I lavoratori hanno diritto al risarcimento del danno per il mancato lavaggio, da parte dell’azienda, degli indumenti di protezione – L’operazione non può essere posta a carico dei dipendenti – E’ nulla la norma di un contratto collettivo che ponga a carico dei lavoratori la pulizia degli abiti di lavoro. L’idoneità degli indumenti di protezione che il datore di lavoro deve mettere a disposizione dei lavoratori – a norma dell’art. 379 del d. P.R. n. 547 del 1955 fino alla data di entrata in vigore del d.lg. n. 626 del 1994 e ai sensi degli art. 40, 43, commi 3 e 4, di tale decreto, per il periodo successivo – deve sussistere non solo nel momento della consegna degli indumenti stessi, ma anche durante l’intero periodo di esecuzione della prestazione lavorativa. Le norme suindicate, infatti, finalizzate alla tutela della salute quale oggetto di autonomo diritto primario assoluto (art. 32 cost.), solo nel suddetto modo conseguono il loro specifico scopo che, nella concreta fattispecie, è quello di prevenire l’insorgenza e il diffondersi d’infezioni. Ne consegue che, essendo il lavaggio indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza, esso non può non essere a carico del datore di lavoro, quale destinatario dell’obbligo previsto dalle citate disposizioni. I lavoratori hanno diritto al risarcimento del danno per l’inadempienza dell’azienda all’obbligo di provvedere alla pulizia degli abiti da lavoro (Cassazione Sezione Lavoro n. 22929 del 14 novembre 2005, Pres. Sciarelli, Rel. Lupi).
l'UNIFORME E' UN INDUMENTO DI PROTEZIONE ?

 
UN MINISTERO PUO’ ESSERE CONDANNATO AL RISARCIMENTO DEL DANNO PER LESIONE DI INTERESSE LEGITTIMO – Quando un suo provvedimento è contrario alle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione (Cassazione Sezione Terza Civile n. 20358 del 21 ottobre 2005, Pres. Preden, Rel. Di Nanni).
            Nel 1988 il Ministero dell’Economia, nell’ambito della riforma del servizio di riscossione dei tributi nella provincia di Milano ha soppresso alcune concessioni del servizio. Una delle società private della concessione, la Set, ha impugnato il provvedimento davanti al Giudice amministrativo, che ha accolto sia la domanda di sospensione in via cautelare sia, successivamente, quella di annullamento. Il Ministero non ha dato esecuzione né alla decisione cautelare né a quella di merito, in quanto ha preferito attendere la pronuncia del Consiglio di Stato in grado di appello. Dopo che il Consiglio di Stato ha confermato la decisione del Tar, la società Emilia S.p.A., subentrata alla Set, ha convenuto il Ministero davanti al Tribunale di Milano chiedendone la condanna al risarcimento del danno per essere stata illegittimamente privata dall’esercizio dell’attività di riscossione delle imposte. La domanda, rigettata dal Tribunale, è stata accolta dalla Corte di Appello di Milano, che ha condannato il Ministero a pagare alla società , a titolo di risarcimento del danno, la somma di oltre lire 1.200.000.000. La Corte ha ritenuto che pur trattandosi di lesione di interesse legittimo e non di un diritto, l’Amministrazione era tenuta al risarcimento del danno, giacché l’annullamento del provvedimento amministrativo di esclusione della Società Set denotava un comportamento contrario alle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, e come tale quanto meno colposo. Il Ministero ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Appello per vizi di motivazione e violazione di legge; in particolare ha sostenuto che l’annullamento, da parte del giudice amministrativo, del provvedimento impugnato, non era sufficiente a quantificare la successiva condanna al risarcimento del danno.
            La Suprema Corte (Sezione Terza Civile n. 20358 del 21 ottobre 2005, Pres. Preden, Rel. Di Nanni) ha rigettato il ricorso. L’imputazione della responsabilità risarcitoria alla pubblica amministrazione – ha affermato la Corte – non può avvenire sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità dell’azione amministrativa, poiché il giudice ordinario, davanti al quale si svolge il giudizio risarcitorio, deve svolgere una penetrante indagine, non limitata al solo accertamento dell’illegittimità del provvedimento in relazione alla normativa ad esso applicabile, estesa alla valutazione della colpa dell’amministrazione. Questa colpa è configurabile quando l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo siano avvenute in violazione delle regole di imparziabilità, di correttezza e di buona amministrazione, alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, come limiti esterni alla discrezionalità; il che implica interrogarsi sul ruolo che il provvedimento (dichiarato illegittimo) assume ai fini della soggezione dell’amministrazione al giudizio di responsabilità.
