Le note spese gonfiate dei dipendenti statali non sono falso in atto pubblico - Cassazione Penale, Sezione V, Sentenza n. 15271 del 22/04/2005

Truffa il reato da contestare: il lavoratore in questo caso non esprime la volonta’ della Pa ma attesta esclusivamente un suo interesse privato (al rimborso)

Non commette il reato di falso in atto pubblico il dipendente statale che gonfia la nota di rimborso spese delle missioni effettuate fuori sede: questo comportamento, indubbiamente scorretto, configura - piuttosto - il reato di truffa. Lo sottolinea la quinta sezione penale della Cassazione con la sentenza 15271/05 depositata il 22 aprile e qui integralmente leggibile tra gli allegati.
Per effetto di questo orientamento, sono state inaspettatamente "graziate" dalla Cassazione, Carmen D. e Emanuela B., due funzionarie dell'Inail processate perche’ "nella qualita’ di ispettrici avevano attestato e documentato, falsamente, spese di missione superiori a quelle effettivamente affrontate". Ad avviso della Suprema corte, le due imputate - condannate per falso in atti pubblici, nel settembre 2004, dalla Corte d'appello di Venezia - dovevano essere tratte a giudizio per truffa e non per falso, in quanto redigere la nota per ottenere il rimborso spese e’ un "atto privato" del pubblico dipendente che non c'entra niente con lo svolgimento del suo lavoro. Cosi’ le due donne - abituate a ricamare sulle fatture di ristoranti e alberghi - sono uscite "ripulite" da Piazza Cavour che ha annullato, senza rinvio, la loro condanna.
In particolare gli "ermellini" spiegano che "redige un atto privato il pubblico dipendente che, avendo effettivamente compiuto una missione fuori sede, richieda il rimborso delle spese sostenute per il trasferimento". "In questi casi infatti - prosegue la quinta sezione - il pubblico dipendente non esprime la volonta’ della Pa, ma rappresenta esclusivamente un suo interesse privato, senza attestare alcunche’ in ordine all'attivita’ della pubblica amministrazione". Per queste ragioni nella condotta dello statale che gonfia le ricevute risulta "configurabile" l'addebito di truffa ma non quello di falso perche’ "come e’ noto, la falsita’ ideologica in atti privati non e’ prevista come reato". In proposito i magistrati di legittimita’ affermano che "deve escludersi che il pubblico dipendente rediga atti pubblici quando non agisca neppure indirettamente per conto della pubblica amministrazione, ma operi solo come soggetto privato in rapporto contrattuale con la sua stessa amministrazione di appartenenza".
Di diverso avviso, invece, era stato il Sostituto procuratore generale Antonio Gialanella che si era espresso per il rigetto del ricorso.

 


 

 


A chi è già in pensione spettano sempre i contributi maternità

 

 

 

 

   
 
 
Anche se i periodi sono fuori dal rapporto di lavoro. Inpdap censurata dai giudici contabili

Illegittimo non riconoscere a coloro che sono già in pensione la contribuzione figurativa per i periodi di maternità che si sono svolti fuori dal rapporto di lavoro. Lo ha stabilito la sezione giurisdizionale della Corte dei conti con la sentenza 133/05 (depositata lo scorso 26 aprile e qui leggibile nei documenti correlati).
I giudici contabili hanno accolto il ricorso di una pensionata che si era vista negare dall'Istituto nazionale di previdenza dell'amministrazione pubblica (Inpdap) l'accredito dei periodi maternità relativo alla nascita della propria figlia poiché la donna era già in quiescenza. In particolare, l'ex dipendente pubblica sosteneva che il riconoscimento del beneficio previsto dall'articolo 25.2 del D.Lgs 151/01 spetterebbe a tutti i soggetti che possano far valere cinque anni di contribuzione, indipendentemente dal momento in cui la domanda è stata presentata.
La Corte dei conti, nell'accogliere il ricorso della pensionata, ha ritenuto illegittimo il comportamento dell'Inpdap che non riconosce a coloro che sono già in pensione il diritto di ottenere il beneficio del riconoscimento della contribuzione figurativa per i periodi di maternità svolti al di fuori di un rapporto di lavoro. Del resto, si pone in contrasto con la previsione dell'articolo 25.2 del D.Lgs 151/01 che afferma, invece, tutto il contrario.

