IN CASO DI
TRASFERIMENTO ILLEGITTIMO IL
LAVORATORE PUO’ OTTENERE IL RISARCIMENTO DEL DANNO – Da
determinarsi in via equitativa (Cassazione Sezione Lavoro n. 21253 dell’8
novembre 2004, Pres. Ravagnani, Rel. Filadoro).
Arrigo N., dipendente della banca
Cassamarca con qualifica impiegatizia, è stato trasferito nell’aprile del 1999
da Ponzano Veneto a Vicenza, dove ha svolto per due mesi, come reggente, le
mansioni di vice direttore della locale filiale, posizione per la quale il
contratto integrativo aziendale prevedeva la qualifica di funzionario di
quarto grado. Egli non ha potuto compiere il trimestre di svolgimento delle
mansioni superiori, requisito necessario al fine della promozione automatica a
funzionario, in base all’art. 2103 cod. civ., perché dopo due mesi è stato
nuovamente trasferito a Vittorio Veneto, dove è risultato in soprannumero ed
ha avuto mansioni impiegatizie.
Egli ha chiesto al Tribunale di Treviso di
dichiarare l’illegittimità e nullità del trasferimento, di affermare il suo
diritto alla qualifica di funzionario e di condannare l’azienda a reintegrarlo
nelle mansioni di vice direttore in Vicenza, nonché al risarcimento dei danni.
Il Tribunale ha dichiarato illegittimo il trasferimento in quanto non
giustificato da effettive ragioni organizzative, ha ordinato la reintegrazione
del lavoratore nelle mansioni di vice direttore a Vicenza e gli ha attribuito
la qualifica di funzionario rilevando che, se non fosse stato illegittimamente
trasferito, il lavoratore avrebbe maturato il diritto alla promozione. La
Corte di Appello di Venezia ha confermato la dichiarazione di illegittimità
del trasferimento, ma ha escluso il diritto del ricorrente alla qualifica di
funzionario, alla reintegrazione nelle mansioni di vice direttore e al
risarcimento del danno. Sia il lavoratore che l’azienda hanno proposto ricorso
per cassazione.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 21253
dell’8 novembre 2004, Pres. Ravagnani, Rel. Filadoro) ha rigettato il ricorso
dell’azienda, mentre ha parzialmente accolto quello del lavoratore. La
Cassazione ha ritenuto che la Corte di Venezia abbia correttamente escluso il
diritto alla qualifica di funzionario, dal momento che per la promozione
automatica era necessario lo svolgimento, di fatto, delle mansioni superiori
per almeno tre mesi e che abbia adeguatamente motivato la dichiarazione di
illegittimità del trasferimento. La Cassazione ha invece affermato che la
Corte di Venezia avrebbe dovuto confermare l’ordine, pronunciato dal
Tribunale, di reintegrazione nelle mansioni di vice direttore e condannare la
banca al risarcimento del danno. In proposito la Suprema Corte ha ricordato la
sua costante giurisprudenza secondo cui la conseguenza dell’illegittimo
mutamento di mansioni del lavoratore subordinato, disposto dal datore di
lavoro in violazione della norma contenuta nell’art. 2103 codice civile, è
costituita non solo dal risarcimento del danno, ma anche dal ripristino della
situazione originaria mediante la reintegrazione del lavoratore nella
posizione di lavoro (Cass. 20 gennaio 1987 n. 491, 12 novembre 2002 n. 15868).
Tale principio – ha affermato la Corte – deve trovare applicazione anche in
ipotesi di trasferimento illegittimo; in questo caso, come in ipotesi di
dequalificazione professionale, deve ritenersi che il risarcimento del danno
subito dal lavoratore possa essere liquidato dal giudice del merito in via
equitativa (Cass. 26 febbraio 2004 n. 1982). Se si riconosce che la violazione
della norma imperativa contenuta nell’art. 2103 implica la nullità del
provvedimento datoriale – ha osservato la Cassazione – si deve parimenti
ammettere la possibilità che al lavoratore sia accordata una tutela piena,
mediante l’automatico ripristino della precedente posizione, fatto salvo,
ovviamente, il cosiddetto “ius variandi” del datore di lavoro: situazione
codesta che in verità non ha nulla a che vedere con quella prevista dall’art.
18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 (cfr. anche Cass. 14 luglio 1997 n.
6381).
LA CORREZIONE DI UN ERRORE
MATERIALE DELLA SENTENZA PUO’ ESSERE OTTENUTA ANCHE NEL CASO CHE ESSA SIA
STATA APPELLATA – Dichiarazione di incostituzionalità parziale
dell’art. 287 cod. proc. civ. (Corte Costituzionale sentenza n. 335 del 10
novembre 2004, Pres. Mezzanotte, Red. Vaccarella).
In base all’art. 287 cod. proc. civ. le
sentenze contro le quali non sia stato proposto appello possono essere
corrette, su ricorso di parte, dallo stesso giudice che le ha pronunciate,
qualora egli sia incorso in omissione o in errori materiali o di calcolo.
Carlo D. ha ottenuto dal Tribunale di
L’Aquila una sentenza di condanna di un suo debitore al pagamento di una
determinata somma. Egli non ha però potuto procedere all’esecuzione perché la
sentenza indicava inesattamente il suo nome, per errore materiale; pertanto ha
chiesto al Tribunale la correzione dell’errore in base all’art. 287 cod. proc.
civ.
