IL GIUDICE ORDINARIO PUO’ RIMUOVERE GLI ATTI ANTISINDACALI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE In base all’art. 28 St. Lav. (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 1127 del 24 gennaio 2003, Pres. Carbone, Rel. Di Nanni).
         Nel caso di condotta antisindacale tenuta dalla pubblica amministrazione, il procedimento diretto ad ottenerne la repressione in base all’art. 28 Stat. Lav. deve essere in ogni caso promosso davanti al giudice ordinario.
         L’art. 63, terzo comma, del D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, confermando l’avvenuta privatizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, devolve al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, una cognizione incondizionata in materia di condotta antisindacale delle pubbliche amministrazioni. In coerenza con questi dati, l’art. 4 della legge 11 aprile 2000 n. 83 aveva già abrogato il sesto e settimo comma dell’art. 28 legge n. 300/1970, aggiunti con l’art. 6 della legge 12 giugno 1990 n. 146, con i quali era stabilito il frazionamento di tutela fra giudice ordinario e giudice amministrativo, correlata, la prima, a condotte lesive del solo sindacato e la seconda a quelle lesive, oltre che di interessi sindacali, di situazioni soggettive inerenti al pubblico impiego. Le riforme da ultimo intervenute non lasciano spazio neppure alla tesi che appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo la controversia nella quale sia chiesta anche la rimozione dei provvedimenti lesivi che investono la sfera dei singoli lavoratori. Nel nuovo sistema, infatti, anche l’atto antisindacale del datore di lavoro pubblico ha la connotazione di atto privatistico, omologo a quello scorretto del datore di lavoro privato, come tale suscettibile di cognizione da parte del giudice ordinario, anche se sia richiesta l’eliminazione dell’atto stesso e dei suoi effetti.

 


Il diritto alle ferie si estingue solo in caso di irragionevole rifiuto di ogni soluzione offerta – Che contemperi l’esigenza del riposo con il funzionamento dell’azienda - In base all’art. 2109 cod. civ. il lavoratore ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuito da fruire nel tempo che l’imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del dipendente. L’imprenditore deve preventivamente comunicare al prestatore di lavoro il periodo stabilito per il godimento delle ferie. Il diritto alle ferie o all’indennità sostitutiva di estingue soltanto in caso di irragionevole rifiuto del lavoratore di accettare per la sua fruizione, ogni soluzione, offerta dal datore di lavoro, in grado di contemperare il suo diritto al riposo annuale retribuito con le esigenze di funzionalità aziendali  (Cassazione Sezione Lavoro n. 2326 del 17 febbraio 2003, Pres. Ianniruberto, Rel. Foglia

 


 

Il diritto all’indennità di accompagnamento può essere riconosciuto anche nel caso di un bambino in tenera età - Per la necessità di una assistenza diversa da quella normale - L’indennità di accompagnamento può essere attribuita anche nel caso di un bambino di poco più di un anno. La situazione d’inabilità (impossibilità di deambulare senza l’aiuto di un accompagnatore o necessità di assistenza continua per impossibilità di compiere gli atti quotidiani della vita), necessaria per l’attribuzione dell’indennità di accompagnamento ex art. 1 legge n. 18 del 1980, può configurarsi anche con riguardo a bambini in tenera età, ancorché questi, per il solo fatto di essere tali, abbisognino comunque di assistenza. La legge, che attribuisce il diritto anche ai minori degli anni 18, non pone un limite minimo di età. Ai fini della sua applicazione, deve tenersi conto che detti bambini possono trovarsi in uno stato tale da comportare, per le condizioni patologiche del soggetto, la necessità di un’assistenza diversa, per forme e tempi di esplicazione, da quella occorrente ad un bambino sano (Cassazione Sezione Lavoro n. 1377 del 29 gennaio 2003, Pres. Dell’Anno, Rel. Giacalone).

  

 


NEL RAPPORTO DI FORMAZIONE E LAVORO, L’ADDESTRAMENTO NON PUO’ ESSERE LIMITATO ALLO SVOLGIMENTO DELLE MANSIONI TIPICHE DEL PROFILO PROFESSIONALE CON LA SUPERVISIONE DEL SUPERIORE GERARCHICO - I richiami rivolti al lavoratore in caso di errori non costituiscono attività formativa (Cassazione, Sezione Lavoro n. 1006 del 23 gennaio 2003, Pres. Mercurio, Rel. Morcavallo).

