INVERSIONE DI ROTTA DELLA SUPREMA CORTE IN MATERIA DI CONCORSI INTERNI NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Affermata la giurisdizione del giudice amministrativo (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 15403 del 15 ottobre 2003, Pres. Carbone, Rel. Prestipino).
            Guido G., dipendente del Ministero delle Finanze con qualifica di direttore tributario, ha partecipato al concorso interno per titoli e colloqui indetto con decreto ministeriale del 19 gennaio 1993 per l’assegnazione di 999 posti di primo dirigente nel ruolo amministrativo. Esaurite le operazioni concorsuali, egli è stato collocato al 1.054° posto della graduatoria perché gli è stato riconosciuto un periodo di servizio inferiore a quello effettivo; pertanto ha promosso nei confronti del Ministero un giudizio davanti al Tribunale di Prato, diretto ad ottenere l’accertamento del suo diritto ad essere collocato al 976° posto, con conseguente attribuzione del posto di primo dirigente. Il Ministero delle Finanze ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice ordinario. Il Tribunale ha disatteso l’eccezione ed ha accolto la domanda. Questa decisione è stata confermata dalla Corte di Appello di Firenze. Il Ministero ha proposto ricorso per cassazione sostenendo che Guido G. avrebbe dovuto rivolgersi al Tribunale Amministrativo Regionale e chiedendo l’annullamento della decisione della Corte di Appello per difetto di giurisdizione.
            La Suprema Corte (Sezioni Unite Civili n. 15403 del 15 ottobre 2003, Pres. Carbone, Rel. Prestipino) ha accolto il ricorso, cambiando il suo precedente orientamento in materia, secondo cui, in base all’art. 63 del decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165, la giurisdizione del giudice amministrativo doveva ritenersi limitata ai concorsi per assunzioni, mentre la materia dei concorsi interni per promozioni doveva ritenersi appartenente alla giurisdizione del giudice ordinario.
            Il ripensamento della Suprema Corte è stato motivato con riferimento alla giurisprudenza, in materia, della Corte Costituzionale che, in particolare con le sentenze n. 1 del 1999, n. 194 del 2002, n. 218 del 2002 e n. 373 del 2002 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di varie disposizioni di legge (alcune delle quali relative ai corsi-concorso per la riqualificazione del personale del Ministero delle Finanze: art. 3, commi, 205, 206 e 207 l. 28 dicembre 1995 n. 549 e successive modificazioni) nella parte in cui le stesse prevedevano il passaggio a fasce funzionali superiori "in deroga alla regola del pubblico concorso" o comunque non prevedevano "alcun criterio selettivo", ovvero riservavano, esclusivamente o in maniera ritenuta eccessiva, al personale interno l'accesso alla qualifica superiore. La stessa Corte Costituzionale ha sottolineato che la previsione non già di un concorso pubblico con riserva dei posti, bensì di un concorso interno, in quanto riservato ai dipendenti dell'amministrazione per una percentuale dei posti disponibili particolarmente elevata, appare irragionevole e si pone in contrasto con gli artt. 3, 51 e 97 della Costituzione (sentenze 4 gennaio 1999 n. 1, 16 maggio 2002 n. 194, 29 maggio 2002 n. 218 e 23 luglio 2002 n. 373). A tali principi – ha osservato la Cassazione – si è ispirata la medesima Corte Costituzionale nel motivare l'ordinanza n. 2 del 4 gennaio 2001, con la quale è stata dichiarata la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 68 d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29 e successive modificazioni (ora art. 63 d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165). In tale ordinanza la Corte, nel fornire la sua interpretazione della norma di legge, ha affermato che la procedura selettiva diretta all'accesso ad una qualifica superiore - e riservata sia al personale interno all'amministrazione, sia a candidati esterni - integra "una vera e propria procedura concorsuale di assunzione nella qualifica indicata nel bando".
            Alla luce dell'intero quadro normativo, come deriva, soprattutto, dalle sentenze della Corte Costituzionale che si sono succedute nel tempo – ha affermato la Suprema Corte – il precedente indirizzo giurisprudenziale deve essere sottoposto ad una necessaria rimeditazione. Deve infatti applicarsi il principio secondo cui, nel rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, l'accesso del personale dipendente ad un'area o fascia funzionale superiore deve avvenire per mezzo di una pubblica selezione, comunque denominata ma costituente, in definitiva, un pubblico concorso al quale, di norma, deve essere consentita anche la partecipazione di candidati esterni. Pertanto deve ritenersi – ha osservato la Corte – che il quarto comma dell'art. 63 d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, quando riserva alla giurisdizione del giudice amministrativo "le controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni", faccia riferimento non solo alle procedure concorsuali strumentali alla costituzione, per la prima volta, del rapporto di lavoro, ma anche alle prove selettive dirette a permettere l'accesso del personale già assunto ad una fascia o area superiore; il termine "assunzione", d'altra parte, deve essere correlato alla qualifica che il candidato tende a conseguire e non all'ingresso iniziale nella pianta organica del personale, dal momento che, oltre tutto, l'accesso nell'area superiore di personale interno od esterno implica, esso stesso, un ampliamento della pianta organica. Nel caso in esame – ha rilevato la Corte – il concorso al quale ha partecipato Guido G. riguarda l'accesso ad uno dei novecenovantanove posti della qualifica di primo dirigente del ruolo amministrativo; pertanto, trattandosi di un'area diversa (superiore) a quella di appartenenza dei candidati interni ed essendo stata dal G. denunciata l'illegittimità della graduatoria e non già un atto a questa successivo, la controversia deve essere decisa dal giudice amministrativo. Pertanto le Sezioni Unite hanno dichiarato la giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo, cassando senza rinvio la sentenza della Corte di Appello di Firenze.