 


 
IL DATORE DI LAVORO CHE CAGIONI AL DIPENDENTE UNA MALATTIA NEUROLOGICA IMPIEGANDOLO COSTANTEMENTE IN TURNO NOTTURNO, NONOSTANTE LA DIVERSA PRESCRIZIONE DELLA USL, PUO’ ESSERE CONDANNATO ANCHE AL RISARCIMENTO DEL DANNO MORALE – Per il reato di lesione personale colposa (Cassazione Sezione Lavoro n. 9535 del 5 maggio 2005, Pres. Ciciretti, Rel. Vigolo).
          Francesco L., dipendente della Securpol Vigilantes, impiegato esclusivamente in turno notturno, ha chiesto, producendo certificati medici, l’alternanza dei turni. Nel gennaio 1999 una visita medico-legale della competente commissione della USL di Arezzo ha accertato l’idoneità al lavoro del dipendente, in relazione alle sue condizioni psico-fisiche, a condizione di pari alternanza tra lavoro notturno e diurno. Questa prescrizione non è stata eseguita dall’azienda. Circa due anni dopo Francesco L. è stato licenziato per sopraggiunta totale inidoneità al lavoro. Egli ha chiesto al Tribunale di Arezzo di condannare la Securpol al risarcimento del danno alla salute, sostenendo che, per effetto dell’impiego esclusivamente in turno notturno, aveva subito lesioni permanenti, consistenti in cefalea muscolo-tensiva psicogena in un quadro di disturbo di ansia tendente alla cronicizzazione. Egli ha sostenuto che l’azienda si era resa inadempiente agli obblighi derivanti dall’art. 2087 c.c., secondo cui il datore di lavoro deve adottare ogni misura necessaria per la tutela della salute del dipendente. Il lavoratore ha anche chiesto la condanna della Securpol al risarcimento del danno morale, attribuendole il reato di lesioni colpose.
          Con sentenza del marzo 2001 il Tribunale di Arezzo, dopo avere disposto una consulenza tecnica medico-legale, ha condannato l’azienda al risarcimento del danno biologico in misura di lire 25 milioni e del danno morale in misura di lire 10 milioni. La Corte di Appello di Firenze ha ridotto l’importo del risarcimento del danno biologico  a euro 4000, in considerazione della ridotta permanenza in servizio del dipendente dal 1999, confermando per il resto la sentenza del Tribunale. La Securpol ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza impugnata, tra l’altro, per avere utilizzato come mezzo di prova una consulenza tecnica e per aver ravvisato la configurabilità di un reato.
          La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 9535 del 5 maggio 2005, Pres. Ciciretti, Rel. Vigolo) ha rigettato il ricorso. In seguito all’accertamento eseguito dalla Commissione della USL del 14 gennaio 1999 (idoneità a mansioni con rispetto dell’alternanza perfetta delle turnazioni notturne e diurne) – ha osservato la Corte – la datrice di lavoro ben avrebbe potuto e dovuto rappresentarsi la nocività del lavoro assegnato esclusivamente nelle ore notturne e avrebbe dovuto astenersi da siffatta prescrizione o, in caso di comprovata impossibilità, recedere dal rapporto (come in effetti si deduce essere poi avvenuto). La persistenza dell’adibizione costante a turni notturni, che secondo accertamenti di merito correttamente svolti, aveva dato causa (resa prevedibile dalla certificazione USL) alla depressione del lavoratore – ha affermato la Corte – costituì indubbiamente un elemento di colpa, rilevante anche sotto il profilo penale (lesioni colpose), con seguente responsabilità civile della datrice di lavoro, anche per il danno morale. L’obbligo di tutela delle condizioni di lavoro, anche in relazione ad un singolo lavoratore, essendo posto a salvaguardia del bene primario e costituzionalmente garantito della salute – ha aggiunto la Corte – prevale sulla mera osservanza delle condizioni contrattuali individuali e collettive che regolano in via generale le modalità della prestazione lavorativa, così come prevalgono sulle esigenze organizzative del datore di lavoro.