            Nella fattispecie – ha osservato la Corte – l’indagine sulla colpa dell’Amministrazione delle finanze è stata compiuta nella sentenza impugnata. Questa, con la lunga esposizione della cronistoria dei fatti, ha reso evidente il comportamento non imparziale della pubblica amministrazione, la quale, dopo i primi provvedimenti cautelari del giudice amministrativo favorevoli all’attrice, ha perseverato nel precedente atteggiamento di mantenere la nomina di soggetti diversi dagli aventi diritto nella riscossione dei tributi, concorrendo a determinare il danno dalla Set, consistente nella perdita dei risultati economici dell’attività che avrebbe potuto svolgere nell’intero periodo transitorio. La valutazione compiuta – ha affermato la Cassazione – è completa e comporta il rigetto del motivo di ricorso, giacché la Corte di  Appello ha individuato l’elemento soggettivo dell’illecito nella colposa violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, riferite all’inottemperanza ad ordinanze di sospensione emesse dal giudice amministrativo ed alla tardiva ottemperanza al giudicato amministrativo.
            Invero, la scelta del Ministero di voler attendere la decisione finale del Consiglio di Stato sulle impugnazioni proposte, in sé legittima – ha concluso la Corte – comportava in ogni caso l’accettazione del rischio da parte dell’impugnante della conferma della precedente decisione, come si è puntualmente verificato nella situazione data, e del conseguente inadempimento dell’obbligo di tenere un comportamento imparziale, corretto ed ispirato ai principi di buona amministrazione.
 


La regola della licenziabilità “ad nutum” dei dirigenti è applicabile solo a coloro che abbiano una posizione verticistica – Non ai dirigenti minori – La regola della licenziabilità “ad nutum” dei dirigenti, desumibile dall’art. 10 della Legge n. 604 del 1966, è applicabile solo al dirigente in posizione verticistica, che, nell’ambito dell’azienda, abbia un ruolo caratterizzato dall’ampiezza del potere gestorio, tanto da poter essere definito un vero e proprio “alter ego” dell’imprenditore, in quanto preposto all’intera azienda o ad un ramo o servizio di particolare rilevanza, in posizione di sostanziale autonomia, tale da influenzare l’andamento e le scelte dell’attività aziendale, sia al suo interno che nei rapporti con i terzi.
            Ne consegue che anche la esclusione delle connesse garanzie procedimentali dell’art. 7 vale solo per i dirigenti apicali, e non per i dirigenti minori. La giurisprudenza di legittimità è infatti consolidata nel senso che il principio della non applicabilità al rapporto di lavoro dei dirigenti delle garanzie procedimentali di cui all’art. 7 dello Statuto dei lavoratori (L. n. 300 del 1970) quali la preventiva contestazione per iscritto degli addebiti e la concessione di un termine a difesa, si riferisce solo al dirigente di azienda che si trovi in posizione apicale nell’ambito dell’impresa e sia munito di ampio potere gestorio; la procedura di cui all’art. 7 trova invece applicazione nei confronti del personale della media e bassa dirigenza. La regola della licenziabilità “ad nutum” dei dirigenti, desumibile dall’art. 10 della legge n. 604 del 1966 è applicabile solo al dirigente in posizione verticistica, che, nell’ambito dell’azienda, abbia un ruolo caratterizzato dall’ampiezza del potere gestorio, tanto da poter essere definito un vero e proprio “alter ego” dell’imprenditore, in quanto preposto all’intera azienda o ad un ramo o servizio di particolare rilevanza, in posizione di sostanziale autonomia, tale da influenzare l’andamento e le scelte dell’attività aziendale, sia al suo interno che nei rapporti con i terzi. Il giudizio diretto a stabilire se l’interessato appartiene al novero dei dirigenti di vertice dell’azienda e circa l’applicabilità o meno delle garanzie procedimentali di cui all’art. 7 legge n. 300 del 1970 involge accertamenti di fatto rimessi al giudice di merito.Una volta attribuita contrattualmente la qualifica di dirigente, si deve applicare il regime giuridico corrispondente: né le mansioni in concreto esercitate possono escludere i diritti derivanti dalla qualifica; né la eventuale dequalificazione, nulla ex art. 2103 cod. civ., può far degradare il dirigente a figura minore (Cassazione Sezione Lavoro n. 21673 dell’8 novembre 2005, Pres. Mileo, Rel. De Matteis).