 
 
 



La determinazione del risarcimento del danno da dequalificazione può avvenire in via equitativa, anche in mancanza di specifici elementi di prova – Con riferimento al pregiudizio risentito dal lavoratore nella vita professionale e di relazione – Dalla illegittima attribuzione ad un lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle assegnategli al momento dell’assunzione può derivare non solo la violazione dell’art. 2103 cod. civ., ma anche la violazione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, da cui deriva il diritto dell’interessato al risarcimento del danno patrimoniale conseguente al pregiudizio risentito nella vita professionale e di relazione e la cui determinazione può avvenire in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., anche in mancanza di uno specifico elemento di prova da parte del danneggiato. La liquidazione può essere operata in base all’apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi alla natura, all’entità e alla durata del demansionamento, nonché alle altre circostanze del caso concreto (Cassazione Sezione Lavoro n. 12553 del 27 agosto 2003, Pres. Senese, Rel. D’Agostino).
 

 



Anche la professionalità del dirigente apicale è tutelata dall’art. 2103 cod. civ. – I parametri valutativi non sono però gli stessi applicati per gli altri lavoratori dipendenti L’art. 2103 cod. civ. tutela la professionalità dei lavoratori subordinati. E’ indubbio che detta disposizione debba trovare applicazione anche con riferimento agli alti dirigenti, quelli c.d. apicali, cui vengono dall'imprenditore rimessi compiti di rilevante importanza nell'ambito della gestione dell'impresa, per cui si riscontra una violazione del dettato codicistico allorquando, ad esempio, si rinvenga una effettiva lesione alla professionalità del dirigente in ragione di una perdurante ed ingiustificata sua inattività, alla quale lo si costringa, o allorquando gli vengano assegnati nuovi compiti, che richiedano doti professionali, capacità di iniziativa e spazi di autonomia e di responsabilità ridotti rispetto alle precedenti mansioni. La comparazione tra vecchie e nuove mansioni al fine di individuare eventuali violazioni dell'art. 2103 c.c. non può, però, farsi - proprio in relazione alla importanza e rilevanza dei compiti del dirigente ed alla posizione, assunta in molti casi, di vero e proprio alter ego dell'imprenditore - alla stregua degli stessi parametri valutativi da adottare con riferimento a tutti gli altri lavoratori dipendenti. Invero, a prescindere dalla considerazione che almeno per i c.d. dirigenti apicali non è prospettabile la possibilità di acquisire "mansioni corrispondenti" ad una categoria superiore - eventualità cui fa, invece, espresso riferimento il suddetto articolo 2103 – va poi evidenziato come il criterio dato dalla “equivalenza” delle mansioni, indicato dalla suddetta norma codicistica, va applicato ai dirigenti con una flessibilità ben maggiore rispetto a quella utilizzabile in tutti gli altri casi, non  potendosi basare il raffronto comparatistico tra mansioni su elementi di carattere squisitamente oggettivo e su valutazioni parziali e segmentate ad ogni singolo settore dell’azienda, e trascurando, del tutto, l’importanza ai fini produttivi e strategica che l’imprenditore, nell’esercizio dei suoi poteri di iniziativa economica, assegna ai vari comparti della sua azienda e non potendosi, infine, neanche sottovalutare l’elemento fiduciario caratterizzate il rapporto lavorativo in oggetto. Tutto ciò può indurre l’imprenditore a scegliere i dirigenti più dotati professionalmente per farli presiedere ad aree e settori dell’azienda che presentino un giro di affari ridotto in ragione di una perdurante stato di loro “sofferenza” e, quindi, si presentino abbisognevoli di maggiore attenzione e di più accentuate capacità per essere recuperati alla produttività (Cassazione Sezione Lavoro n. 12365 del 22 agosto 2003, Pres. Sciarelli, Rel. Vidiri).
  
