documentazione richiesta, sia devoluta alla cognizione di altro giudice. Anche la giurisprudenza di questo TAR (vedi Sez. I, 22 ott. 1994 n. 1143) si è espressa nei termini sopra accennati ed in riferimento –in quel caso - ad atti tributari impugnabili poi in altra sede giurisdizionale (quella tributaria). Da tale giurisprudenza questo Collegio non ha motivo di discostarsi. Una diversa prospettazione esegetica si porrebbe in contrasto con la norma costituzionale di cui all’art. 24 Cost. e col diritto all’informazione come libertà costituzionalmente sottesa e strumentale all’esercizio di ogni altra posizione giuridica soggettiva di livello costituzionale e soprattutto, lo si ripete, risulterebbe confliggente con la giurisdizione esclusiva del g.a. in tema di accesso ad atti amministrativi, nel cui novero vanno ascritti quelli ora chiesti.

Acclarata la legittimazione dell’istante e scendendo in concreto alla individuazione della documentazione richiesta dall’interessato di cui ordinarsi l’ostensione, osserva il Collegio che il Dirigente del C.S.A. aveva già dichiarato-vedi verbale del 8.5.2003 dell’Ufficiale giudiziario- non essere l’Ufficio in possesso degli atti del cambio di gestione (per essere gli stessi presumibilmente agli atti del Circolo Didattico De Amicis) e detta circostanza è stata ribadita in sede difensiva nelle memorie dell’Avvocatura dello Stato. Stante la dichiarazione del dirigente della amministrazione scolastica, che fa fede sino a querela di falso, non può quindi ordinarsi l’accesso ad atti di cui il C.S.A. non è in possesso.

Va invece ordinata la ostensione dei mandati di pagamento disposti in favore della C. M.P. quale gestrice delle tre scuole materne private in Foggia (il Dirigente C.S.A. ha rilasciato solo quelli interessanti la scuola "C", salvo poi diffidare l’interessato dal loro utilizzo) in uno con atti amministrativi in possesso della amministrazione resistente in base ai quali vengono concessi contributi statali alle scuole di che trattasi.

Il ricorso quindi va accolto, previo annullamento del diniego opposto ed impugnato come da epigrafe, nei termini di cui innanzi, acclarandosi il titolo del C. di accedere per esaminarli ed estrarne copia ai documenti di cui sopra si è detto.

Quanto alle spese di giudizio si ravvisano ragioni per disporne la compensazione tra le parti in causa.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia - sede di Bari Sez. I, accoglie il ricorso nei termini di cui in parte motiva e per l’effetto, annullando l’opposto diniego, dichiara il diritto del ricorrente di accedere per esaminarli ed estrarne copia ai mandati di pagamento interessanti le tre scuole materne correnti in Foggia ora gestite da C. G.P. in uno con gli atti amministrativi in possesso del C.S.A in base ai quali vengono concessi i contributi statali alle scuole in questione. Ordina al C.S.A. di Foggia, in persona del suo Dirigente, la esibizione della documentazione di cui innanzi per i fini sopra precisati.

Compensa le spese.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dalla Autorità amministrativa.

Così deciso in Bari, nella camera di consiglio del 25 giugno 2003, con l'intervento dei Magistrati

Gennaro Ferrari - Presidente

Vito Mangialardi - Componente Est.

Fabio Mattei - Componente

Depositata in segreteria il 7 luglio 2003.

 

SVOLGIMENTO DI MANSIONI SUPERIORI DA PARTE DEI PUBBLICI DIPENDENTI
CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza 4 luglio 2003 n. 229 (dichiara inammissibili le q.l.c. di varie norme che, secondo l’assunto del remittente, prima del D.L.vo n. 80/1998, non consentivano l’adeguamento del trattamento economico del pubblico dipendente nei casi di adibizione a mansioni superiori).

 

CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza 4 luglio 2003 n. 229 – Pres. CHIEPPA, Red. AMIRANTE – (giudizio promosso con ordinanza del 3 ottobre 2002 dal T.A.R. Veneto sul ricorso proposto da Amato Francesco contro la Corte dei conti, iscritta al n. 536 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell’anno 2002).

Pubblico impiego - Mansioni e funzioni - Mansioni superiori svolte - Divieto di retribuzione che sarebbe sussistito prima dell’art. 25 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 - Questioni di legittimità costituzionale – Sollevate in riferimento all’art. 36 Cost. - Manifesta infondatezza.

Sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale - sollevate in riferimento all’art. 36 della Costituzione – delle seguenti disposizioni:

a) art. 33 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), nella parte in cui sarebbe preclusivo all’adeguamento del trattamento economico del dipendente nei casi di adibizione a mansioni superiori;

b) articolo unico del decreto legislativo 19 luglio 1993 n. 247, nella parte in cui fa decorrere dal 1° ottobre 1993 l’efficacia dell’art. 57, comma 2, del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 (che nella sua originaria formulazione stabiliva che «l’utilizzazione del dipendente in mansioni superiori può essere disposta esclusivamente per un periodo non eccedente i tre mesi, nel caso di vacanze di posti di organico, ovvero per sostituire altro dipendente durante il periodo di assenza con diritto alla conservazione del posto, escluso il periodo del congedo ordinario, sempre che ricorrano esigenze di servizio» aggiungendo, al secondo comma, che «nel caso di assegnazione a mansioni superiori, il dipendente ha diritto al trattamento economico corrispondente all’attività svolta per il periodo di espletamento delle medesime»);

c) art. 25 del d.lgs. 23 dicembre 1993, n. 546, nella parte in cui, novellando l’art. 57 del ripetuto d.lgs. n. 29 del 1993, ne prevede, al comma 6 di questo, la decorrenza (anche quanto al secondo comma) «dalla data di emanazione, in ciascuna amministrazione, dei provvedimenti di ridefinizione degli uffici e delle piante organiche di cui agli articoli 30 e 31 e, comunque, a decorrere dal 30 giugno 1994»;

