LEGGE recante "Norme in materia di incompatibilità dell'esercizio della professione di avvocato" - (testo approvato in via definitiva dalla Camera dei deputati il 5 novembre 2003, non ancora pubblicato nella G.U.).


ART. 1.

1. Le disposizioni di cui all'articolo 1, commi 56, 56-bis e 57, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, non si applicano all'iscrizione agli albi degli avvocati, per i quali restano fermi i limiti e i divieti di cui al regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, e successive modificazioni.

ART. 2.

1. I pubblici dipendenti che hanno ottenuto l'iscrizione all'albo degli avvocati successivamente alla data di entrata in vigore della legge 23 dicembre 1996, n. 662, e risultano ancora iscritti, possono optare per il mantenimento del rapporto di impiego, dandone comunicazione al consiglio dell'ordine presso il quale risultano iscritti, entro trentasei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge. In mancanza di comunicazione entro il termine previsto, i consigli degli ordini degli avvocati provvedono alla cancellazione di ufficio dell'iscritto al proprio albo.

2. Il pubblico dipendente, nell'ipotesi di cui al comma 1, ha diritto ad essere reintegrato nel rapporto di lavoro a tempo pieno.

3. Entro lo stesso termine di trentasei mesi di cui al comma 1, il pubblico dipendente può optare per la cessazione del rapporto di impiego e conseguentemente mantenere l'iscrizione all'albo degli avvocati.

4. Il dipendente pubblico part-time che ha esercitato l'opzione per la professione forense ai sensi della presente legge conserva per cinque anni il diritto alla riammissione in servizio a tempo pieno entro tre mesi dalla richiesta, purché non in soprannumero, nella qualifica ricoperta al momento dell'opzione presso l'Amministrazione di appartenenza. In tal caso l'anzianità resta sospesa per tutto il periodo di cessazione dal servizio e ricomincia a decorrere dalla data di riammissione.

ART. 3.

1. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale

 

 

Gazzetta Ufficiale N. 279 del 1 Dicembre 2003
 

LEGGE 25 novembre 2003, n.339

Norme in materia di incompatibilita' dell'esercizio della professione di avvocato.

La Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica hanno
approvato;
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Promulga
la seguente legge:
Art. 1.
1. Le disposizioni di cui all'articolo 1, commi 56, 56-bis e 57,
della legge 23 dicembre 1996, n. 662, non si applicano all'iscrizione
agli albi degli avvocati, per i quali restano fermi i limiti e i
divieti di cui al regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578,
convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, e
successive modificazioni.


Avvertenza:
Il testo delle note qui pubblicato e' stato redatto
dall'amministrazione competente per materia, ai sensi
dell'art. 10, comma 3, del testo unico delle disposizioni
sulla promulgazione delle leggi, sull'emanazione dei
decreti del Presidente della Repubblica e sulle
pubblicazioni ufficiali della Repubblica italiana,
approvato con D.P.R. 28 dicembre 1985, n. 1092, al solo
fine di facilitare la lettura delle disposizioni di legge
alle quali e' operato il rinvio. Restano invariati il
valore e l'efficacia degli atti legislativi qui trascritti.
Note all'art. 1:
- Si riporta il testo dell'art. 1, commi 56, 56-bis e
57, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di
razionalizzazione della finanza pubblica):
«56. Le disposizioni di cui all'art. 58, comma 1, del
decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive
modificazioni ed integrazioni, nonche' le disposizioni di
legge e di regolamento che vietano l'iscrizione in albi
professionali non si applicano ai dipendenti delle
pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo
parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50
per cento di quella a tempo pieno.
56-bis. Sono abrogate le disposizioni che vietano
l'iscrizione ad albi e l'esercizio di attivita'
professionali per i soggetti di cui al comma 56. Restano
ferme le altre disposizioni in materia di requisiti per
l'iscrizione ad albi professionali e per l'esercizio delle
relative attivita'. Ai dipendenti pubblici iscritti ad albi
professionali e che esercitino attivita' professionale non
possono essere conferiti incarichi professionali dalle
amministrazioni pubbliche; gli stessi dipendenti non
possono assumere il patrocinio in controversie nelle quali
sia parte una pubblica amministrazione.
57. Il rapporto di lavoro a tempo parziale puo' essere
costituito relativamente a tutti i profili professionali
appartenenti alle varie qualifiche o livelli dei dipendenti
delle pubbliche amministrazioni, ad esclusione del
personale militare, di quello delle Forze di polizia e del
Corpo nazionale dei vigili del fuoco.».
- Il regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578,
convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934,
n. 36, reca: «Ordinamento delle professioni di avvocato e
procuratore».