 


CHI ABUSA DI UN DIRITTO E’ TENUTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO – Per violazione dell’obbligo di eseguire il contratto secondo buona fede (Cassazione Sezione Prima Civile n. 15482 del 18 ottobre 2003, Pres. Genghini, Rel. Di Amato).
            La s.r.l. Fratelli D. e l’imprenditore Prospero D., operanti nel settore dello zucchero, in concorrenza tra loro, hanno deciso di por termine alla competizione costituendo la s.r.l. Derizuccheri avente ad oggetto il commercio all’ingrosso dello zucchero e concordando la fornitura alla medesima di prestabiliti quantitativi di tale merce. Il contratto di fornitura aveva durata di un anno rinnovabile in mancanza di disdetta da comunicarsi sei mesi prima della scadenza. Prospero D. ha comunicato la disdetta sei mesi dopo aver firmato il contratto e senza avere dato inizio alla fornitura. La s.r.l. Fratelli D. ha chiesto al Tribunale di Patti di condannare Prospero D. al risarcimento del danno per avere impedito il funzionamento della s.r.l. Derizuccheri tenendo un comportamento contrario al principio di buona fede che, in base all’art. 1375 cod. civ., deve essere rispettato nell’esecuzione del contratto. Prospero D. si è difeso sostenendo di avere esercitato il diritto di recesso previsto dal contratto. Sia il Tribunale di Patti che, in grado di appello, la Corte di Appello di Messina hanno ritenuto la domanda priva di fondamento, osservando che la disdetta era stata operata legittimamente da Prospero D. in quanto prevista da una clausola contrattuale. La s.r.l. Fratelli D. ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza della Corte d’ Appello di Roma per avere escluso la configurabilità, nel comportamento di Prospero D., di un abuso di diritto in violazione delle regole di buona fede.
            La Suprema Corte (Sezione Prima Civile n. 15482 del 18 ottobre 2003, Pres. Genghini, Rel. Di Amato), ha accolto il ricorso, rilevando che la Corte di Messina è incorsa in violazione di legge allorché ha escluso che l’imprenditore Prospero D. abbia tenuto un comportamento contrario alle regole di buona fede, limitandosi a rilevare che questi aveva esercitato un diritto contrattualmente previsto. Tale conclusione, infatti – ha osservato la Corte – sottintende l’erroneo convincimento secondo cui l'esercizio del diritto non possa mai essere contrario a buona fede e non possa mai dare luogo a responsabilità da parte di chi abusa del proprio diritto. La Corte di merito – ha rilevato la Cassazione – esclude così implicitamente la stessa ammissibilità della figura dell'abuso del diritto, sulla quale, viceversa, concorda l'orientamento largamente prevalente in dottrina, secondo cui nel nostro sistema legislativo è implicita una norma che reprime ogni forma di abuso del diritto, sia questo il diritto di proprietà o altro diritto soggettivo, reale o di credito. L'abuso del diritto consiste, secondo questa autorevole dottrina, nell'esercitare il diritto per realizzare interessi diversi da quelli per i quali esso è riconosciuto dall'ordinamento giuridico. Questa stessa nozione dell'abuso del diritto ha trovato eco anche nella giurisprudenza della Suprema Corte, che ammette come "in singoli casi ed in riferimento ai fondamentali precetti della buona fede (come regola di condotta) e della rispondenza dell'esercizio del diritto agli scopi etici e sociali per cui il diritto stesso viene riconosciuto e concesso dall'ordinamento giuridico positivo, l'uso anormale del diritto possa condurre il comportamento del singolo (nel caso concreto) fuori della sfera del diritto soggettivo medesimo e che quindi tale comportamento possa costituire un illecito, secondo le norme generali