Luigi D. è stato assunto alle dipendenze della S.r.l. DIMO con contratto di formazione e lavoro di durata biennale, che prevedeva l’inquadramento iniziale nel sesto livello e il raggiungimento finale del quinto livello come preparatore di commissioni per la spedizione della merce. Scaduto il biennio, l’azienda ha posto termine al rapporto. Il lavoratore ha chiesto al Pretore di Latina di accertare l’esistenza di un normale rapporto di lavoro, di dichiarare la nullità del termine apposto al contratto e di condannare l’azienda a reintegrarlo nel suo posto e a risarcirgli i danni. Egli ha sostenuto che non gli era stato consegnato il progetto di formazione e che nei suoi confronti non era stata svolta alcuna attività formativa. Il Pretore, dopo aver sentito alcuni testimoni, ha rigettato la domanda, in quanto ha ritenuto che tra le parti si sia effettivamente svolto un rapporto di formazione e lavoro. Questa decisione è stata riformata, in grado di appello, dal Tribunale di Latina che ha accolto le domande proposte dal lavoratore, osservando che la mancata consegna del progetto di formazione rilevava, nella specie, non tanto come autonoma causa di invalidità, quanto come circostanza che aveva impedito il controllo sul concreto svolgimento dell’attività formativa, avente ad oggetto l’acquisizione dell’esperienza necessaria per svolgere le mansioni di preparatore di commissioni per la spedizione della merce; dalla prova testimoniale era emerso che l’inserimento del lavoratore nella posizione cui era preordinata la formazione era stata immediata e non graduale, mentre l’iniziale addestramento gli era stato impartito non dal titolare o dai suoi più diretti collaboratori, come previsto in contratto, bensì da un operaio di pari livello professionale che esercitava le medesime mansioni; l’espletamento del programma formativo si era risolto nel mero richiamo del lavoratore le volte in cui sbagliava, con la spiegazione degli errori commessi, senza alcuna formazione teorica; il lavoratore aveva svolto costantemente lavoro straordinario, mentre il contratto prevedeva un orario di 40 ore a settimana; in definitiva, tutte tali circostanze, ivi compreso il controllo gerarchico ed il richiamo del dipendente  nel caso di non perfetta esecuzione della prestazione, erano espressione della natura subordinata del rapporto e non già dell’espletamento di un’attività di formazione professionale.L’azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza impugnata per violazione della legge n. 863 del 1984 che disciplina i contratti di formazione e lavoro.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 1006 del 23 gennaio 2003, Pres. Mercurio, Rel. Morcavallo) ha rigettato il ricorso.Nel contratto di formazione e lavoro l’attività formativa, che è compresa nella causa del contratto -ha osservato la Corte- è modulabile in relazione alla natura e alle caratteristiche delle mansioni che il lavoratore è chiamato a svolgere, potendo assumere maggiore o minore rilievo, a seconda che si tratti di lavoro di elevata professionalità o di semplici prestazioni di mera esecuzione, e potendo atteggiarsi con anticipazione della fase teorica rispetto a quella pratica, o viceversa. E’ necessario, peraltro, in ogni caso, che lo svolgimento dell’attività formativa sia adeguato ed effettivamente idoneo a raggiungere lo scopo del contratto, che è quello di attuare una sorta di ingresso guidato del giovane nel mondo del lavoro; e la valutazione di tale adeguatezza e idoneità è rimessa al giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimità, se congruamente motivata.

 Nella specie -ha rilevato la Corte- i giudici di merito, pur senza escludere che la formazione possa avvenire durante lo svolgimento delle mansioni, hanno tuttavia escluso che la datrice di lavoro avesse provato di avere posto in essere una effettiva attività formativa; in particolare, avendo constatato, in punto di fatto, che l’addestramento non trascendeva il mero svolgimento delle mansioni tipiche del profilo professionale previsto in contratto, con la supervisione del superiore gerarchico ed il richiamo in caso di errori nella esecuzione della prestazione, il Tribunale ha correttamente escluso che tali modalità potessero configurare l’adempimento dell’obbligazione – assunta contrattualmente dalla datrice di lavoro – di impartire la formazione professionale relativa al conseguimento della qualifica prevista.
 


