Cassazione: Stop ai rischi causati da ambulanze e dai mezzi con lampeggiante

Anche chi e' alla guida di un'ambulanza o di qualunqe altro veicolo con lampeggiante blu non e' esente da responsabilita' se crea ''ingiustificate situazioni di rischio per altre persone''. A mettere lo stop alla guida a volte troppo imprudente dei veicoli impegnati in sevizi urgenti di istituto e' la Corte di Cassazione che che ha reso definitiva la condanna a quattro mesi di reclusione per il reato di omicidio colposo nei confronti di Michele M., colpevole di avere causato la morte di un passeggero Brabaro M., che viaggiava con lui in qualita' di passeggero su un autocarro militare guidato ad una velocita' ''superiore al limite imposto''. In questo caso si trattava di un mezzo militare, ma piu' in generale la Quarta sezione penale ha tratto occasione per ricordare ai mezzi con il lampeggiante che non sono esonerati ''dall'osservanza delle regole di comune prudenza e diligenza''

 


 

Cassazione: lui mantiene i figli maggiorenni? Niente assegno alla ex

Il marito che continua a mantenere i figli anche a quarant'anni a causa dei loro ''redditi esigui'' non e' piu' tenuto a mantenere la ex moglie. Lo ha sancito la Corte di Cassazione che ha respinto il ricorso di Teresa B., una 63enne di Napoli, proprietaria di un attico al Vomero che vendeva porta a porta prodotti di bellezza e aveva conseguito un diploma di maestra giardiniera. La signora, che all'epoca del divorzio avvenuto nel '96 aveva 57 anni, nel '99 si era vista rispondere positivamente dalla Cassazione alla sua richiesta di mantenimento, ma la Corte d'appello di Napoli, nel marzo del 2002, aveva respinto ogni pretesa di Teresa anche alla luce del fatto che il titolo di studio le garantiva diverse chance, oltre a quella di venditrice porta a porta. La Cassazione, cui la signora si e' rivolta per la seconda volta, ha bocciato defintivamente le sue pretese. A pesare sulla decisione di piazza Cavour il fatto che l'ex marito, Giuseppe M., impiegato delle Assicurazioni generali ormai in pensione, aveva totalmente a carico i tre figli di eta' compresa tra i 36 e i 40 anni che continuava a mantenere dati i loro ''redditi esigui''. La coppia si era separata nell'83 quando Teresa aveva 44 anni, il divorzio era arrivato tredici anni dopo, quando lei aveva 57 anni ma la Corte d'appello di Napoli, nel dire no al mantenimento della ex moglie, aveva considerato che ''in entrambi i momenti doveva considerarsi in eta' idonea a svolgere attivita' lavorativa non pesante e fondata sulla capacita' di persuasione e l'abilita' di venditrice, quale la vendita di prodotti di bellezza a privati''


 

L'ingiuria a un immigrato è sempre un reato anche se non si intendeva offendere

 
 
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE V SEZIONE PENALE
SENTENZA N. 13263 del 16 Marzo 2005