d) art. 1, comma 5, del d.l. n. 361 del 1995, convertito, con modificazioni, in legge n. 437 del 1995, l’art. 1, del d.l. n. 254 del 1996, convertito, con modificazioni, in legge n. 365 del 1996, l’art. 12, comma 3, del d.l. n. 669 del 1996, convertito, con modificazioni, in legge n. 30 del 1997, nonché l’art. 39, comma 17, della legge n. 449 del 1997, nella parte in cui tali disposizioni hanno successivamente prorogato l’entrata in vigore del ripetuto art. 57, comma 2;

e) art. 56 del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, nel testo introdotto dall’art. 25 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, nella parte in cui, al comma 6, dispone che, sino all’attuazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi e con la decorrenza da questi stabilita, in nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza può comportare il diritto a differenze retributive del lavoratore (1).

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(1) Come risulta dalla motivazione della sentenza in rassegna, la Corte ha dichiarato inammissibili le q.l.c. della sopraindicate norme sotto vari profili.

In particolare è stata dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 33 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, dato che il T.A.R. Veneto remittente si era limitato ad affermare che secondo il diritto vivente, dal quale egli asserisce di non poter prescindere, a pena di una più che probabile riforma in appello della decisione che se ne discostasse, la disposizione applicabile alla controversia è l’art. 33 in quanto reca al di là della sua letterale formulazione, il divieto della retribuibilità delle mansioni superiori svolte dal pubblico dipendente. Il TAR del Veneto, in tal modo, non ha adempiuto l’obbligo che gli incombeva di esprimere con congrua motivazione la propria opinione sul contenuto della norma che intendeva censurare, né ha optato per l’adozione di una interpretazione diversa da quella seguita dall’indirizzo giurisprudenziale ritenuto prevalente.

Inoltre, secondo il Giudice delle leggi, non risulta convincente la attribuzione di "diritto vivente" all’orientamento secondo cui, ai sensi della richiamata norma del T.U. imp. civ. Stato, le mansioni superiori non sarebbero retribuibili.

Tale diritto vivente è stato rinvenuto in alcune recenti pronunce del Consiglio di Stato e, più in particolare, in quattro pronunce dell’Adunanza plenaria (18 novembre 1999 n. 22, in www.giust.it n. 11-1999, 28 gennaio 2000 n. 10, ivi n. 1-2000, 28 gennaio 2000 n. 11 e 23 febbraio 2000 n. 12, ivi n. 2-2000), omettendo di rilevare che soltanto la prima decisione fa espresso riferimento all’art. 33 in questione, mentre le altre si limitano ad affermare – senza alcuno specifico riferimento normativo – che quello della non retribuibilità delle mansioni superiori svolte dal pubblico dipendente è principio consolidato nella giurisprudenza amministrativa.

L’omessa considerazione di tale differenza, secondo la Corte, non è irrilevante qualora si osservi, da un lato, che un diverso orientamento giurisprudenziale, benché minoritario, individuava nell’art. 31, anziché nell’art. 33, del d.P.R. n. 3 del 1957 la disposizione regolatrice dello svolgimento di mansioni superiori nell’ambito della pubblica amministrazione, pervenendo a risultati difformi in ordine alla relativa retribuibilità.

Dall’altro lato, è stato ricordato che la Corte costituzionale, con pronunce emesse successivamente alle richiamate decisioni dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (ordinanza 6 novembre 2001 n. 349, in www.giust.it n. 11-2001 ed ordinanza 10 aprile 2002 n. 100, ivi n. 4-2002), ribadendo il proprio orientamento espresso con atti più risalenti (ordinanze n. 289 e n. 347 del 1996), ha  affermato che dall’art. 33 in questione nulla si poteva argomentare sul caso eccezionale di destinazione del dipendente pubblico a mansioni superiori.

 


 

SENTENZA N. 229

ANNO 2003

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Riccardo CHIEPPA Presidente

- Valerio ONIDA Giudice

- Carlo MEZZANOTTE "

- Fernanda CONTRI "

- Guido NEPPI MODONA "

- Piero Alberto CAPOTOSTI "

- Annibale MARINI "

- Franco BILE "

- Giovanni Maria FLICK "

- Francesco AMIRANTE "

- Ugo DE SIERVO "

- Romano VACCARELLA "

- Paolo MADDALENA "

- Alfio FINOCCHIARO "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 33 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato); dell’art. unico del decreto legislativo 19 luglio 1993 n. 247 (Disposizioni correttive dell’art. 57 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, in materia di attribuzione temporanea di mansioni superiori); dell’art. 25 del decreto legislativo 23 dicembre 1993, n. 546 (Ulteriori modifiche al decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, sul pubblico impiego); dell’art. 1, comma 5, del decreto-legge 28 agosto 1995, n. 361 (Differimento di termini previsti da disposizioni legislative in materia di interventi concernenti la pubblica amministrazione), convertito, con modificazioni, in legge 27 ottobre 1995, n. 437; dell’art. 1 del decreto-legge 10 maggio 1996, n. 254 (Differimento del termine di applicazione stabilito dall’art. 57, comma 6, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 e successive modifiche, in materia di attribuzione temporanea di mansioni superiori), convertito, con modificazioni, in legge 11 luglio 1996, n. 365; dell’art. 12, comma 3, del decreto-legge 31 dicembre 1996, n. 669 (Disposizioni urgenti in materia tributaria, finanziaria e contabile a completamento della manovra di finanza pubblica per l’anno 1997), convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 1997, n. 30; dell’art. 39, comma 17, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica); dell’art. 56 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), nel testo introdotto dall’art. 25 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, promosso con ordinanza del 3 ottobre 2002 dal Tribunale amministrativo per il Veneto sul ricorso proposto da Amato Francesco contro la Corte dei conti, iscritta al n. 536 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell’anno 2002.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2003 il Giudice relatore Francesco Amirante.