 

 

ILLEGITTIMO IL TRASFERIMENTO DI UN GIORNALISTA DISPOSTO PER RITORSIONE ALL’ATTIVITA’ SINDACALE DA LUI SVOLTA Anche se l’interessato non è titolare di una carica nel sindacato (Tribunale di Roma, Sezione Lavoro, ordinanza del 25 novembre 2000, Est. Mariani).
Il giornalista F. M., dipendente della S.p.A. Il Messaggero, addetto alla redazione di Roma, pur non essendo titolare di alcuna carica sindacale ha partecipato attivamente ad una serie di iniziative di protesta, promosse, nel periodo dal febbraio al giugno 2000, dal comitato di redazione e dall’assemblea per contestare le limitazioni poste dall’editore all’autonomia professionale, nonché la collocazione del giornale Il Messaggero nel sito web “Caltanet”. In particolare egli si è distinto per gli interventi svolti durante le assemblee redazionali e per l’azione di proselitismo condotta in occasione di uno sciopero svoltosi il 21 giugno 2000. Nel successivo mese di luglio l’azienda ha comunicato a F. M. il trasferimento da Roma a Pescara, motivando il provvedimento con la necessità di reintegrare l’organico della redazione abruzzese. Il giornalista ha chiesto al Tribunale di Roma di sospendere, con provvedimento d’urgenza, l’efficacia del trasferimento, sostenendo l’inesistenza delle ragioni organizzative addotte dall’azienda e la natura illecitamente discriminatoria del provvedimento, in quanto diretto a recargli pregiudizio per la sua partecipazione all’attività sindacale, in violazione dell’art. 15 St. Lav. L’azienda si è difesa sostenendo, tra l’altro, che la tutela prevista dall’art. 15 St. Lav. è applicabile soltanto ai lavoratori titolari di cariche sindacali. Nel giudizio è intervenuta l’Associazione Stampa Romana per sostenere le ragioni del giornalista.
Il Tribunale di Roma, con ordinanza del 25 novembre 2000 (Est. Mariani), ha sospeso l’efficacia del trasferimento, in quanto ha ritenuto che l’azienda non abbia provato l’esistenza delle ragioni organizzative per il trasferimento e che dagli atti siano emersi indizi sufficienti per affermare che il provvedimento sia stato disposto per finalità discriminatorie. Il Tribunale ha richiamato la costante giurisprudenza della Suprema Corte secondo cui la tutela prevista dall’art. 15 St. Lav. si estende a tutti i dipendenti attivamente impegnati nelle attività sindacali, ancorché non rivestano specifici incarichi nel sindacato.

 

 


 

 

L’INPS E’ TENUTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO PER NON AVERE INFORMATO UN LAVORATORE DELLA INUTILITA’ DI UNA “RICONGIUNZIONE” DA LUI RICHIESTASe lo ha indotto a lasciare il lavoro sull’erroneo presupposto di avere maturato il diritto a pensione (Corte d’Appello di Milano, Sezione Lavoro 16 novembre 2000 n. 307 Pres. Ruiz, Rel. Accardo).
V. M. ha chiesto all’INPS di operare la ricongiunzione, nella gestione lavoratori dipendenti, di contributi della gestione artigiani, per potere raggiungere i 1820 contributi necessari all’ottenimento della pensione. L’INPS ha accolto la domanda facendo versare al lavoratore, per la ricongiunzione, la somma di lire 14.500.000. Conseguentemente V.M. ha lasciato il lavoro per andare in pensione. Questa però non gli è stata concessa, in quanto l’INPS ha accertato che i contributi versati alla gestione artigiani si riferivano ad un periodo già coperto dai contributi INPS e costituivano quindi una inutile duplicazione. Dopo essere rimasto disoccupato per 11 mesi, V.M. ha trovato un nuovo posto di lavoro. Quindi egli ha promosso, davanti al Tribunale di Milano, un giudizio diretto ad ottenere la condanna dell’INPS al risarcimento del danno per averlo indotto a dimettersi sull’erroneo presupposto di aver raggiunto, mediante la ricongiunzione, un numero di contributi sufficiente all’ottenimento della pensione. Il Tribunale ha accolto la domanda, condannando l’INPS a risarcire a V. M. il danno costituito dal mancato guadagno nel periodo di disoccupazione, in misura di lire 13 milioni. Il Tribunale ha ritenuto che l’INPS, nell’accogliere la domanda di ricongiunzione dei contributi versati alla gestione artigiana, avrebbe dovuto avvertire V.M. del fatto che il relativo periodo era già coperto da contributi e che, pertanto, la ricongiunzione comportava un’inutile duplicazione. L’INPS ha proposto appello contro questa decisione sostenendo di non essere responsabile dell’errore del lavoratore. La Corte d’Appello di Milano (Sezione Lavoro 16 novembre 2000 n. 307 Pres. Ruiz, Rel. Accardo) ha rigettato l’impugnazione. L’errore del lavoratore – ha affermato la Corte – è stato ragionevolmente determinato da un comportamento omissivo dell’INPS, costituito dalla mancata indicazione, in sede di domanda di ricongiunzione, che i periodi richiesti risultavano già accreditati. Tale comportamento – ha osservato la Corte –deve ritenersi contrario agli obblighi informativi che l’INPS ha verso gli assicurati