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con la sentenza impugnata la Corte d’Appello di Ancona ha confermato l’assoluzione di A. F., maresciallo dei carabinieri, dai reati di ingiuria eminaccia [1] ai danni di H. H, cui aveva addebitato la guida di un’autovettura nonostante la sospensione della patente.
I giudici del merito hanno rilevato che, avendo H. H. negato di essere alla guida dell’autovettura, condotta invece dall’amico H. W., effettivamente il sottufficiale aveva reagito a tali difese dandogli dello stronzo, come confermato da tre attendibili testimoni presenti ai fatti avvenuti in strada.
Ma hanno ritenuto che si dubbio l’intento offensivo dell’epiteto, utilizzato probabilmente per indurre l’interlocutore a desistere da contestazioni considerate canzonatorie, come incerta sia la prova delle ulteriori ingiurie e minacce cui il querelante sarebbe stato sottoposto anche in caserma.
Ricorre per cassazione H. H. e propone quattro motivi di impugnazione, anche agli effetti penali per quanto attiene al delitto di ingiuria.
Con il primo motivo il ricorrente lamenta la mancata assunzione del teste H. W., prova decisiva richiesta ai sensi dell’art. 507 c.p.p. con un motivo d’atto di appello apoditticamente disatteso.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione dell’art. 192 c.p.p. e vizio di motivazione della sentenza impugnata, lamentando che i giudici del merito, nell’escludere la prova di ulteriori ingiurie, abbiano implicitamente e contraddittoriamente riconosciuto la portata offensiva della qualificazione di stronzo certamente attribuita dall’imputato al ricorrente, ma ne abbiano escluso la rilevanza per un’immaginaria finalità preventiva contro eventuali sue contestazioni.
E aggiunge che altrettanto contraddittoria è la valutazione di inattendibilità del querelante fondata sull’assunto che le altre ingiurie riferite come da lui subite in strada non siano state confermate dai testimoni presenti.
Con il terzo motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione in ordine al delitto di minaccia, lamentando che i giudici del merito abbiano omesso di considerare adeguatamente le testimonianze dalle quali risultava che già dinanzi al ristorante l’imputato aveva minacciato H. H. di ammanettarlo e di sequestrargli la vettura, se non lo avesse seguito in caserma, mentre era evidente che nessun provvedimento coercitivo poteva essere adottato in ragione della contravvenzione stradale contestata.
Con il quarto motivo, infine, il ricorrente lamenta l’omessa pronuncia sulla domanda di risarcimento dei danni, cui la Corte di appello era tenuta nonostante la pronuncia assolutoria ai fini penali.
Il primo motivo del ricorso è infondato; il terzo e il quarto motivo sono inammissibili per manifesta infondatezza.
Quanto al primo motivo, infatti, è indiscusso nella giurisprudenza di questa Corte che la mancata assunzione di una prova decisiva, può essere dedotta solo in relazione ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta l’ammissione a norma dell’art. 495, secondo comma, c.p.p., sicché il motivo non potrà essere validamente invocato nel caso in cui il mezzo di prova sia stato sollecitato dalla parte attraverso l’invito al giudice di merito ad avvalersi dei poteri discrezionali di integrazione probatoria di cui all’art. 507 c.p.p. e da questi sia stato ritenuto non necessario ai fini della decisione (Cass., sez. VI, 12 ottobre 2000, Porcacchia, n. 218171), anche con una motivazione implicita (Cass., sez. V, 16 maggio 2000, Callegari, n. 217209).
Quanto al terzo motivo va rilevato che, come risulta dallo stesso ricorso, l’addebito di minaccia era stato contestato in relazione alla prospettazione di un ingiusto rimpatrio o della rovina personale, mentre non s’è mai neppure ipotizzata l’illegittimità dell’accompagnamento in caserma di H. H.
Quanto al quarto motivo, attinente sia all’imputazione di ingiuria sia quella di minaccia, va rilevato che, salva la deroga prevista dall’art. 578 c.p.p. per il caso di sopravvenuta estinzione del reato per amnistia o prescrizione, il giudice penale non può, neppure in sede di impugnazione, accogliere la domanda della parte civile senza affermazione della responsabilità penale dell’imputato, sia pure ai soli effetti civili (Cass., sez. V, 6 febbraio 2001, Maggio, n. 218905).
La giurisprudenza invocata dal ricorrente affermava solo che, in mancanza di impugnazione della parte civile, la domanda di condanna al risarcimento dei danni non potesse essere pronunciata nei confronti dell’imputato condannato ai fini penali in appello dopo un’assoluzione in primo grado (Cass., sez. VI, 8 aprile 2003, Montesani, n. 226039).
E questa giurisprudenza è stata poi superata con l’affermazione del principio di immanenza della costituzione di parte civile, sicché il giudice di appello, che su gravame del solo pubblico ministero condanni l’imputato assolto nel giudizio di primo grado, deve provvedere anche sulla domanda della parte civile che non abbia impugnato la decisione assolutoria (Cass., sez. un., 10 luglio 2002, Guadalupi, n. 222001).
Ma questo contrasto giurisprudenziale non ha alcuna rilevanza ai fini della questione posta dal ricorrente, dal momento che nel caso in esame la Corte di Appello ha escluso anche agli effetti civili la responsabilità dell’imputato e non poteva perciò condannarlo al risarcimento dei danni.
Inammissibili anch’esso nella parte in cui censura la valutazione delle prove, è fondato invece il secondo motivo del ricorso nella parte in cui denuncia la contraddittoria esclusione della rilevanza penale dell’epiteto di stronzo, certamente utilizzato da A. F. nei confronti di H. H.
I giudici d’appello riconoscono l’offensività di quell’epiteto reiteratamente profferito dell’imputato nei confronti del suo interlocutore, ma dubitano che fosse inteso effettivamente all’offesa, anche in considerazione dell’uso ormai abituale di espressioni simili nel contesto di accese discussioni, ipotizzando che il sottufficiale avesse solo l’intenzione di indurre H. H. a recedere dalle sue contestazioni in ordine alla contravvenzione addebitatagli.
Sennonché nella giurisprudenza di questa Corte è indiscusso che, in tema di delitti contro l’onore, non è richiesta la presenza di un animus iniuriandi vel diffamandi, ma appare sufficiente il dolo eventuale, in quanto basta che l’agente, consapevolmente, faccia uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, cioè adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere, senza un diretto riferimento alle intenzioni dell’agente (Cass., sez. V, 11 maggio 1999, Beri Riboli, n. 213631, Cass., sez. V, 29 maggio 1998, Gravina, n. 211479).
E nel caso in esame non v’è dubbio, per come risulta dalla stessa sentenza impugnata, che le parole e il complessivo atteggiamento dell’imputato furono avvertiti come offensivi dai testimoni presenti.
Sicché, quali che fossero le intenzioni di A. F., risulta scorretta la pronuncia dei giudici del merito, dubitativa in ordine al profilo soggettivo del fatto tipico.
La sentenza impugnata va pertanto annullata con rinvio limitatamente all’impugnazione di ingiuria.
PQM
La Corte annulla la sentenza impugnata limitatamente al delitto di ingiuria, con rinvio alla Corte d’appello di Perugia per nuovo esame.
Roma, 16 marzo 2005.
Depositata in Cancelleria il 12 aprile 2005

