IL LAVORATORE RISPONDE IN SEDE DISCIPLINARE DEL SUO COMPORTAMENTO E NON DELLA SENTENZA PENALE CUI ESSO ABBIA DATO LUOGO – La condanna può essere utilizzata solo come mezzo di prova (Cassazione Sezione Lavoro n. 2023 del 30 gennaio 2006, Pres. Mileo, Rel. Toffoli).
            
Giuseppe M., dipendente della S.p.A. Poste Italiane, è stato sottoposto nel dicembre 1993 a processo penale davanti al Tribunale di Agrigento con l’imputazione di concorso nel reato di falsità ideologica per avere sollecitato e ottenuto un certificato medico attestante un’inesistente malattia (lombosciatalgia) al fine di giustificare un’assenza dal lavoro di dieci giorni verificatasi nel febbraio del 1985. Egli è stato riconosciuto colpevole del reato attribuitogli e condannato alla pena di otto mesi di reclusione. La condanna è stata confermata in appello ed è divenuta definitiva per effetto di sentenza della Corte di Cassazione in data 12.12.1998. La S.p.A. Poste Italiane ha sottoposto il lavoratore a procedimento disciplinare con lettera di contestazione in data 12 gennaio 2001 con cui, richiamata la vicenda processuale penale si affermava che il lavoratore, mentre in base a un certificato medico era risultato impedito al servizio per dieci giorni a partire dal 19 febbraio 1985, in realtà si era recato in quel periodo in un altro comune per svolgervi un diverso tipo di attività lavorativa, che peraltro comportava un impegno fisico superiore a quello richiesto dalle mansioni svolte per il servizio postale. Il procedimento disciplinare si è concluso con il licenziamento di Giuseppe M. Questi si è rivolto al Tribunale di Agrigento chiedendo l’annullamento del licenziamento, tra l’altro, per violazione di principio di immediatezza nella contestazione dell’addebito. Sia il Tribunale che la Corte di Appello di Palermo hanno ritenuto la domanda priva di fondamento e dichiarato la legittimità del licenziamento.
            
La Corte di Appello ha rilevato che l’art. 54 del contratto collettivo, richiamato nella lettera di licenziamento, prevedeva il licenziamento senza preavviso nel caso di “condanna passata in giudicato, quando i fatti costituenti reato possono assumere rilievo ai fini della lesione del rapporto fiduciario, nell’ipotesi in cui la loro gravità, in relazione alla natura del rapporto, alle mansioni, al grado di affidamento, sia tale da far ritenere il lavoratore professionalmente inidoneo alla prosecuzione del rapporto”. La Corte riteneva quindi che presupposto del licenziamento fosse la sentenza penale di condanna divenuta definitiva, cosicché era dal momento della sua conoscenza da parte del datore di lavoro che doveva essere valutata la tempestività della contestazione, escluso ogni riferimento all’epoca di commissione dei fatti penalmente sanzionati; nella specie tale conoscenza era avvenuta solo con il rilascio di copia della sentenza da parte della cancelleria della Cassazione e quindi doveva ritenersi tempestiva la contestazione del 12.1.2001.
            
Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione sostenendo, tra l’altro, che il giudice di merito non aveva correttamente valutato il requisito dell’immediatezza della contestazione con il riferimento ai fatti di causa; egli ha rilevato che il datore di lavoro aveva prestato acquiescenza a quanto verificatosi nel 1985 e agli accertamenti penali di cui alle sentenze penali di primo e secondo grado, continuando ad accettare la prestazione del ricorrente e non ricorrendo alla sospensione cautelare dal servizio prevista come possibile dal c.c.n.l. del 1994 anche con riferimento a procedimenti e condanne per reati di falsità, e che quindi la successiva contestazione dell’addebito era stata tardiva.
            
