Cassazione: no a multe ad automobilisti che contrattano con lucciole

Sono nulle le multe inflitte dai sindaci agli automobilisti che contrattano con le prostitute lungo la strada per ottenere prestazioni a pagamento. Lo ha sancito la Corte di Cassazione che, respingendo il ricorso del comune di Alessandria, avverte i sindaci che se vogliono evitare l'intralcio del traffico cittadino non possono ricorrere ad ordinanze speciali, ma devono fare sistemare dei cartelli stradali che impongano il ''divieto di sosta''. In nome della ''tutela della morale e del pubblico decoro'', aggiunge ancora piazza Cavour, i primi cittadini non possono nemmeno sostenere di ricorrere alle ordinanze 'ad hoc' in quanto manca ''un segnale tipicizzato nel codice della strada che sia posto a salvaguardare la tutela della morale e del pubblico decoro''. Basta ricorrere al 'divieto di sosta' senza bisogno alcuno di ''segnali non tipicizzati''.

(Data: 17/10/2004 - Autore: Adnkronos)
 

 
 
 

Il reato di estorsione puo’ venirsi a configurare anche inducendo il lavoratore ad accettare un accordo che disponga una disciplina peggiore rispetto a quella dovuta
Cassazione Sez. Penale 11.02.2002 n.5426
IL REATO DI ESTORSIONE PUO’ VENIRSI A CONFIGURARE ANCHE INDUCENDO IL LAVORATORE AD ACCETTARE UN ACCORDO CHE DISPONGA UNA DISCIPLINA PEGGIORE RISPETTO A QUELLA DOVUTA E MINACCIANDO IMPLICITAMENTE CHE NEL CASO IN CUI LA PROPOSTA NON VENGA ACCETTATA RIMARRA’ SENZA OCCUPAZIONE.
(Cassazione Sez. Penale n. 5426, 11 febbraio 2002).

FATTO: L’indagine svolta dalla Procura di Catanzaro era finalizzata all’accertamento della responsabilità penale di 14 persone. L’attività di indagine era diretta ad accertare l’esistenza di minacce estorsive, che costringevano i dipendenti delle imprese di pulizie ad accettare trattamenti retributivi peggiori rispetto a quelli dovuti per legge. In caso di mancata accettazione delle condizioni imposte era loro preclusa la possibilità di essere assunti.

DIRITTO: Tralasciando gli aspetti processuali penalistici, è interessante osservare il ricorso alla corte di Cassazione proposto dal Procuratore della Repubblica, che richiedeva che fosse valutato l’accordo intercorso tra il datore di lavoro e il dipendente. Secondo l’imprenditore vi era stato un accordo verbale tra le parti per recepire una retribuzione non commisurata alle effettive ore lavorate. Il Procuratore, da parte sua riteneva che questo "accordo" non potesse essere valutato come un contratto, infatti il lavoratore era stato indotto ad accettare le condizioni sfavorevoli anche perché intimorito dalla posizione gerarchicamente superiore del datore di lavoro e avendo anche un timore reverenziale nei confronti di costui e dalle conseguenze inevitabili che si sarebbero prodotte.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso, motivando la propria decisione con la giurisprudenza prodotta negli anni per l’istituto dell’estorsione. La Corte ha ritenuto che l’estorsione si configura quando si presentino circostanze oggettive, come l’ingiustizia della pretesa (in questo caso configurabile), la personalità gerarchicamente superiore (configurabile in questo caso) e dal punto di vista della vittima la soggezione a cui è sottoposta vista le circostanze intimidatorie.
Nella fattispecie concreta la Corte ha ritenuto che la sussistenza di un eventuale accordo contrattuale, non esclude la sussistenza del reato di estorsione, infatti può essere celata una minaccia ingiusta, che tenda a far si di condizionare la volontà del lavoratore che per non perdere la possibilità lavorativa accetta condizioni inique.
 