di diritto in materia" (Cass. 15 novembre 1960, n. 3040). Quanto, più specificamente, alla buona fede nell'esecuzione del contratto – ha osservato la Cassazione – è pacifico, in dottrina e in giurisprudenza, che l'obbligo, posto dall'art. 1375 cod. civ., di eseguire il contratto secondo buona fede, concorre a formare il contenuto legale del contratto, ai sensi dell'art. 1374; sicché la violazione del dovere di esecuzione secondo buona fede costituisce un inadempimento contrattuale. Specifica ipotesi di violazione dell'obbligo di buona fede nell'esecuzione del contratto viene considerata proprio l'abuso del diritto, individuato nel comportamento del contraente che esercita verso l'altro i diritti che gli derivano dalla legge o dal contratto per realizzare uno scopo diverso da quello cui questi diritti sono preordinati.
            Si deve pertanto affermare – ha concluso la Corte – il principio che, in relazione ad una pluralità di rapporti contrattuali tra loro collegati per la realizzazione di un’unica operazione economica (nella specie la regolamentazione della concorrenza attraverso la creazione di una nuova società e la previsione, a carico delle parti, dell’obbligo di rifornire la predetta società in misura predeterminata) la corrispondenza a buona fede dell’esercizio del diritto di recesso, contrattualmente previsto, nella specie per il contratto di fornitura, deve essere valutata nel complessivo contesto dei rapporti intercorrenti tra le parti, onde accertare se il recesso sia stato esercitato o  meno secondo modalità e tempi che non rispondono ad un interesse del titolare del diritto meritevole di tutela, ma soltanto allo scopo di recare danno all’altra parte, incidendo sulla condotta sostanziale che le parti sono obbligate a tenere per preservare il reciproco interesse all’esatto adempimento delle rispettive prestazioni.
            La Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata rinviando la causa, per nuovo esame, alla Corte di Appello di Catania. Il giudice di rinvio – ha affermato la Cassazione – dovrà valutare la legittimità del recesso di Prospero D., alla stregua del principio di buona fede, nel contesto del complesso dei rapporti intercorsi tra le parti ed accertare se il recesso stesso sia stato esercitato allo scopo di sciogliersi dal vincolo contrattuale di rifornire la nuova società ovvero ad un diverso scopo nel contesto di una condotta complessiva diretta ad impedire la realizzazione dei reciproci interessi delle parti come consacrati negli accordi contrattuali.


 

La lesione dell’integrità personale, con invalidità permanente, anche se produce danno biologico, non comporta necessariamente una diminuzione della capacità di produrre reddito – Onere della prova – In caso di evento lesivo dell’integrità personale il danno biologico e quello patrimoniale attengono a due distinte sfere di riferimento: il primo riguarda il cosiddetto danno alla salute e il secondo attiene alla capacità di produrre reddito. Ciò non significa peraltro che ad ogni evento lesivo dell’integrità personale debba seguire necessariamente la liquidazione del danno biologico e di quello patrimoniale. Tra lesione della salute e diminuzione della capacità di guadagno non sussiste, in fatti, alcun rigido automatismo. Con la conseguenza che in presenza di una lesione della salute, anche di non modesta entità, non può ritenersi ridotta in egual misura la capacità di produrre reddito, ma il soggetto leso ha sempre l’onere di allegare e provare, anche mediante presunzioni, che l’invalidità permanente abbia inciso sulla capacità di guadagno (Cassazione Sezione Terza Civile n. 15652 del 20 ottobre 2003 Pres. Duva, Rel. Manzo).