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 2023 del 30 gennaio 2006, Pres. Mileo, Rel. Toffoli) ha accolto il ricorso. Il giudice di merito – ha osservato la Corte – nel valutare la tempestività della contestazione disciplinare, ha ritenuto di poter fare esclusivo e diretto riferimento alla data in cui era diventata definitiva la sentenza penale di condanna, sulla base della previsione come ipotesi di licenziamento in tronco, da parte di norma disciplinare contrattuale, della ricorrenza di una condanna passata in giudicato. Una simile impostazione del problema – ha affermato la Cassazione – non è conforme ai principi di diritto che regolano la materia nell’ambito dei rapporti di lavoro regolati dal codice civile e dalla legge n. 300 del 1970; in questi rapporti, poiché fatto costitutivo in concreto del potere disciplinare deve ritenersi in ogni caso il comportamento del lavoratore e non la sua condanna penale, che può assurgere solo a mezzo di prova dei fatti disciplinarmente rilevanti, la verifica della tempestività della contestazione deve essere compiuta, in linea di principio, con riferimento alla adeguata conoscenza della commissione dell’infrazione disciplinare da parte del datore di lavoro. In proposito la Corte ha enunciato il seguente principio di diritto: “Nei rapporti di lavoro privati, nei quali non trovano applicazione le regole dettate dalla legge 27 marzo 2001 n. 97 in materia di rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare e di effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, il datore di lavoro – anche nel caso in cui il contratto collettivo indichi come ipotesi di licenziamento in tronco la condanna penale passata in giudicato per fatti idonei ad incrinare il rapporto fiduciario –, una volta che abbia avuto la notizia, munita di un ragionevole tasso di attendibilità (da valutarsi a seconda delle circostanze) della commissione da parte del lavoratore di fatti di potenziale rilievo disciplinare, al fine di rispettare la regola della necessaria tempestività dell’esercizio del potere disciplinare, e ferma restando la regola della necessaria tempestività dell’esercizio del potere disciplinare, e ferma restando la rilevanza della sospensione cautelare del dipendente, ha l’onere di assumere, con adeguata diligenza e tempestività, le iniziative necessarie per l’accertamento e la valutazione dei fatti, ivi compresa, ove non sia possibile o ragionevole un diretto accertamento dei fatti da parte sua, l’assunzione di adeguate informazioni circa l’andamento del procedimento penale in corso per gli stessi fatti; coerentemente, il datore di lavoro, ove sussista un rilevante intervallo temporale tra i fatti di rilievo disciplinare e l’esercizio dei poteri disciplinari, deve fornire la prova delle circostanze evidenzianti la tempestività in concreto di questo esercizio”. Nella specie, caratterizzata dalla applicabilità delle norme disciplinari previste per i rapporti di lavoro privati a seguito della trasformazione dell’Amministrazione postale in ente pubblico economico e alla successiva stipulazione di un nuovo contratto collettivo di lavoro – ha osservato la Corte – questo principio di diritto è stato disatteso dal giudice d’appello sia, nel momento in cui, in relazione a fatti di molti anni antecedenti all’epoca della contestazione disciplinare, ha ritenuto di poter valutare la tempestività di quest’ultima facendo riferimento all’epoca del giudicato penale, senza alcun previo accertamento circa le circostanze che potessero giustificare l’adozione in concreto di tale criterio, sia, specificamente, per avere escluso la rilevanza dell’intervallo di oltre due anni intercorrente tra loro stesso giudicato penale e la contestazione disciplinare, senza tenere conto al riguardo che era onere del datore di lavoro anche la dimostrazione di avere con adeguata diligenza seguito gli sviluppi del processo penale di cui, come è pacifico, era a conoscenza e i cui accertamenti era intenzionato a valorizzare ai fini della prova dell’illecito disciplinare poi posto a base del licenziamento in tronco.


 

QUANDO SIA DECORSO OLTRE UN ANNO DALLA DATA DI PUBBLICAZIONE DELLA SENTENZA, LA NOTIFICAZIONE DELL’ATTO DI INTEGRAZIONE DEL CONTRADDITTORIO IN APPELLO DEVE ESSERE EFFETTUATA ALLA PARTE PERSONALMENTE – In base agli artt. 330 e 331 cod. proc. civ. (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 2197 del 1 febbraio 2006, Pres. Carbone, Rel. Preden).
            Nei giudizi di impugnazione, la notificazione dell’atto di integrazione del contraddittorio in cause inscindibili ai sensi dell’art. 331 cod. proc. civ., qualora sia decorso oltre un anno dalla data di pubblicazione della sentenza, deve essere effettuata alla parte personalmente. Invero l’individuazione del luogo di notificazione dell’atto di integrazione del contraddittorio, nei giudizi di impugnazione, in cause inscindibili, non costituisce oggetto di espressa disciplina da parte dell’art. 331 cod. proc. civ. La relativa disciplina va quindi desunta da altre norme, e la più acconcia a tal fine appare quella dettata dall’art. 330, comma 3, cod. proc. civ., che prescrive la notifica personale dell’impugnazione in due ipotesi: a) quando manca la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio (come avviene nel caso in cui nel giudizio concluso dalla sentenza oggetto dell’impugnazione la parte destinataria della notifica sia rimasta contumace, ovvero sia mancata la dichiarazione o l’elezione da parte del soggetto comparso personalmente ove ciò sia consentito); b) in ogni caso, dopo un anno dalla pubblicazione della sentenza, se l’impugnazione è ancora ammessa.