 
 
 

 
Danno da dequalificazione professionale
Articolo del Prof. Sergio Sabetta


Recentemente la Cassazione con pronuncia n. 10157 del 26/5/2004 – Sez. Lavoro è intervenuta con ampia motivazione sulla individuazione dell’onere della prova e sulla quantificazione del danno da dequalificazione rispetto alle altre varie ipotesi di danno non patrimoniale.
La Corte richiama la sua consolidata giurisprudenza ( Cass. n. 13299/92 e n. 11727/99 ) nella individuazione della fattispecie in esame. L’assegnazione di un lavoratore ad un nuovo posto di minore qualificazione rispetto a quello anteriore, dequalificazione da individuarsi sia nell’impoverimento del contenuto dei compiti, che delle risorse messe a disposizione, fino ad arrivare alla dignità della collocazione lavorativa fisica tanto da potere individuare in alcuni casi gli estremi del mobbing, senza peraltro essere disposto a seguito di esigenze ed aspetti tecnici - organizzativi emergenziali o comunque ricollegabili a qualità professionali del dipendente, “non solo viola lo specifico divieto dell’art. 2103 cc, ma si traduce in lesione di un diritto fondamentale del lavoratore avente ad oggetto la libera esplicazione garantita dagli artt.1 e 2 della Costituzione della sua personalità anche nel luogo di lavoro, con la conseguenza che il pregiudizio correlato a siffatta lesione, spiegandosi nella vita professionale e di relazione dell’interessato, ha una indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento, per la cui determinazione e liquidazione da parte del giudice, può trovare applicazione il criterio equitativo ex art. 1226 cc”.
La sentenza si riferisce al danno da dequalificazione professionale come danno all’immagine e perdita di chances ossia di aspettative, ricomprendendo questa figura insieme al danno biologico nella più ampia ipotesi di danno non patrimoniale.
Nel danno da dequalificazione si ha una lesione di un interesse costituzionalmente protetto dall’art. 2 Cost. relativo al diritto fondamentale del lavoratore “alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro secondo le mansioni e con la qualifica spettategli per legge o per contratto, con la conseguenza che i provvedimenti del datore di lavoro che illegittimamente ledono tale diritto vengono immancabilmente a ledere l’immagine professionale, la dignità personale e la vita di relazione del lavoratore, sia in tema di autostima e di eterostima nell’ambiente di lavoro ed in quello socio familiare, sia in termini di perdita di chances per futuri lavori di pari livello”.
Il danno non patrimoniale è comprensivo oltre che del danno biologico, sia del danno morale che della lesione di interessi costituzionalmente protetti inerenti alla persona e non correlati a fatto illecito ex art. 185 c.p. Mentre nel danno biologico vi è l’onere della prova mediante perizia medica la quale deve inoltre quantificare con precisi parametri medico – legali l’ammontare dello stesso, nel danno da dequalificazione professionale il suo accertamento comporta una liquidazione in via equitativa essendo difficilmente utilizzabili parametri economici o reddituali ( Cass. n. 8827/2003 e n. 8828 /2003 ).
Interessante la recente sentenza della Cassazione n. 7043 del 13/4/2004, Sez. lavoro, relativa all’ipotesi di danno all’immagine a seguito di revoca illegittima di un dirigente pubblico. In questa particolare ipotesi si ha un danno all’immagine come nel caso della dequalificazione professionale e come in quest’ultima ipotesi la Suprema Corte afferma categoricamente che non vi è bisogno di provare l’esistenza e l’entità del danno, in quanto la lesione è in re ipsa come conseguenza automatica della condotta illegittima dell’ente. Vi è sostanzialmente una conferma della linea interpretativa della Cassazione.
Se estendiamo la figura del danno da dequalificazione professionale all’ambito pubblico entriamo nella responsabilità da danno amministrativo. A tale riguardo acquista particolare interesse la pronuncia n. 1051/2003 della Sezione Giurisdizionale Veneto che ha individuato nella attribuzione a mansioni di staff senza dotazione di personale, con mezzi insufficienti ed in locali del tutto inadeguati allo status di dirigente un demansionamento verso compiti puramente impiegatizi di raccolta e analisi dati.
Viene osservato che la fase successiva al giudizio cautelare di reintegra venne gestita in modo inadeguato con il puro obiettivo di trovare una collocazione, ma non di assicurare “la puntuale esecuzione” dell’ordinanza di reintegra configurandosi pertanto una “grave violazione del dovere di adempiere con diligenza i doveri di servizio”. Si configura un comportamento qualificabile se non in termini di dolo diretto o indiretto, senz’altro come colpa grave, in quanto la circostanza del contenzioso in atto avrebbe dovuto indurre ad una attenta sorveglianza sulla gestione dell’intera vicenda. Né il Presidente della Giunta può esimersi, considerata la complessità dell’organizzazione dell’amministrazione provinciale, di occuparsi delle questioni di singoli dipendenti vista la rilevanza giudiziaria ed il delicato settore coinvolto, oltre alla circostanza che il disposto normativo dell’art. 36, comma 5-ter della L. 142/90 riserva proprio al vertice dell’amministrazione l’individuazione degli incarichi dirigenziali.
Non è altresì esente da responsabilità in termini di colpa grave il dirigente che posto a capo dell’area ha concretamente determinato il contenuto delle mansioni tecniche privando il dirigente a lui sottoposto di potere o iniziativa autonoma, svuotando quindi di contenuti l’ordine giudiziale di reintegra.
Riconosciuta la colpevolezza solidale del Presidente e del dirigente responsabile di area, il danno erariale viene quantificato nella differenza tra la retribuzione goduta dal dirigente oggetto di dequalificazione e quella teoricamente spettante per lo svolgimento dei compiti dequalificanti di fatto assegnati al dirigente stesso.
Il Collegio rigetta, all’opposto, la richiesta della Procura per il danno da disservizio in quanto sfornito di elementi di riscontro anche presuntivi, ma riconosce senza peraltro individuarli, un 20% di responsabilità per la mancata assegnazione di risorse e reperimento di locali idonei anche di altri uffici competenti rimasti pur tuttavia estranei al giudizio.
Deve comunque sottolinearsi che un danno da disservizio, difficilmente valutabile economicamente, vi è stato se si considera che fattori individuali, quali motivazione intrinseca e personalità, sono stati danneggiati oltre ad alcune variabili sociali, quali la job satisfaction ed il clima organizzativo, tutti fattori che influenzano l’efficacia individuale nell’organizzazione e di cui vi è difficoltà, una volta incrinati, nella loro ricostruzione. Il rapporto continuerà, pertanto, in una sfiducia reciproca difficilmente colmabile.
 