Ritenuto in fatto

1.— Nel corso di un giudizio in cui un dipendente della Corte dei conti, inquadrato nella quinta qualifica funzionale, aveva richiesto differenze retributive per il periodo dal 1° settembre 1985 al 24 luglio 1998, connesse allo svolgimento delle mansioni proprie della sesta qualifica, ricorrendo avverso il provvedimento di diniego, il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, con ordinanza del 3 ottobre 2002, ha sollevato, in riferimento all’art. 36 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 33 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato); dell’art. unico del decreto legislativo 19 luglio 1993, n. 247 (Disposizioni correttive dell’art. 57 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, in materia di attribuzione temporanea di mansioni superiori); dell’art. 25 del decreto legislativo 23 dicembre 1993, n. 546 (Ulteriori modifiche al d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, sul pubblico impiego); dell’art. 1, comma 5, del decreto-legge 28 agosto 1995, n. 361 (Differimento di termini previsti da disposizioni legislative in materia di interventi concernenti la pubblica amministrazione), convertito, con modificazioni, in legge 27 ottobre 1995, n. 437; dell’art. 1 del decreto-legge 10 maggio 1996, n. 254 (Differimento del termine di applicazione stabilito dall’art. 57, comma 6, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 e successive modifiche, in materia di attribuzione temporanea di mansioni superiori), convertito, con modificazioni, in legge 11 luglio 1996, n. 365; dell’art. 12, comma 3, del decreto-legge 31 dicembre 1996, n. 669 (Disposizioni urgenti in materia tributaria, finanziaria e contabile a completamento della manovra di finanza pubblica per l’anno 1997), convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 1997, n. 30; dell’art. 39, comma 17, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica); dell’art. 56 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), nel testo introdotto dall’art. 25 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80.

Il giudice a quo osserva che la domanda, sia pure entro limiti meno ampi rispetto al petitum, potrebbe trovare accoglimento sulla base della giurisprudenza della Corte costituzionale che non interpreta l’art. 33 del t.u. del 1957 sul pubblico impiego come preclusivo all’adeguamento del trattamento economico del dipendente nei casi di adibizione a mansioni superiori (in quanto la relativa retribuzione costituisce – secondo la Corte – una regola generale con limitate eccezioni connesse all’organizzazione degli uffici) mentre tale preclusione è affermata dal diritto vivente.

La costante giurisprudenza del giudice di secondo grado in senso contrario alla lettura adeguatrice offerta dalla Corte costituzionale comporterebbe la conseguenza che «deviarne può soltanto condurre ad un gravame il cui esito appare scontato». Pertanto il TAR ritiene necessaria una declaratoria d’illegittimità costituzionale (fondata sulle considerazioni relative all’immediata operatività dell’art. 36 Cost., ripetutamente affermata dalla Corte in subiecta materia) della normativa concernente la (non) retribuibilità delle mansioni superiori, a partire dal citato art. 33 del t.u. n. 3 del 1957 ed a seguire, con riferimento a tutti i provvedimenti che, pur riconoscendo astrattamente tale possibilità, ne hanno di fatto differito nel tempo l’applicazione fino a demandarne l’effettiva operatività alla nuova disciplina degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi. Il giudice a quo ripercorre l’evolversi della legislazione sul punto attraverso un articolato excursus ed individua quindi le molteplici disposizioni applicabili ratione temporis al giudizio a quo.

Il TAR ricorda inoltre la vicenda giurisprudenziale relativa all’art. 29 del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, sullo stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali (il cui secondo comma era stato inizialmente inteso dal giudice amministrativo come preclusivo del diritto del lavoratore al compenso differenziale per le mansioni superiori svolte), culminata nella sentenza n. 101 del 1995 di questa Corte.

Un’analoga lettura adeguatrice, prosegue il remittente, è stata effettuata in più occasioni dalla Corte con riguardo al citato art. 33, ma il Consiglio di Stato, con orientamento consolidato – ed espresso anche in Adunanza plenaria – ha continuato ad affermare, in mancanza di una norma espressa (quale è invece ravvisabile nel richiamato art. 29 per il personale sanitario), la necessaria corrispondenza tra trattamento economico e qualifica formalmente rivestita, con la conseguente irrilevanza dello svolgimento di mansioni superiori sotto qualsiasi profilo.

Ciò posto, il TAR determina l’oggetto della censura individuando i periodi in cui il tema ha ricevuto una differente disciplina e la relativa successione normativa, censurando, per violazione dell’art. 36 Cost.:

a) l’art. 33 del d.P.R. n. 3 del 1957, in ragione della valenza immediatamente precettiva dell’indicata garanzia costituzionale, che non potrebbe essere compressa dall’astratta possibilità di abuso (nella forma dell’illegittima protrazione dell’assegnazione a funzioni superiori), risultando pertanto ingiustificata la mancata applicazione di detto principio fondamentale ;

b) l’articolo unico del d.lgs. n. 247 del 1993, nella parte in cui fa decorrere dal 1° ottobre 1993 l’efficacia dell’art. 57, comma 2, del d.lgs. 29 del 1993 (che nella sua originaria formulazione stabiliva che «l’utilizzazione del dipendente in mansioni superiori può essere disposta esclusivamente per un periodo non eccedente i tre mesi, nel caso di vacanze di posti di organico, ovvero per sostituire altro dipendente durante il periodo di assenza con diritto alla conservazione del posto, escluso il periodo del congedo ordinario, sempre che ricorrano esigenze di servizio» aggiungendo, al secondo comma, che «nel caso di assegnazione a mansioni superiori, il dipendente ha diritto al trattamento economico corrispondente all’attività svolta per il periodo di espletamento delle medesime»);