 

Art. 2.
1. I pubblici dipendenti che hanno ottenuto l'iscrizione all'albo
degli avvocati successivamente alla data di entrata in vigore della
legge 23 dicembre 1996, n. 662, e risultano ancora iscritti, possono
optare per il mantenimento del rapporto d'impiego, dandone
comunicazione al consiglio dell'ordine presso il quale risultano
iscritti, entro trentasei mesi dalla data di entrata in vigore della
presente legge. In mancanza di comunicazione entro il termine
previsto, i consigli degli ordini degli avvocati provvedono alla
cancellazione di ufficio dell'iscritto al proprio albo.
2. Il pubblico dipendente, nell'ipotesi di cui al comma 1, ha
diritto ad essere reintegrato nel rapporto di lavoro a tempo pieno.
3. Entro lo stesso termine di trentasei mesi di cui al comma 1, il
pubblico dipendente puo' optare per la cessazione del rapporto di
impiego e conseguentemente mantenere l'iscrizione all'albo degli
avvocati.
4. Il dipendente pubblico part-time che ha esercitato l'opzione per
la professione forense ai sensi della presente legge conserva per
cinque anni il diritto alla riammissione in servizio a tempo pieno
entro tre mesi dalla richiesta, purche' non in soprannumero, nella
qualifica ricoperta al momento dell'opzione presso l'Amministrazione
di appartenenza. In tal caso l'anzianita' resta sospesa per tutto il
periodo di cessazione dal servizio e ricomincia a decorrere dalla
data di riammissione.


Nota all'art. 2:
- Il titolo della legge 23 dicembre 1996, n. 662, e'
riportato nelle note all'art. 1.

 

Art. 3.
1. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello
della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.
La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sara' inserita
nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica
italiana. E' fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla
osservare come legge dello Stato.
Data a Roma, addi' 25 novembre 2003
CIAMPI
Berlusconi, Presidente del Consiglio
dei Ministri
Visto, il Guardasigilli: Castelli
LAVORI PREPARATORI
Camera dei deputati (atto n. 543):
Presentato dal on. Bonito ed altri il 13 giugno 2001.
Assegnato alla II commissione (Giustizia), in sede
referente, il 31 luglio 2001 con pareri delle commissioni I
e XI.
Esaminato dalla II commissione il 13 e 25 settembre
2001.
Nuovamente assegnato alla II commissione (Giustizia),
in sede legislativa, il 16 ottobre 2001 con pareri delle
commissioni I e XI.
Esaminato dalla II commissione il 16, 17 ottobre 2001 e
approvato il 18 ottobre 2001.
Senato della Repubblica (atto n. 762):
Assegnato alla 2ª commissione (Giustizia), in sede
referente, il 30 ottobre 2001 con pareri della commissione
1ª.
Esaminato dalla 2ª commissione il 20 novembre 2001 e 16
gennaio 2002.
Nuovamente assegnato alla 2ª commissione (Giustizia),
in sede deliberante il 19 febbraio 2002 con parere della 1ª
commissione (Affari costituzionali).
Esaminato dalla 2ª commissione il 26 febbraio 2002 e
approvato il 12 marzo 2002.
Camera dei deputati (atto n. 543-B):
Assegnato alla II commissione (Giustizia), in sede
referente, il 18 marzo 2002 con pareri delle commissioni
II, V e XI.
Esaminato dalla II commissione l'11 aprile 2002 e
20 giugno 2002.
Esaminato in aula il 3 novembre 2003 e approvato il
5 novembre 2003.

 

 

 

 