 

 


 

IL DEMANSIONAMENTO COSTITUISCE LESIONE DELLA DIGNITA’ DEL LAVORATORE, TUTELATA DALL’ART. 41 COST. E DALL’ART. 2087 COD. CIV. – Ne consegue il diritto al risarcimento del danno da liquidarsi in via equitativa, anche se non via sia la prova di conseguenze patrimoniali negative (Sezione Lavoro n. 14443 del 6 novembre 2000, Pres. Trezza, Rel. Mammone).
D.V., dipendente della Manetti & Roberts con qualifica di quadro, è stato per due volte licenziato e in entrambi i casi ha ottenuto dal Pretore di Firenze l’annullamento del licenziamento, con ordine di reintegrazione nel posto di lavoro.
L’azienda, dopo averlo richiamato in servizio, lo ha lasciato privo di mansioni in condizioni di emarginazione dall’attività lavorativa.
Pertanto D.V. si è rivolto nuovamente al Pretore chiedendogli, tra l’altro, la condanna dell’azienda al risarcimento del danno professionale per la privazione dell’attività lavorativa subita dopo essere stato richiamato in servizio.
Il Pretore ha ritenuto che l’azienda abbia violato l’art. 41 Cost. Rep., che impone all’iniziativa economica privata di non recare danno alla dignità umana, nonché l’art. 2087 cod. civ. che prescrive al datore di lavoro di rispettare la personalità morale dei dipendenti; conseguentemente ha condannato l’azienda al risarcimento del danno determinandolo, in via equitativa, in misura di lire 37 milioni.
Questa decisione è stata confermata, in grado di appello, dal Tribunale di Firenze, che ha peraltro escluso il diritto del lavoratore ad un ulteriore risarcimento per mancato avanzamento di carriera, in quanto ha ritenuto che sul punto il lavoratore non abbia fornito la prova.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 14443 del 6 novembre 2000, Pres. Trezza, Rel. Mammone) ha rigettato i ricorsi proposti da entrambe le parti contro la sentenza di secondo grado, in quanto ha ritenuto che il Tribunale abbia correttamente motivato la sua decisione. Con riferimento al danno professionale la Corte ha osservato che esso può ravvisarsi sia nella lesione della dignità del lavoratore sia nella perdita di possibilità di avanzamento e che in questo caso i giudici di merito, pur escludendo che sia stata data la prova del pregiudizio di carriera, hanno esattamente ravvisato, nella lesione della personalità del lavoratore, un pregiudizio da risarcirsi in via equitativa.
Il demansionamento professionale – ha osservato la Corte – dà luogo ad una pluralità di pregiudizi, solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del lavoratore. Infatti, il demansionamento non solo viola lo specifico divieto di cui all’art. 2103 cod. civ., (che afferma il diritto del lavoratore di svolgere l’attività che gli compete) ma costituisce lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, con la conseguenza che il pregiudizio conseguente incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato, con indubbia dimensione patrimoniale, che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa. L’affermazione di un valore superiore della professionalità, direttamente collegato ad un diritto fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere materiale – ha affermato la Corte – consente di ritenere che la mortificazione della professionalità del lavoratore possa dar luogo a risarcimento anche se non venga fornita la prova dell’effettiva sussistenza di un danno patrimoniale.

