- La comunicazione di dati senza consenso non diventa sempre reato -

Cassazione Penale, Sezione III, Sentenza n. 5728 del 15/02/2005

La comunicazione di dati senza consenso non diventa sempre reato ROMA • Licenza di dare ai provider e mail e dati personali dei propri beniamini.
Lo ha sancito la Corte di Cassazione, che ha « annnullato senza rinvio » la sentenza con la quale il Tribunale aveva condannato a due mesi di reclusione ( pena sostituita con una pena pecuniaria di oltre duemila euro) un tifoso e ammiratore di una giocatrice della nazionale femminile di basket per avere « senza il consenso dell'interessata comunicato ad alcuni provider i dati personali » della sua beniamina, quali « le generalita’, l'indirizzo, i recapiti telefonici e di posta elettronica, incluso il codice fiscale a soggetti terzi, ed in particolare aprendo a suo nome un dominio internet e due indirizzi di posta elettronica » .
Per questi motivi l'uomo era stato condannato per violazione dell'articolo 35 della legge 675/ 1996. La Terza sezione penale, sentenza n.
5728 depostata ieri, contrariamente alle richieste della pubblica accusa che chiedeva la condanna del fan, ha annullato la sentenza impugnata, osservando che « la condotta contestata all'imputato e’ quella di avere comunicato ad alcuni provider senza consenso la generalita’, l'indirizzo e il numero telefonico. Dati che, sottolinea piazza Cavour, « sono reperibili da chiunque in pubblici registri, pubblici elenchi e siti internet » .
Inoltre, per la Cassazione, non si tratta neppure di comunicazioni soggette a notificazione, visto che sono state effettuate da una persona fisica e non da una societa’, comunque per finalita’ esclusivamente personali.
I dati soggetti a notificazione sono invece quelli genetici e in ogni caso idonei a rivelare la vita sessuale o la sfera psichica, oppure trattati con mezzi elettronici per definire il profilo e la personalita’ dell'interessato.


- Non c'è tolleranza della prostituzione per l'albergo che una volta sola non ha fermato le "squillo" -

Cassazione Penale, Sezione III, Sentenza n. 5455 del 14/02/2005

Non sussiste il reato per il gestore che chiude un occhio per una sera. E’ necessaria la'bitualita’ e la durata nel tempo, anche limitata ma apprezzabile

Non sussiste il reato di tolleranza della prostituzione a carico del gestore d'albergo che, per una sera, chiude un occhio - anzi, due - sul via vai delle ragazze con clienti nelle stanze del suo locale. Lo dice la terza sezione penale della Cassazione con la sentenza 5457/05 (depositata il 14 febbraio scorso). Con questo verdetto, infatti, la Suprema corte ha accolto in pieno il ricorso della proprietaria di un hotel di Milano contro la condanna a un anno e cinque mesi di reclusione inflittale - in base alla legge Merlin del 1958 - per aver tollerato la prostituzione abituale di due giovani donne dell'Est. In base a un controllo, effettuato "per diversi giorni" dagli agenti della Questura meneghina, era stato accertato che "la sola sera del 7 settembre 2000, tra le ore 21,10 e le 22,30, due prostitute si erano accompagnate con uomini diversi nell'albergo gestito dall'imputata, mentre la stessa era addetta alla ricezione". Per questo la donna era stata condannata. Ma la Cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata sottolineando che l'articolo tre della legge Merlin punisce chiunque essendo proprietario di un locale o una casa privata "vi tollera abitualmente la presenza di una o piu’ persone che, all'interno del locale stesso, si danno alla prostituzione". In proposito il Palazzaccio aggiunge che non integra "l'estremo della tolleranza abituale il consenso sporadico e saltuario all'uso dei locali, ma e’ necessario che il comportamento tollerante abbia una durata nel tempo, che puo’ essere anche limitata ma deve pur sempre presentare i connotati di apprezzabilita’ per denotare la reiterazione della permissivita’ colpevole". Sulla scia di queste precisazioni gli "ermellini" hanno concluso che "non sussiste" il fatto addebitato alla proprietaria dell'albergo in questione. In pratica una sola sera di tolleranza per l'andirivieni mercenario, non integra il reato perseguito dalla vecchia legge contro le "case chiuse".


- Legittimo porre in stato di fermo indagati che stanno per essere scarcerati -

Cassazione Penale, Sezione II, Sentenza n. 7082 del 23/02/2005

Nessuna disposizione, sottolineano gli ermellini, richiede espressamente che la persona indagata debba prima riacquistare la liberta’ per poter reiterare il provvedimento restrittivo

E’ possibile mettere in stato di fermo indagati per i quali sono state annullate le misure cautelari e il fermo puo’ scattare quando, per i reclusi, non si sono ancora aperte le porte del carcere. Lo afferma la Suprema corte esprimendo un orientamento suscettibile di essere adottato in situazioni come quelle dei presunti terroristi islamici scarcerati dal Gup milanese Forleo. Non a caso la pronuncia che sposa questo indirizzo nasce dal ricorso di un detenuto musulmano di provenienza extrauropea. In sostanza e’ possibile prorogare lo stato detentivo di chi viene scarcerato ed e’ ancora in cella, soprattutto quando sussiste il pericolo di fuga e si teme che l'identita’ del soggetto possa cambiare o non essere quella vera.
In proposito la Cassazione dice che "nessuna disposizione di legge vieta che, sussistendono i presupposti, sia emesso dal pubblico ministero un provvedimento di fermo, dopo che si sia esaurita, ovviamente per motivi esclusivamente formali, la vicenda relativa a un precedente titolo di custodia cautelare".
L'enunciazione e’ della II sezione penale della Cassazione, sentenza 7082/05 - depositata il 23 febbraio - che ha respinto il ricorso di un indagato per riciclaggio di nascita extracomunitaria. L'uomo aveva fatto reclamo a Piazza Cavour contro l'ordinanza del Gip del Tribunale di Milano che aveva ratificato lo stato di fermo, emesso dal Pm appena appreso che era stata annullata - per vizi di forma - la convalida della misura preventiva. Innanzi ai Supremi giudici, l'indagato ha contestato l'ordinanza impugnata sostenendo che il fermo non poteva essere emesso "sia perche’ tale provvedimento avrebbe avuto l'unica funzione di eludere gli effetti della liberazione, disposta dai giudici del riesame" e sia perche’ "il fermo presupporrebbe la liberta’ della persona da sottoporre ad esso, mentre egli era detenuto, sia pure per un titolo caducato".
Il fermo - dice la Cassazione non condividendo le critiche mosse - "e’ sempre possibile a condizione che ricorrano i tre presupposti previsti dall'articolo 384, comma 1 Cpp, e cioe’: a) che sussistano gravi indizi di colpevolezza a carico della persona sottoposta alle indagini; b) che sussistano, altresi’, elementi specifici, anche meramente indiziari, e anche in relazione all'impossibilita’ di identificare l'indiziato, in virtu’ dei quali si ritenga fondato il pericolo di fuga di tale persona; c) che si proceda per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a due anni e superiore nel massimo a sei anni, ovvero per un delitto concernente le armi da guerra o gli esplosivi".
Inoltre i magistrati di legittimita’ sottolineano che nessuna norma "richiede espressamente, come condizione per la reiterazione del fermo, il previo ripristino dello status libertatis della persona indagata". In conclusione il ricorso e’ stato rigettato.