UN RITARDO DI QUATTRO MESI NELLA CONTESTAZIONE DELL’ADDEBITO DISCIPLINARE NON E’ GIUSTIFICABILE CON RIFERIMENTO ALLA COMPLESSITA’ DELL’ORGANIZZAZIONE AZIENDALE DEL DATORE DI LAVORO –
E neanche con la necessità di valutare la gravità dei fatti (Cassazione Sezione Lavoro n. 16754 del 7  novembre 2003, Pres. Senese, Rel. Balletti).
            Giovanni V. dipendente della Banca Commerciale Italiana con qualifica di funzionario e mansioni di vice direttore della filiale di Sassari, rappresentante sindacale del Sinfub, dopo avere ripetutamente chiesto alla direzione centrale di essere convocato per poter riferire doglianze in merito alla conduzione della filiale di Sassari, non ricevendo risposta, ha inviato alla stessa direzione, quattro comunicati rispettivamente in data 7, 13, 22 e 27 gennaio 1998, contenenti la denuncia di alcune irregolarità nella gestione del credito da lui attribuite al direttore della filiale cui era addetto. Nel febbraio 1998 egli è stato informato che la direzione centrale aveva accolto la richiesta di colloquio e fissato l’incontro a Milano per il 25 maggio. Svoltosi questo incontro, nel corso del quale sono stati trattati gli argomenti sollevati nei comunicati sindacali, Giovanni V. è stato ricevuto il giorno stesso dal capo del personale il quale, tenuto conto che egli stava per maturare l’anzianità utile per la pensione, gli ha suggerito di dimettersi, assicurando l’erogazione di un congruo incentivo. Poiché il funzionario ha rifiutato di dimettersi, il capo del personale gli ha fatto consegnare una lettera in pari data recante la contestazione dell’addebito disciplinare di avere usato in comunicati sindacali espressioni denigratorie nei confronti del direttore della Filiale di Sassari e di avere diffuso documenti riservati.  Dopo che il funzionario ha svolto le sue difese, dapprima per iscritto e successivamente in un colloquio con il capo del personale, la banca lo ha licenziato con lettera del 10 luglio 1998. Egli ha impugnato il licenziamento davanti al Pretore di Sassari sostenendo che gli addebiti gli erano stati contestati tardivamente, in violazione dell’art. 7 St. Lav. e che comunque il provvedimento doveva ritenersi ingiusto poiché diffondendo i comunicati, egli aveva correttamente svolto il suo incarico sindacale. Sia il Tribunale (succeduto al Pretore) che la Corte di Appello di Sassari, hanno dichiarato legittimo il licenziamento. La Corte ha ritenuto che le accuse rivolte al direttore dalla filiale di Sassari non avessero natura sindacale e che il ritardo nella contestazione degli addebito fosse giustificato nella complessità dell’organizzazione della banca, della necessità di svolgere indagini e della esigenza che la reazione della banca fosse preceduta da una ponderata valutazione della vicenda. Il funzionario ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Cagliari, tra l’altro, per avere escluso che il licenziamento dovesse ritenersi nullo per tardività della contestazione degli addebiti.
            La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 16754 del 7 novembre 2003, Pres. Senese, Rel. Balletti) ha accolto il ricorso, affermando che la Corte di Cagliari è incorsa in errore allorché ha ritenuto giustificato il ritardo di circa quattro mesi fra la diffusione dei comunicati e la contestazione degli addebiti concernenti il contenuto, considerato denigratorio, dei medesimi. Le ragioni addotte dal Giudice di appello per introdurre la formula della “relatività del requisito dell’immediatezza” – ha affermato la Cassazione – sono palesemente errate atteso che: a) non è consentito che la ipotizzata complessità dell’organizzazione aziendale, con la conseguente pretesa necessità di coordinamento tra i vari uffici faccia ritardare indebitamente la contestazione disciplinare, non potendo esigenze collegate a c.d. maxi-organizzazioni aziendali pregiudicare il diritto del lavoratore a una pronta effettiva difesa perché, in caso contrario, la ipotesi di organigrammi con la previsione di una miriade di micro-strutture in una organizzazione verticistico-piramidale potrebbe far procrastinare ad libitum l’instaurazione di un procedimento disciplinare; b) all’atto della contestazione disciplinare non deve essere già previsto il tipo di sanzione da irrogare – e, soprattutto, non si deve ad initio decidere che la sanzione da irrogare sia quella massima espulsiva – sicché del tutto erroneamente la Corte territoriale ha affermato che, nel caso di licenziamento in tronco, la contestazione datoriale “giunge solo dopo una ponderata valutazione di tutti gli elementi della vicenda” (“ponderata valutazione” che, ovviamente, deve esservi in un momento successivo per verificare, al termine di un procedimento disciplinare regolare, se sia possibile infliggere la sanzione); c) poiché l’infrazione addebitata al lavoratore consisteva nel carattere “denigratorio” insito nelle comunicazioni portate a conoscenza della Banca in merito al comportamento del direttore della filiale di Sassari, tale qualificazione (sussistente fin dalla prima lettera-comunicato in data 7 gennaio 1998) comportava che la relativa valutazione fosse esegubile prima facie dalla Direzione Centrale della COMIT e, quindi, che il carattere denigratorio della lettera fosse immediatamente contestato, senza attendere che il dipendente incolpato potesse commettere altre infrazioni del genere. Non può dirsi osservato il canone dell’immediatezza – ha osservato la Corte – allorché il datore di lavoro, una volta acquisita la certezza dell’esistenza e della gravità dell’infrazione, ne rinvii la contestazione al fine di utilizzare l’eventuale reiterazione dell’illecito come elemento di maggiore gravità da porre a base di una più grave sanzione disciplinare o – come, nella specie, erroneamente ha ritenuto il giudice di appello – per avere giustificazioni da altro soggetto non inquisito, per avviare indagini interne di tipo ispettivo e per revocare “dimissioni volontarie con congruo incentivo”. Quest’ultimo episodio – ha concluso la Corte – connota l’obiettivo ritardo temporale della contestazione disciplinare di un’evidente ulteriore illegittimità in quanto tale comportamento datoriale si pone in assoluta violazione dei principi ex artt. 1175 e 1375 cod. civ. e, anche sotto tale profilo, viene a violare il principio qualificante il licenziamento per giusta causa.
 