c) l’art. 25 del d.lgs. n. 546 del 1993, nella parte in cui, novellando l’art. 57 del ripetuto d.lgs. n. 29 del 1993, ne prevede, al comma 6 di questo, la decorrenza (anche quanto al secondo comma) «dalla data di emanazione, in ciascuna amministrazione, dei provvedimenti di ridefinizione degli uffici e delle piante organiche di cui agli articoli 30 e 31 e, comunque, a decorrere dal 30 giugno 1994»;

d) l’art. 1, comma 5, del d.l. n. 361 del 1995, convertito, con modificazioni, in legge n. 437 del 1995, l’art. 1, del d.l. n. 254 del 1996, convertito, con modificazioni, in legge n. 365 del 1996, l’art. 12, comma 3, del d.l. n. 669 del 1996, convertito, con modificazioni, in legge n. 30 del 1997, nonché l’art. 39, comma 17, della legge n. 449 del 1997, nella parte in cui tali disposizioni hanno successivamente prorogato l’entrata in vigore del ripetuto art. 57, comma 2;

e) l’art. 56 del d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo introdotto dall’art. 25 del d.lgs. n. 80 del 1998, nella parte in cui, al comma 6, dispone che, sino all’attuazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi e con la decorrenza da questi stabilita, in nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza può comportare il diritto a differenze retributive del lavoratore.

Sulla premessa che il legislatore abbia inteso introdurre, con il citato art. 57, comma 2, il principio generale della retribuzione per le mansioni superiori svolte dai lavoratori alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, anche fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, il TAR ritiene incostituzionali le disposizioni, succedutesi nel tempo e sopra ricordate, le quali hanno dilazionato l’entrata in vigore della citata previsione, che avrebbe viceversa imposto all’amministrazione di appartenenza, e consentito comunque al giudice, il riconoscimento del trattamento retributivo differenziale; disposizioni di proroga che hanno mantenuto in vigore l’art. 33 del d.P.R. n. 3 del 1957 e, con esso, il conseguente divieto di corresponsione di differenze retributive.

Analoga censura il remittente formula con riguardo all’art. 56, comma 6, dello stesso d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo introdotto dall’art. 25 del più volte citato d.lgs. n. 80 del 1998, nella parte in cui esclude che il lavoratore abbia titolo all’attribuzione del trattamento differenziale sino all’introduzione di norme contrattuali attuative.

2.— E’ intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha preliminarmente richiesto la declaratoria d’inammissibilità, in quanto il giudice avrebbe dovuto fare applicazione della norma nel senso che riteneva costituzionalmente adeguato. Nel merito, a parere dell’Autorità intervenuta, la questione non sarebbe fondata in ragione di quelle peculiarità del rapporto di pubblico impiego, conformi agli artt. 97 e 98 Cost., che esprimerebbero in primo luogo la necessità di evitare sconvolgimenti organizzativi a causa del mancato rispetto delle regole disciplinanti l’accesso e la progressione in carriera, e che, in secondo luogo, sarebbero deputate a scongiurare gli effetti distorsivi connessi a possibili stabilizzazioni degli incrementi economici, ove l’adibizione a mansioni superiori abbia tratto occasione da esigenze speciali e temporanee.

 

Considerato in diritto

 

 

 

1.1― Il TAR del Veneto dubita, in relazione all’articolo 36 della Costituzione, della legittimità costituzionale: a) dell’art. 33 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3; b) dell’art. unico del d.lgs. 19 luglio 1993, n. 247, nella parte in cui fa decorrere l’efficacia dell’art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 29 del 1993 dal l° ottobre 1993; c) dell’art. 25 del d.lgs. 23 dicembre 1993, n. 546, nella parte in cui, novellando l’art. 57 del citato d.lgs. n. 29 del 1993, ne prevede al comma 6 di questo, la decorrenza degli effetti, anche quanto al secondo comma, «dalla data di emanazione, in ciascuna amministrazione, dei provvedimenti di ridefinizione degli uffici e delle piante organiche di cui agli articoli 30 e 31, e, comunque, a decorrere dal 30 giugno 1994»; d) dell’art. 1, comma 5, del d.l. 28 agosto 1995, n. 361, convertito, con modificazioni, in legge 27 ottobre 1995 n. 437; e) dell’art. 1, del d.l. 10 maggio 1996, n. 254, convertito, con modificazioni, in legge 11 luglio 1996, n. 365; f) dell’art. 12, comma 3, del d.l. 31 dicembre 1996, n. 669, convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 1997, n. 30; g) dell’art. 39, comma 17, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, nella parte in cui tali disposizioni hanno successivamente prorogato l’entrata in vigore dell’art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 29 del 1993; h) dell’art. 56 del d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo introdotto dall’art. 25 del d.lgs. n. 80 del 1998, nella parte in cui, al comma 6, dispone che, sino all’attuazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi e con la decorrenza da questi stabilita, in nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza può comportare il diritto a differenze retributive del lavoratore.

Secondo il remittente, il «diritto vivente» avrebbe individuato nell’articolo 33 del d.P.R. n. 3 del 1957 la disposizione che disciplinava, fino all’entrata in vigore del d.lgs. n. 29 del 1993, lo svolgimento da parte del pubblico dipendente di mansioni superiori a quelle della qualifica attribuitagli, interpretandolo nel senso che esso, nell’ipotesi suindicata, vietava di corrispondere al lavoratore differenze retributive.