 

 

Cassazione: alle feste con moglie e amante, marito colpevole

Invitare l'amante a feste e incontri mondani ai quali prende parte anche la legittima consorte puo' costare l'addebito del matrimonio. Lo ha sancito la Corte di Cassazione che ha reso definitiva la colpa della separazione nei confronti di un marito mantovano, Marco T., 'reo' di ''avere invitato a spettacoli e a incontri'' mondani la nuova fiamma Elena, con la quale era poi andato a convivere dopo che il matrimonio con Ilaria N. si era logorato. In particolare, la Suprema Corte, dichiarando ''inammissibile'' il ricorso di Marco T. si e' allineata ai giudici di merito che avevano giudicato ''significativi'' ''tre incontri'' con l'amante ''avvenuti in pubblico e davanti ai rispettivi coniugi'' per dichiarare senza ombra di dubbio che se il matrimonio era fallito era per colpa del coniuge che andava alle feste con moglie e amante. Di diverso avviso era stato il Tribunale di Mantova che, preso atto della ''intollerabilita' della convivenza'' aveva dichiarato la separazione personali dei coniugi, considerando di poco conto le uscite a tre ai fini dell' addebito. Tesi ribaltata dalla Corte d'appello di Brescia che, nel maggio 2002, dichiarava Marco T. colpevole del fallimento matrimoniale, facendo notare che l'uomo non aveva fatto nulla per superare le difficolta' matrimoniali visto che la coppia si era rivolta ad un ''aiuto esterno psicologico per tentare di superare le difficolta' coniugali''.
 


 
Nulle le multe inflitte 'a distanza' in quanto non consentono una credibile valutazione dell’infrazione - Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 15324/2005

 

La Corte di Cassazione spezza una lancia in favore degli automobilisti tartassati dalle multe e sancisce che sono da stracciare le contravvenzioni inflitte dai vigili 'a distanza'. Una distanza superiore ai cento metri, osserva piazza Cavour, non puo’ ''consentire una credibile valutazione '', dunque, la multa finira’ nel cestino. Sulla base di questo principio, la Prima sezione civile (sentenza 15324/05) ha dichiarato nulle due contravvenzioni inflitte a Gennaro B., un automobilista di Bressanone che si era visto arrivare a casa tre multe relative ad altrettante violazioni del Codice della strada commesse il 21 dicembre 2000.

Nel verbale redatto dalla polizia municipale del luogo, si contestava al signor Gennaro di avere oltrepassato un incrocio malgrado il semaforo rosso, di avere effettuato il sorpasso di altri veicoli lenti o in lento movimento portandosi nella parte sinistra della carreggiata, e di non avere regolato la velocita’ in prossimita’ dell'incrocio. Tutte infrazioni del Codice della strada che prevedono una sanzione, ma che sono state inflitte da una distanza di circa 150 metri. Il caso e’ finito cosi’ davanti al Giudice di Pace di Bressanone che, nel maggio 2001, convalidava la multa all'automobilista per quel che riguarda il passaggio dell'incrocio nonostante il rosso, mentre annullava le altre due contravvenzioni sul rilievo perche’ ''dalla posizione in cui l'agente si trovava '', circa 150 metri, sicuramente ''aveva potuto accertare che l'attraversamento era avvenuto nel momento dell'interdizione'', ma la distanza dall'incrocio ''era tale da non consentire una credibile valutazione ''. Il comune di Bressanone ha presentato ricorso in Cassazione, facendo notare che era ''contraddittorio ritenere il vigile attendibile per una infrazione e non per le altre due ''. Ma la Suprema Corte ha respinto il ricorso del comune poiche’ ''e’ probabile che il vigile abbia potuto osservare soltanto la parte finale della manovra di sorpasso effettuata'' dall'automobilista ''ricevendo l'impressione di una velocita’ eccessiva e di un sorpasso irregolare'', la distanza, secondo gli 'ermellini' era tale da ''non consentire una credibile valutazione''