 


Il lavoratore ha diritto alla promozione automatica per svolgimento di mansioni superiori anche se non in possesso del titolo di studio previsto dal contratto collettivo – In base all’art. 2103 cod. civ. – In base all’art. 2103 cod. civ. il lavoratore subordinato, nel caso di sua assegnazione a mansioni superiori ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diviene definitiva (ove non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto) dopo un periodo fissato dai contratti collettivi e comunque non superiore a tre mesi.
            La previsione da parte della disciplina collettiva del possesso di un titolo di studio per l’attribuzione di una determinata qualifica non impedisce che questa debba essere riconosciuta nel caso di esercizio di fatto delle corrispondenti mansioni, anche al lavoratore sfornito di detto titolo, salvo che si tratti di qualifiche comportanti mansioni per il cui svolgimento la legge richieda una determinata abilitazione professionale (Cassazione Sezione Lavoro n. 17158 del 13 novembre 2003, Pres. Senese, Rel. D’Agostino).
  

 


 

 

Per la determinazione del danno da dequalificazione può farsi riferimento alla perdita di opportunità di carriera, alla lesione dell’immagine, alla sofferenza fisio-psichica del lavoratore, all’elemento psicologico della condotta del datore di lavoro – In via equitativa – La prova del danno da dequalificazione può essere anche presuntiva. I criteri utilizzabili per un’adeguata valutazione, in via equitativa, del quantum del risarcimento da riconoscersi al lavoratore illegittimamente demansionato sono molteplici. Tra questi può considerarsi la perdita di opportunità di carriera, anche presso altre realtà produttive, specie nei casi di qualifiche a livello medio-alto; altro parametro potrebbe essere individuato nella posizione gerarchica perduta cui possono essere connessi il danno all’immagine e la sofferenza psico-fisica del lavoratore; l’entità del danno dipende anche dalla durata della dequalificazione professionale; ad influire sulla determinazione sia dell’an che del quantum del risarcimento può contribuire anche l’età del lavoratore; non privo di rilievo può essere anche l’elemento psicologico della condotta del datore di lavoro. Si tratta, in conclusione, di applicare i principi enunciati in via generale dagli artt. 1218, 1223, 1225, 1226 e 1227 cod. civ., rispettando il principio di proporzionalità fra comportamento illecito e sanzione. In questa direzione, utili strumenti di riferimento possono essere suggeriti al giudice dalla contrattazione collettiva – ove applicabile e ritualmente acquisita al processo – che, in certi settori, prevede l’istituzione di comitati paritetici, con funzioni di garanzia e prevenzione del conflitto (Cassazione Sezione Lavoro n. 16792 del 8 novembre 2003, Pres. Prestipino, Rel.Foglia).
 

 


 

 