Ad avviso del TAR remittente, l’art. 33 citato, nell’interpretazione suddetta e dalla quale non si potrebbe prescindere, nonostante il diverso indirizzo manifestato da questa Corte, viola l’art. 36 della Costituzione. Inoltre contrastano con tale parametro anche tutte le altre norme sopracitate, che hanno differito nel tempo l’entrata in vigore dell’articolo 57, comma 2, del d.lgs. n. 29 del 1993, il quale aveva introdotto il diverso principio del diritto alle differenze retributive, nonché l’art. 56 dello stesso decreto legislativo nel testo introdotto dall’art. 25 del d.lgs n. 80 del 1998, il cui comma 6 disponeva, prima della modifica introdotta dall’art. 15 del d.lgs. 29 ottobre 1998, n. 387, che, sino all’attuazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi e con la decorrenza da questi stabilita, in nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza avrebbe potuto comportare il diritto del lavoratore a differenze retributive.

2.— Le questioni vanno esaminate secondo la tripartizione logica sottesa alla prospettazione.

2.1― La questione di legittimità costituzionale dell’articolo 33 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 non è ammissibile.

Anzitutto, il giudice remittente si è limitato ad affermare che secondo il diritto vivente, dal quale egli asserisce di non poter prescindere, a pena di una più che probabile riforma in appello della decisione che se ne discostasse, la disposizione applicabile alla controversia è l’art. 33 in quanto reca al di là della sua letterale formulazione, il divieto della retribuibilità delle mansioni superiori svolte dal pubblico dipendente.

Il TAR del Veneto, in tal modo, non ha adempiuto l’obbligo che gli incombeva di esprimere con congrua motivazione la propria opinione sul contenuto della norma che intendeva censurare, né ha optato per l’adozione di una interpretazione diversa da quella seguita dall’indirizzo giurisprudenziale ritenuto prevalente.

In secondo luogo è la stessa motivazione sulla esistenza e definizione del "diritto vivente" nel caso in esame a risultare non convincente.

Il remittente lo identifica in alcune recenti pronunce del Consiglio di Stato e, più in particolare, in quattro pronunce dell’Adunanza plenaria (n. 22 del 1999, nn. 10, 11 e 12 del 2000), omettendo di rilevare che soltanto la prima decisione fa espresso riferimento all’art. 33 in questione, mentre le altre si limitano ad affermare – senza alcuno specifico riferimento normativo – che quello della non retribuibilità delle mansioni superiori svolte dal pubblico dipendente è principio consolidato nella giurisprudenza amministrativa.

L’omessa considerazione di tale differenza non è irrilevante qualora si osservi, da un lato, che un diverso orientamento giurisprudenziale, benché minoritario, individuava nell’art. 31, anziché nell’art. 33, del d.P.R. n. 3 del 1957 la disposizione regolatrice dello svolgimento di mansioni superiori nell’ambito della pubblica amministrazione, pervenendo a risultati difformi in ordine alla relativa retribuibilità; dall’altro lato, che questa Corte, con provvedimenti emessi successivamente alle decisioni del massimo organo di giustizia amministrativa (ordinanze n. 349 del 2001 e n. 100 del 2002), ribadendo il proprio orientamento espresso con atti più risalenti (ordinanze n. 289 e n. 347 del 1996), aveva affermato che dall’art. 33 in questione nulla si poteva argomentare sul caso eccezionale di destinazione del dipendente pubblico a mansioni superiori.

3.1― Parimenti inammissibile è la questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto le disposizioni suindicate, dirette a differire l’entrata in vigore dell’art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 29 del 1993 e successive modificazioni che, secondo il TAR del Veneto, ha introdotto nell’ordinamento l’obbligo delle pubbliche amministrazioni di corrispondere ai propri dipendenti le differenze retributive in caso di svolgimento di mansioni superiori.

La motivazione del remittente sulla rilevanza di tale questione si fonda sul presupposto che fino all’emanazione del d.lgs. n. 29 del 1993, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, vigesse il divieto sancito dall’art. 33 del d.P.R. n. 3 del 1957 di corrispondere differenze retributive al pubblico dipendente che avesse svolto mansioni superiori, nonché sull’affermazione che l’art. 57 del citato d.lgs. n. 29 del 1993 aveva introdotto al contrario l’obbligo di corrispondere le differenze suddette; da qui l’illegittimità di tutte quelle norme che, procrastinando l’entrata in vigore dell’art. 57, avevano conservato efficacia all’art. 33 del d.P.R. n. 3 del 1957 e ritardato in tal modo la riconduzione a legittimità del sistema.

Sia il presupposto che la successiva affermazione sono assiomi e non il frutto di una dimostrazione. Mentre dell’art. 33 e del divieto che esso conterrebbe si è già detto, sull’art. 57 del d.lgs. n. 29 del 1993 occorre osservare che tale norma, anche nel testo successivamente modificato dal d.lgs. n. 546 del 1993, prevedeva due ipotesi tipizzate di svolgimento delle mansioni superiori, per entrambe esigendo che esso fosse stato disposto dal dirigente preposto all’unità organizzativa presso cui il dipendente prestava servizio. L’ordinanza di rimessione nulla dice sulle specifiche circostanze di fatto in cui le mansioni superiori sarebbero state svolte e quindi sulla ricorrenza in concreto dei requisiti indicati nell’art. 57 e afferma che, in realtà, tale disposizione avrebbe introdotto nell’ordinamento il generale obbligo di retribuire le mansioni superiori in maniera differenziata, in qualsiasi modo fossero state svolte, perché, altrimenti interpretata, essa avrebbe presentato evidenti profili d’illegittimità costituzionale.

Così prospettando la questione, il remittente si fonda su un’interpretazione dell’art. 57 che trascura il dato letterale e si risolve nella mera affermazione che quello da lui indicato è il contenuto normativo più aderente ai precetti costituzionali: in effetti il giudice a quo, nel dare per scontata la propria lettura della norma – anziché censurarla sotto il profilo della limitazione alle due ipotesi anzidette – chiede alla Corte di confermare l’interpretazione che egli propone, al fine di renderla conforme a Costituzione. Ma l’estraneità di siffatta finalità alla logica del giudizio incidentale esclude l’ammissibilità della questione (ordinanza n. 215 del 2001).