 


 

L’AZIENDA NON PUO’ DILAZIONARE LA FRUIZIONE DELLE FERIE OLTRE L’ANNO DI COMPETENZA E IMPORRE SUCCESSIVAMENTE AL LAVORATORE DI SMALTIRE L’ARRETRATOSe il periodo di riposo previsto dal contratto non viene tempestivamente concesso, il dipendente ha diritto al risarcimento (Cassazione Sezione Lavoro n. 13980 del 24 ottobre 2000, Pres. Trezza, Rel. Giannantonio).
G.V., dipendente dell’Ansaldo Industria S.p.A., con qualifica di quadro, ha accumulato, in vari anni di lavoro, un notevole arretrato di ferie non godute.
Nel 1995 l’azienda gli ha imposto il recupero dell’arretrato, collocandolo in ferie, nonostante le sue rimostranze, dal 22 febbraio al 28 aprile e dal 18 settembre al 17 dicembre. G.V. ha chiesto al Pretore di Genova di dichiarare illegittimo il suo collocamento in ferie per decisione unilaterale dell’azienda e di condannare l’Ansaldo a ricostituire il suo monte ferie arretrate, senza tener conto dell’astensione dal lavoro impostagli.
L’azienda si è difesa sostenendo che il collocamento del lavoratore in ferie per recupero degli arretrati doveva ritenersi giustificato dalla crisi economica del settore.
La domanda del lavoratore è stata rigettata dal Pretore ed accolta invece, in grado di appello, dal Tribunale di Genova, che ha dichiarato l’illegittimità del collocamento in ferie. L’azienda ha proposto ricorso per Cassazione, sostenendo di avere legittimamente esercitato i suoi poteri organizzativi.
La Suprema Corte (S
ezione Lavoro n. 13980 del 24 ottobre 2000, Pres. Trezza, Rel. Giannantonio) ha rigettato il ricorso.
La Corte ha ricordato che, in base all’articolo 2109 del codice civile, il prestatore di lavoro ha diritto, dopo un anno d’ininterrotto servizio, a un periodo annuale di ferie retribuito, possibilmente continuativo, nel tempo che l’imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del prestatore di lavoro.
Questa norma – ha affermato la Corte - attribuisce al datore di lavoro un potere di natura discrezionale che non è del tutto arbitrario e privo di vincoli, ma deve tenere conto anche degli interessi del prestatore di lavoro; in sostanza l’imprenditore deve organizzare il periodo di ferie in modo utile per le esigenze dell’impresa, ma non ingiustificatamente vessatorio nei confronti del lavoratore e dimentico delle legittime esigenze di questi.
Il potere discrezionale del datore di lavoro è, inoltre, limitato – ha osservato la Corte - da norme inderogabili come, ad esempio, quella per la quale l’imprenditore deve preventivamente comunicare al prestatore di lavoro il periodo stabilito per il godimento delle ferie (terzo comma dell’art. 2109 del codice civile) e quella per la quale le ferie devono essere godute entro l’anno di lavoro e non successivamente (ex art. 2109, secondo comma, del codice civile); la ragione di quest’ultima norma dipende dalla funzione propria delle ferie annuali che è quella di assicurare il recupero delle energie fisiche e psichiche da parte del lavoratore. Questa funzione sarebbe compromessa se non avvenisse con periodicità almeno annuale, come è stato affermato espressamente dalla Corte Costituzionale quando ha dichiarato illegittimo il penultimo comma dell’art. 22 allegato a) del regio decreto 8 gennaio 1931 n. 148, nella parte in cui prevedeva che l’autoferrotramviere potesse non fruire delle ferie nel corso dell’anno lavorativo (sentenza 19 dicembre 1990 n. 543).
Pertanto – ha concluso la Cassazione – deve ritenersi che, una volta decorso l’anno di competenza, il datore di lavoro non possa più imporre al lavoratore di godere effettivamente delle ferie e tantomeno possa stabilire il periodo nel quale deve goderle, ma sia tenuto al risarcimento del danno.
Pubblichiamo il testo integrale

L’AZIENDA NON PUO’ DILAZIONARE LA FRUIZIONE DELLE FERIE OLTRE L’ANNO DI COMPETENZA E IMPORRE SUCCESSIVAMENTE AL LAVORATORE DI SMALTIRE L’ARRETRATOSe il periodo di riposo previsto dal contratto non viene tempestivamente concesso, il dipendente ha diritto al risarcimento (Cassazione Sezione Lavoro n. 13980 del 24 ottobre 2000, Pres. Trezza, Rel. Giannantonio).
Pubblichiamo il testo integrale della decisione la cui sintesi è nella sezione
Fatto e Diritto