IL RISARCIMENTO DEL DANNO DOVUTO AL VIAGGIATORE PER RITARDO DI UN TRENO DELLE FERROVIE DELLO STATO PUO’ ESSERE DETERMINATO DAL GIUDICE DI PACE ANCHE IN MISURA SUPERIORE AL COSTO DEL BIGLIETTO – Secondo equità (Cassazione Sezione Terza Civile n. 16945 del 11 novembre 2003, Pres. Sabatini, Rel. Chiarini).
            Nel marzo del 2000 Ada L. e Alessandra E. hanno convenuto dinanzi al Giudice di Pace di Roma la S.p.A. Ferrovie dello Stato affermando: 1) che in data 24 novembre 1999 erano salite a Roma Tiburtina, sul treno delle 7,30, per raggiungere l’aeroporto di Fiumicino, ove l’arrivo era previsto alle ore 8,18, ed imbarcarsi sull’aereo Alitalia Roma-Bruxelles delle ore 9,15; 2) che invece il treno era arrivato alla 8,56 e perciò esse avevano perso l’aereo, e, dovendo necessariamente andare a Bruxelles prima possibile, erano state costrette ad acquistare presso altra compagnia altri biglietti, pagati lire 591.000, nonché a trattenersi un giorno in più a Bruxelles. Pertanto esse hanno chiesto la condanna della convenuta al rimborso delle spese dei biglietti e al risarcimento degli ulteriori danni, oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi, da liquidare in via equitativa entro la complessiva somma di lire 2.000.000. La S.p.A. Ferrovie dello Stato ha eccepito di poter risarcire il danno soltanto nei limiti delle condizioni e tariffe per i trasporti delle persone sulle FF.SS. di cui al R.D.L. 1948/1934, convertito nella legge 911/1935 e successive modifiche, tra cui il D.L. 13.12.1956, artt. 11 e 12, a norma del quale in caso di ritardi od interruzioni del servizio, l’unico risarcimento riconoscibile è il rimborso totale o parziale del biglietto ferroviario. Il Giudice di Pace di Roma, con sentenza del 18 ottobre 2000, ha accolto parzialmente la domanda condannando la convenuta a rimborsare alle attrici il prezzo dei biglietti aerei nuovamente acquistati, oltre agli interessi legali dal 24 novembre 1999, in base alle seguenti considerazioni: 1) i biglietti Alitalia, acquistati in offerta promozionale, non erano rimborsabili; 2) le norme invocate dalla convenuta disciplinavano il trasporto con le FF.SS. prima della loro trasformazione in S.p.A. mentre il contratto era stato stipulato successivamente e quindi erano applicabili le norme del codice civile dettate nel caso di inadempimento contrattuale; 3) nella fattispecie il treno era una navetta che percorreva Roma-Tiburtina e l’aeroporto di Roma Fiumicino in tempi rapidi e puntuali, sì che di norma era affidabile; 4) perciò il ritardo di quaranta minuti era da ritenere eccezionale e dunque non era configurabile un concorso di colpa delle attrici per non aver lasciato un maggior intervallo di tempo tra l’orario di arrivo previsto a Fiumicino e la partenza dell’aereo. La S.p.A. Trenitalia ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione del Giudice di Pace per carenza o incongruenza della motivazione e sostenendo che pur essendo state privatizzate le Ferrovie dello Stato, il servizio da esse svolto è rimasto pubblico, con conseguente applicabilità nelle norme speciali sui limiti di responsabilità.
            La Suprema Corte (Sezione Terza Civile n. 16945 dell’11 novembre 2003, Pres. Sabatini, Rel. Chiarini) ha rigettato il ricorso. Nelle cause di valore non superiore a due milioni di lire – ha osservato la Corte – il Giudice di Pace ha il potere-dovere di pronunciare secondo equità (art. 113, secondo comma, nel testo risultante dall’art. 21 legge 21 dicembre 1991 n. 374), ossia deve necessariamente formulare la regola decisoria del caso concreto (c.d. equità formativa della regola del singolo caso ovvero sostitutiva della regola di diritto). Pertanto il giudice non ha l’obbligo né di individuare la norma giuridica sostanziale astrattamente applicabile, né di applicarla in concreto, e perciò non ha nessun obbligo di indicare le ragioni per cui intende discostarsene. Egli ha invece l’obbligo di rendere comprensibili il procedimento logico intuitivo seguito per la determinazione della regola equitativa. Nella fattispecie – ha affermato la Corte – la ratio decidendi del Giudice di Pace è resa palese dalla evidenziata natura privatistica dell’Ente Ferrovie dello Stato e dalla riscontrata eccezionalità del ritardo nell’esecuzione della prestazione da esso dovute in qualità di vettore; quindi la motivazione non è né mancante, né apparente, né viziata da contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili


Il pubblico impiegato può essere chiamato a rispondere davanti alla Corte dei Conti del danno non patrimoniale recato allo Stato – Per lesione di immagine – Deve essere affermata la giurisdizione della Corte dei Conti sull’azione di responsabilità per il danno recato all’immagine e al prestigio di un Ministero con comportamenti illeciti. Si tratta di un danno che, anche se non comporta una diminuzione patrimoniale diretta, è tuttavia suscettibile di una valutazione patrimoniale, sotto il profilo della spesa necessaria al ripristino del bene giuridico leso (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 17078 del 12 novembre 2003, Pres. Carbone, Rel. Marziale).