3.2― Infine, non è ammissibile neppure la questione dell’articolo 56, comma 6, del d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo introdotto dall’art. 25 del d.lgs. n. 80 del 1998, nella parte in cui esclude che il lavoratore abbia titolo all’attribuzione del trattamento differenziale sino all’introduzione di norme contrattuali attuative.

La motivazione che sorregge tale questione è, infatti, non pertinente. Il giudice remittente si è limitato ad affermare che per l’art. 56 censurato valgono considerazioni eguali a quelle esposte nel prospettare l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che hanno differito l’entrata in vigore dell’art. 57 del d.lgs. n. 29 del 1993. Ma, mentre l’asserita ragione d’illegittimità di queste ultime consisteva, come si è visto, nell’aver differito l’entrata in vigore di una norma (l’art. 57 del d.lgs. n. 29 del 1993) che introduceva l’obbligo di retribuire in modo differenziato lo svolgimento di mansioni superiori, l’articolo 56, nella parte sospettata di illegittimità costituzionale, contiene la ben diversa previsione del divieto di corrispondere alcunché in tale ipotesi al pubblico dipendente «fino all’entrata in vigore di norme attuative della nuova disciplina degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi e con la decorrenza da questi stabilita». E’ incongruo quindi affermare che le ragioni che motivano l’una questione valgono anche per l’altra.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale: dell’art. 33 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato); dell’art. unico del decreto legislativo 19 luglio 1993 n. 247 (Disposizioni correttive dell’art. 57 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, in materia di attribuzione temporanea di mansioni superiori); dell’art. 25 del decreto legislativo 23 dicembre 1993, n. 546 (Ulteriori modifiche al decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, sul pubblico impiego); dell’art. 1, comma 5, del decreto-legge 28 agosto 1995, n. 361 (Differimento di termini previsti da disposizioni legislative in materia di interventi concernenti la pubblica amministrazione), convertito, con modificazioni, in legge 27 ottobre 1995, n. 437; dell’art. 1 del decreto-legge 10 maggio 1996, n. 254 (Differimento del termine di applicazione stabilito dall’art. 57, comma 6, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 e successive modifiche, in materia di attribuzione temporanea di mansioni superiori), convertito, con modificazioni, in legge 11 luglio 1996, n. 365; dell’art. 12, comma 3, del decreto-legge 31 dicembre 1996, n. 669 (Disposizioni urgenti in materia tributaria, finanziaria e contabile a completamento della manovra di finanza pubblica per l’anno 1997), convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 1997, n. 30; dell’art. 39, comma 17, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica); dell’art. 56 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), nel testo introdotto dall’art. 25 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, sollevate, in riferimento all’art. 36 della Costituzione, dal TAR. per il Veneto, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 giugno 2003.

F.to

Riccardo CHIEPPA, Presidente

Francesco AMIRANTE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 4 luglio 2003

Il Direttore della Cancelleria

F.to DI PAOLA

Depositata il 4 luglio 2003.

 


 

RICONOSCIMENTO DELLA CAUSA DI SERVIZIO
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V – Sentenza 3 luglio 2003 n. 4004 (sull’individuazione del momento da cui comincia a decorrere il termine semestrale per la presentazione di una domanda di riconoscimento della causa di servizio).

 

CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V – Sentenza 3 luglio 2003 n. 4004 – Pres. Quaranta, Est. Farina - Palimisano (Avv. Berardi) c. Comune di Francavilla Fontana (n.c.) – (annulla T.A.R. Puglia-Bari, 11 dicembre 2001, n. 7821).

Pubblico impiego – Infermità e lesioni – Riconoscimento della causa di servizio – Termine semestrale per la presentazione della domanda – Decorrenza – Dalla data di piena conoscenza non solo della natura, ma anche della gravità della menomazione che ne deriva.

Sia ai sensi dell’art. 36 del d.p.r. 3 maggio 1957, n. 686, che secondo l’art. 3 del d.p.r. 20 aprile 1994, n. 349 e dell’analoga disciplina ormai prevista dall’art. 2 del d.p.r. 29 ottobre 2001, n. 461, il termine semestrale di decadenza previsto per la proposizione della domanda di riconoscimento di un’infermità come dipendente da causa di servizio decorre dal giorno in cui il dipendente ha realmente avuto la consapevolezza dell’incidenza della sua malattia o del fatto traumatico subito sulla capacità di attendere alle ordinarie occupazioni, cioè la piena conoscenza non solo della natura, ma anche della gravità della menomazione che ne deriva (1).

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(1) Giurisprudenza costante; v. per tutte Cons. Stato, Sez. IV, 22 giugno 1993, n. 639, in Foro amm. 1993, 1259, secondo cui non è sufficiente la sola consapevolezza di essere affetto da un’infermità, ma occorre che l’interessato abbia acquisito conoscenza della circostanza che l’infermità è da ricollegare ad un fatto di servizio.

Secondo la stessa sentenza, infatti, il termine semestrale, previsto dall'art. 36 d.P.R. 3 maggio 1957 n. 686 per la presentazione della domanda di accertamento della dipendenza da causa di servizio dell'infermità contratta dal pubblico dipendente, inizia infatti a decorrere allorchè il dipendente è consapevole della gravità della malattia contratta e della sua possibile dipendenza da causa di servizio, non già dal momento di mera conoscenza dell'infermità; pertanto, per le malattie che con il decorso del tempo diventano permanenti, il dipendente può proporre la domanda di accertamento della dipendenza entro il termine semestrale decorrente dalla conoscenza della permanenza della malattia.