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

 

Dott. Vincenzo TREZZA

Presidente

Dott. Ettore Raffaele GIANNANTONIO

Rel. Consigliere

Dott. Federico ROSELLI

Consigliere

Dott. Maura LA TERZA

Consigliere

Dott. Giovanni MAMMONE

Consigliere

 

ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A

Sul ricorso proposto da:
ANSALDO INDUSTRIA SPA IN LIQUIDAZIONE, nonché della ANSALDO MONTAGGI SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DELLE TRE MADONNE 8, presso lo Studio dell’avvocato MARAZZA MAURIZIO, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato CARDILLO CARLO, giusta delega in atti;

ricorrenti -

CONTRO

VICCARDI GIORGIO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA FLAMINIA 195, rappresentato e difeso dall’avvocato VACIRCA SERGIO, giusta delega in atti;

controricorrente –

avverso la sentenza n. 2679/97 del Tribunale di GENOVA, depositata il 25/09/97; R.G.N. 3665/97;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/06/2000 dal Consigliere Dott. Ettore Raffaele GIANNANTONIO;
udito l’Avvocato CARDILLO;
udito l’Avvocato VACIRCA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Francesco MELE che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato il 27 ottobre 1995 il Dott. Giorgio Viccardi conveniva in giudizio dinanzi al Pretore di Genova, quale giudice del lavoro, la Ansaldo Industria S.p.A. e l’Ansaldo montaggi s.r.l., in persona dei loro legali rappresentanti pro-tempore. Esponeva, tra l’altro, di essere stato preposto, fino al novembre del 1994, al settore montaggi esterni della Ansaldo industria S.p.A. con la qualifica di quadro; che dal 22 febbraio al 28 aprile 1995 era stato posto unilateralmente in ferie dalla società convenuta per il parziale recupero delle numerose ferie non godute negli anni precedenti, nonostante le sue rimostranze per il periodo scelto; che in data 11 settembre 1995 gli era stata recapitata una comunicazione interna con la quale la società disponeva un nuovo periodo forzoso di ferie in attesa della definizione della sua posizione. Assumeva che il potere di fissazione unilaterale del periodo delle ferie da parte della società era stato illegittimamente esercitato. Chiedeva che fosse dichiarata illegittima la messa in ferie dal 18 settembre al 17 dicembre 1995 unilateralmente disposta dall’Ansaldo Industria S.p.A., con ogni conseguenza in termini di qualificazione giuridica e trattamento economico e normativo nel relativo periodo di astensione lavorativa; che, di conseguenza, fossero condannate l’Ansaldo Industria S.p.A. e l’Ansaldo montaggi s.r.l., in solido tra loro, a ricostituire il monte ferie arretrate del dott. Giorgio Viccardi, senza tenere conto dell’astensione lavorativa predetta.
Costituitesi in giudizio le società convenute ed espletata l’istruttoria, con sentenza depositata il 1° marzo 1997, il Pretore respingeva la domanda del Viccardi per quanto riguardava la questione delle ferie.
La decisione del Pretore è stata riformata dal Tribunale di Genova che, con sentenza depositata il 25 settembre 1997, ha dichiarato illegittima la unilaterale messa in ferie del Viccardi da parte dell’Ansaldo dal 18 settembre al 17 dicembre 1995.
Avverso la decisione propongono ricorso, articolato in due motivi, sia la Ansaldo industria in liquidazione S.p.A., sia la Ansaldo montaggi s.r.l.
Il dott. Viccardi resiste con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo le società ricorrenti denunziano la violazione degli articoli 115 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., nonché il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia. Lamentano che il dott. Viccardi non abbia dimostrato che la società da cui dipendeva avesse rifiutato il godimento delle ferie nei relativi anni di competenza.
Con il secondo motivo le società ricorrenti denunziano le violazioni degli articoli 1362 e seguenti del codice civile in materia di interpretazione dei contratti collettivi, e degli articoli 2109 e 2186 c.c., nonché il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia. Lamentano che il Tribunale di Genova abbia ritenuto che il collocamento forzoso in ferie del dipendente non può essere giustificato da situazioni di crisi del settore economico in cui opera l’impresa del datore di lavoro; e che non abbia tenuto presente che il potere del datore di lavoro di fissare unilateralmente il periodo di ferie deve contemperare le esigenze delle imprese con quelle del prestatore di lavoro.