 


La coincidenza fra il capo di incolpazione previamente contestato e quello posto a base della sanzione disciplinare dev’essere completa – Perché il lavoratore possa esercitare il diritto di difesa – A norma dell’art. 7 cit., secondo comma St. Lav., il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l’addebito e senza averlo sentito a sua difesa. Il grado di precisione della contestazione è funzionale alla concreta possibilità di esercitare il diritto di difesa, onde è necessaria la completa coincidenza fra il capo d’incolpazione contenuto nella previa contestazione e quello posto a base della sanzione disciplinare (Cassazione Sezione Lavoro n. 16249 del 19 agosto 2004, Pres. Senese, Rel. Roselli).

 

 

Autovelox: Cassazione, multe valide anche se c'è un solo agente

Non ''spetta'' ai giudici dire ai comuni come si organizzano le pattuglie predisposte per dare le multe agli automobilisti che violano il Codice della Strada. Lo sottolinea la Corte di Cassazione che, in una sua sentenza, sancisce che sono valide anche le contravvenzioni accertate da autovelox pure se non sono contestate subito perche' sul posto c'e' un solo agente. Applicando questo principio, la Prima sezione civile della Cassazione ha ripristinato la multa ad un automobilista di Locri, Vincenzo P., che si era visto annullare la contravvenzione dal giudice di pace perche' l'infrazione non era stata contestata immediatamente a causa del fatto che sul posto era stato impiegato un solo agente. Per il giudice si sarebbe potuto intervenire subito con l'utilizzo di una seconda pattuglia. La multa era stata inflitta a Vincenzo P. nel settembre del 2000. La contestazione, pero', non fu immediata: sul posto, infatti, c'era un solo vigile che, proporio per questo, non aveva potuto bloccare l'automobilista. Di qui la decisione del giudice di pace di Locri (giugno 2001) di cancellare la multa. Secondo il giudice l'infrazione poteva essere contestata nell'immediato ''con l'utilizzo di una seconda pattuglia'' sul posto. Contro l'annullamento della multa si e' opposto in Cassazione il comune di S. Ilario Jonio facendo notare tra l'altro che la contestazione immediata era impossibile ''visto che era stato impiegato un solo agente''.

 


 

 

 

Cassazione: il doppio cognome sul campanello non prova la stabile convivenza more uxorio

La Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione (Sent. 17684/04) ha stabilito che il doppio cognome sul campanello di casa non basta per provare la stabile convivenza more uxorio della ex compagna. I Giudici del Palazzaccio hanno infatti precisato che il fatto di inserire il nominativo dell'ex coniuge sul campanello di casa del suo nuovo compagno, non dimostra il connesso miglioramento delle condizioni economiche della stessa e pertanto non può essere un valido motivo per la riduzione dellassegno di mantenimento. Con questa decisione la Corte ha accolto il ricorso di una donna separata che si era vista ridurre il mantenimento sulla base della stabile e accertata convivenza more uxorio determinata, per l'appunto, dal fatto che il nuovo compagno aveva esposto la targhetta con il suo nome sul campanello di casa.