E neppure può affermarsi che la norma abbia mirato (oggi è stata abrogata per effetto dell’entrata in vigore del d.p.r. 29 ottobre 2001, n. 461, il cui art. 2, però, dispone nello stesso senso) al risultato che ogni qualvolta si presentavano fatti morbosi o infortuni si dovesse produrre la domanda in questione, con un proliferare di procedimenti palesemente inutili su velleitarie istanze degli impiegati (in termini IV n. 639/1993, citata, e 11 ottobre 1993, n. 868).

Secondo la disciplina sopra richiamata (che è rimasta pressocchè immutata a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 2 d.p.r. 29 ottobre 2001, n. 461), quindi, il termine semestrale non può decorrere dal semplice verificarsi di un evento, i cui danni possano manifestarsi in futuro, o dalla conoscenza di una malattia o lesione, ma dal momento dell’esatta percezione della natura e della gravità dell’infermità e del suo nesso causale con un fatto di servizio (Sez. VI, 14 aprile 1999, n. 43, 27 dicembre 2000, n. 6880, 3 luglio 2001, n. 3877; Sez. IV, 10 aprile 2002, n. 1921).

Ed infatti, come già disponeva l’art. 36 del d.p.r. 686/57, l’art. 3 del d.p.r. n. 349/94, stabilisce che l’impiegato deve specificare la natura dell’infermità o lesione, i fatti di servizio che la causarono o vi concorsero e, se possibile, le menomazioni subite (letteralmente: "le conseguenze sull’integrità fisica").

 


 

FATTO

1. Il ricorso n. 281 del 2003 è proposto dal sig. Luigi Palmisano. È stato notificato al comune di Francavilla Fontana il 16 dicembre 2002 ed è stato depositato il 14 gennaio 2003.

2. È impugnata la sentenza n. 7821/01, pubblicata l’undici dicembre 2001, con la quale il Tribunale Amministrativo Regionale della Puglia, sede di Lecce, II Sezione, ha respinto il ricorso per l’annullamento della deliberazione della giunta comunale n. 12 del 30 gennaio 1998. Con tale provvedimento, la giunta ha "preso atto" della determinazione del comitato per le pensioni privilegiate ordinarie, in ordine alla domanda di equo indennizzo del ricorrente, di "non luogo a provvedere" per tardività della domanda.

3. Viene lamentato che la conoscenza dell’infermità menomante è avvenuta soltanto nel 1994 e che il titolo alla liquidazione dell’equo indennizzo, per causa di servizio, è sorto soltanto a seguito dell’accertamento contenuto nel verbale della commissione medica ospedaliera del 19 dicembre 1996. La decisione di tardività della domanda è perciò erronea, tenuto conto di quanto disposto dall’art. 36 del d.p.r. 3 maggio 1957, n. 686, e dall’art. 3 del d.p.r. 20 aprile 1994, n. 349.

È stata depositata una memoria illustrativa il 9 maggio 2003.

4. Il comune di Francavilla Fontana non si è costituito in appello.

5. All’udienza del 20 maggio 2003, il ricorso è stato chiamato per la discussione ed è passato in decisione.

DIRITTO

1. Il ricorrente, dipendente del Comune intimato, era addetto al carico e scarico nel macello comunale, dove ha subito un infortunio l’otto ottobre 1979. Successivamente è stato adibito ad altri servizi, sempre alle dipendenza della stessa amministrazione comunale.

Il 17 novembre 1994, a seguito di visita medica cui si era di sua iniziativa sottoposto alcuni giorni prima, ha chiesto l’avvio del procedimento per il riconoscimento di una sua infermità come dipendente da causa di servizio.

Con verbale del 19 dicembre 1996, la commissione medica ospedaliera dell’ospedale militare marittimo di Taranto ha riconosciuto che l’infermità riscontrata era dipendente da causa di servizio, segnalando che l’infortunio aveva avuto luogo nel 1979.

L’interessato ha, quindi, chiesto la liquidazione dell’equo indennizzo, con domanda acquisita agli atti del Comune il 24 dicembre 1996, sostenendo la tempestività della domanda stessa.

È seguita la deliberazione di giunta n. 301 del 20 marzo 1997, con la quale si metteva in rilievo che, rispetto alla data dell’infortunio, l’istanza era stata presentata il 17 novembre 1994 e si disponeva la trasmissione degli atti al comitato per le pensioni privilegiate ordinarie.

Infine, con l’impugnata deliberazione n. 12 del 30 gennaio 1998, la giunta decideva di "prendere atto" del fatto che il C.P.P.O. aveva deliberato che non vi era "luogo a procedere", a causa "dell’eccezione di tardività sollevata" dalla stessa amministrazione".

2. Il ricorrente ha sostenuto, in prime cure, che non era tardiva la sua domanda, giacché egli aveva avuto conoscenza della sua infermità soltanto con la visita medica privata, alla quale si era sottoposto il 13 novembre 1994. Ad essa aveva fatto seguire l’istanza del 17 novembre, e perciò entro il prescritto termine semestrale, ex art. 36 d.p.r. n. 686 del 1957 ed art. 3 d.p.r. n. 349 del 1994.

Ripropone questa censura anche in appello.

3. Il primo giudice ha condiviso la tesi della decorrenza del termine semestrale, per la domanda di accertamento della dipendenza da causa di servizio dell’infermità contratta, dal momento in cui si sia avuta precisa e sicura notizia della gravità e delle conseguenze invalidanti della malattia o lesione.

Ha però, in concreto, rilevato che la notizia non risaliva al 1979, come invece sostenuto nel provvedimenti impugnato, ma al 1987-1988, quando l’INAIL e poi il collegio medico presso l’U.S.L. di Brindisi 3 avevano rilevato che l’infermità lasciava l’interessato idoneo al lavoro, ma con mansioni richiedenti "estrinsecazione energetica di grado medio-lieve".

L’infermità era perciò "conosciuta sin dagli anni 1987-88", secondo il T.A.R.