Il Tribunale ha rilevato di non poter
accogliere la richiesta perché, nel frattempo, il debitore aveva proposto
appello contro la sentenza e l’art. 287 cod. proc. civ., esclude, in caso di
appello, la possibilità di correzione degli errori da parte del giudice di
primo grado. In considerazione di ciò il Tribunale ha sollevato la questione
di legittimità costituzionale dell’art. 287 cod. proc. civ. – con riferimento
agli articoli 3 (principio di eguaglianza), 24 (diritto di difesa) e 111
(giusto processo) della Costituzione – nella parte in cui limita la facoltà di
avvalersi del procedimento di correzione degli errori materiali alle sole
sentenze contro le quali non sia stato proposto appello.
Il Tribunale ha rilevato che il testo
dell’art. 287 cod. proc. civ. è incompatibile con un sistema nel quale la
provvisoria esecutività della sentenza di primo grado costituisce la regola;
precludere l’esecuzione per la sola ragione che avverso la decisione affetta
da errore materiale sia stato proposto appello – ha affermato il Tribunale – è
scelta normativa irragionevole e lesiva del principio di uguaglianza per il
diverso trattamento riservato alle sentenze, a seconda che esse siano o meno
affette da errore materiale, e cioè da un errore che incide solo
sull’espressione grafica del dictum del giudice. Il Tribunale ha
inoltre osservato che l’impossibilità di conseguire la correzione, in pendenza
del giudizio di appello, impedisce la realizzazione del diritto entro un
termine ragionevole e pertanto contrasta con l’art. 111 Cost. Rep.
La Corte Costituzionale ha ritenuto fondata
la questione e, con sentenza n. 335 del 10 novembre 2004 (Pres. Mezzanotte,
Red. Vaccarella), ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 287
cod. proc. civ. limitatamente alle parole “contro le quali non sia stato
proposto appello”.
IL LAVORATORE SOTTOPOSTO
A PROCEDIMENTO DISCIPLINARE PUO’ TRASMETTERE LE SUE GIUSTIFICAZIONI A MEZZO DI
TELEGRAMMA - Ma, in caso di
contestazione sulla provenienza, deve provare di essere stato l’autore della
spedizione (Cassazione Sezione Lavoro n. 21078 del 3 novembre 2004, Pres.
Mattone, Rel. D’Agostino).
Il lavoratore che sia richiesto, in sede
disciplinare, di fornire le sue giustificazioni, può trasmetterle all’azienda
a mezzo di un telegramma. Ove, davanti al giudice, l’azienda non contesti la
provenienza del telegramma, questo ha a tutti gli effetti il valore di una
scrittura privata, senza che il mittente debba provare di averlo
effettivamente spedito. Nel caso invece che vi sia, da parte dell’azienda, una
tempestiva contestazione della provenienza del messaggio telegrafico, il
lavoratore, deve, secondo quanto disposto dall’art. 2705 cod. civ., fornire la
prova di avere sottoscritto personalmente l’originale consegnato all’ufficio
di partenza, ovvero, in mancanza di sottoscrizione, di avere consegnato o
personalmente fatto consegnare l’originale all’ufficio di partenza.
Cassazione: l'insulto in dialetto torna ad essere 'off limits' |
La Corte di
Cassazione ci ripensa e sancisce che anche l'insulto in dialetto deve
essere punito. Non molto tempo fa, la stessa sezione della Suprema Corte,
la Quinta penale, aveva assolto il maestro Marcello D'Orta per essersi
rivolto ad una dietologa con il termine dialettale ''scurnacchiata'',
termine campano per dire ''svergognata''. Ora la stessa sezione
stabilisce, invece ,che anche l'espressione offensiva in gergo deve essere
punita. A fare le spese della promuncia 40444/04 della Quinta sezione
penale, un 34enne di Isola della Scala, Diego D. che apostrofo' una
poliziotta diicendole ''Ti si na faccia da 'mbecille''. Per piazza Cavour,
l'espressione rappresenta una vera e propria ingiuria perche' ''l'offensivita'
della frase e' evidente''. Di qui la decisione di rendere definita la
condanna a 300 euro di multa inflitta al giovane dal Giudice di Pace di
Isola della Scala nel marzo 2003. Non fu cosi' per il celebre maestro
napoletano di ''Io speriamo che me la cavo'' che, dopo aver apostrofato
una dietologa con il termine dialettale ''schurnacchiata'' si era visto
assolvere dalla Corte di Cassazione. Anche se ''offensivo'', dissero
allora gli Ermellini, il termine ''serve a riprodurre fedelmente un
particolare socio culturale''. Nel caso del giovane che ha offeso la
poliziotta con una offesa dialettale ,invece, i giudici hanno affermato
che l'espressione ''ti si na faccia da 'mbecille'' ''escludesse qualsiasi
dubbio sulla volonta' dell'imputato di ledere il prestigio e il decoro''
della poliziotta. Per effetto della ''inammissibilita''' del ricorso,
Diego D. oltre alla multa di 300 euro dovra' sborsarne altre 500 alla
cassa delle ammende.
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