4. L’appello è fondato.

Sia secondo l’art. 36 del d.p.r. 3 maggio 1957, n. 686, sia secondo l’art. 3 del d.p.r. 20 aprile 1994, n. 349 – entrato in vigore il 5 dicembre 1994 e, quindi, applicabile, "ratione temporis", con riguardo al provvedimento del 1998, impugnato – il termine entro il quale va presentata domanda per il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio di un’infermità contratta, è stabilito in sei mesi "dalla data in cui si è verificato l’evento dannoso" o da quella in cui l’impiegato "ha avuto conoscenza dell’infermità".

La norma non consente, perciò, di ritenere che il termine suddetto decorra dal semplice verificarsi di un evento, i cui danni possano manifestarsi in futuro, o dalla conoscenza di una malattia o lesione, ma dal momento dell’esatta percezione della natura e della gravità dell’infermità e del suo nesso causale con un fatto di servizio ( VI Sez. 14 aprile 1999, n. 43, 27 dicembre 2000, n. 6880, 3 luglio 2001, n. 3877; IV Sez. 10 aprile 2002, n. 1921). Ed infatti, come già disponeva l’art. 36 del d.p.r. 686/57, l’art. 3 del d.p.r. n. 349/94, stabilisce che l’impiegato deve specificare la natura dell’infermità o lesione, i fatti di servizio che la causarono o vi concorsero e, se possibile, le menomazioni subite (letteralmente: "le conseguenze sull’integrità fisica").

Dunque, non è sufficiente la sola consapevolezza di essere affetto da un’infermità, ma occorre che l’interessato abbia acquisito conoscenza della circostanza che l’infermità è da ricollegare ad un fatto di servizio (IV Sez. 22 giugno 1993, n. 639). E neppure può affermarsi che la norma abbia mirato (oggi è stata abrogata per effetto dell’entrata in vigore del d.p.r. 29 ottobre 2001, n. 461, il cui art. 2, però, dispone nello stesso senso) al risultato che ogni qualvolta si presentavano fatti morbosi o infortuni si dovesse produrre la domanda in questione, con un proliferare di procedimenti palesemente inutili su velleitarie istanze degli impiegati (in termini: IV n. 639/1993, citata, e 11 ottobre 1993, n. 868).

5. In conclusione, il termine di decadenza previsto per la proposizione della domanda di riconoscimento di un’infermità come dipendente da causa di servizio decorre dal giorno in cui il dipendente ha realmente avuto la consapevolezza dell’incidenza della sua malattia o del fatto traumatico subito sulla capacità di attendere alle ordinarie occupazioni, cioè la piena conoscenza non solo della natura, ma anche della gravità della menomazione che ne deriva (IV Sez. n. 868/1993 citata e 10 ottobre 1994, n. 784; VI Sez. 10 agosto 1994, n. 1302 e giurisprudenza citata sopra).

6. Ne segue che:

a) è illegittima la deliberazione impugnata in prime cure, con i precedenti atti endoprocedimentali, per aver ancorato la tempestività della domanda al momento dell’originario infortunio;

b) che non va condivisa neppure la tesi del T.A.R., il quale ha legittimamente rilevato che occorreva aver riguardo al momento della conoscenza della consapevolezza dell’incidenza del fatto sulla riduzione della capacità di lavoro, ma ha, poi, fatto riferimento alla data delle visite mediche collegiali (2 febbraio e 22 marzo 1988), nelle quali è stato rilevato che un’infermità esisteva, ma che questa non menomava l’idoneità al lavoro. Ed, invero la conseguenza che ne è stata tratta non è condivisibile

a.1) sia perché il primo giudice ha operato un’inammissibile integrazione della motivazione del provvedimento impugnato, col dare rilievo ad un fatto del quale il Comune non aveva tenuto conto;

a.2) sia perché l’esito di quelle visite si è tradotto in un giudizio d’idoneità "a proficuo lavoro", per essere stata rilevata un’esigua menomazione dell’integrità fisica;

a.3) sia perché, in difetto di altra prova certa, il cui onere gravava sull’amministrazione comunale, e che non è stata offerta, l’acquisizione della conoscenza degli elementi necessari e sufficienti per far decorrere il termine in questione, si deve far risalire, nel caso concreto, all’accertamento medico che il ricorrente ha documentato come eseguito il 13 novembre 1994, rispetto al quale sono tempestive la domanda del 17 novembre successivo e la sua reiterazione del 10 aprile 1995.

7. È solo nella data del 13 novembre 1994 che all’interessato, sottopostosi ad accertamenti di sua iniziativa, il sanitario ha certificato che, appunto dopo la predetta verifica del 1988, l’attività di bidello scolastico nella quale era stato impegnato aveva "comportato un complessivo peggioramento" delle sue condizioni fisiche e che egli era affetto da infermità "in fase di aggravamento" (v. ultima pagina del referto). E, da questa data, egli ha avuto la percezione della menomazione ormai subita.

8. All’accoglimento dell’appello, con annullamento degli atti suindicati, consegue che – diversamente da quanto richiede la difesa dell’appellante – il procedimento deve riprendere dal momento successivo alla pronuncia del collegio medico ospedaliero.

9. Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, accoglie l’appello n. 281 del 2003 e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, annulla la deliberazione n. 12 del 30 gennaio 1998 della giunta del comune di Francavilla Fontana, come da motivazione.

Condanna l’amministrazione al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in duemila euro.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), nella camera di consiglio del 20 maggio 2003, con l'intervento dei Signori:

Alfonso Quaranta Presidente

Raffaele Carboni Consigliere

Giuseppe Farina rel. est. Consigliere

Aldo Fera Consigliere

Marzio Branca Consigliere

L'ESTENSORE IL PRESIDENTE

f.to Giuseppe Farina f.to Alfonso Quaranta

Depositata in segreteria il 3 luglio 2003.