I due motivi possono essere esaminati congiuntamente e debbono essere dichiarati infondati.
Come è noto, il secondo comma dell’articolo 1209 del codice civile dispone che il prestatore di lavoro ha diritto, dopo un anno d’ininterrotto servizio, a un periodo annuale di ferie retribuito, possibilmente continuativo, nel tempo che l’imprenditore stabilisce, tenuto conto dell’esigenza dell’impresa e degli interessi del prestatore di lavoro.
La norma attribuisce al datore di lavoro un potere di natura discrezionale che non è del tutto arbitrario e privo di vincoli, ma deve tenere conto anche degli interessi del prestatore di lavoro. In sostanza l’imprenditore deve organizzare il periodo delle ferie in modo utile per le esigenze dell’impresa, ma non ingiustificatamente vessatorio nei confronti del lavoratore e dimentico delle legittime esigenze di questi.
Il potere discrezionale del datore di lavoro è, inoltre, limitato da norme inderogabili come, ad esempio, quella per la quale l’imprenditore deve preventivamente comunicare al prestatore di lavoro il periodo stabilito per il godimento delle ferie (terzo comma dell’art. 1209 del codice civile) e quella per la quale le ferie devono essere godute entro l’anno di lavoro e non successivamente (ex art. 2109, secondo comma, del codice civile).
La ragione di quest’ultima norma dipende dalla funzione propria delle ferie annuali che è quella di assicurare il recupero delle energie fisiche e psichiche da parte del lavoratore; funzione che sarebbe compromessa se non avvenisse con periodicità almeno annuale e che è stata affermata espressamente dalla Corte Costituzionale quando ha dichiarato illegittimo il penultimo comma dell’art. 22 allegato a) del regio decreto 8 gennaio 1931 n. 148, nella parte in cui prevedeva che l’autoferrotramviere potesse non fruire delle ferie nel corso dell’anno lavorativo (Corte Costituzionale 19 dicembre 1990 n. 543).
Deve concludersi che, una volta decorso l’anno di competenza, il datore di lavoro non possa più imporre al lavoratore di godere effettivamente delle ferie e tantomeno possa stabilire il periodo nel quale deve goderle, ma è tenuto al risarcimento del danno.
Nel caso in esame il datore di lavoro ha imposto al dott. Viccardi di recuperare in un periodo determinato del 1995 le ferie non godute negli anni precedenti. E’ evidente, quindi, che il datore di lavoro ha violato i diritti del lavoratore, in quanto gli ha impedito di godere delle ferie nell’anno di riferimento ed ha malamente esercitato il suo potere di fissazione del periodo delle ferie nell’anno successivo. D’altra parte il primo motivo del ricorso non può essere accolto, in quanto la prova del godimento delle ferie da parte del lavoratore deve essere fornita, in base ai principi generali dell’onere probatorio, dal datore di lavoro; questi, nel caso, non soltanto non ha fornito la prova richiesta, ma in sostanza non ha neppure affermato che il lavoratore avesse goduto delle ferie negli anni precedenti e si è semplicemente limitato a richiedere la prova del rifiuto del godimento da parte del lavoratore.
Per quanto riguarda il secondo motivo del ricorso non è esatto dire, come afferma il ricorrente, che il Tribunale avrebbe negato qualsiasi rilevanza allo stato di crisi dell’azienda. In realtà il Tribunale ha affermato che il datore di lavoro non poteva esercitare il suo potere di fissazione del periodo delle ferie oltre l’anno di riferimento e che, a tal fine, non aveva alcuna rilevanza la situazione di crisi dell’azienda.
Il ricorso deve essere pertanto rigettato.
La società ricorrente deve essere condannata al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità, spese che si liquidano come in dispositivo, e al pagamento degli onorari di avvocato, che si liquidano in favore del dott. Giorgio Viccardi nella somma di lire 3.000.000.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna le società ricorrenti, l’Ansaldo Industria in liquidazione S.p.A., in persona del suo liquidatore, e l’Ansaldo montaggi s.r.l. in persona del suo legale rappresentante pro tempore, a pagare al dott. Giorgio Viccardi le spese di questo giudizio di legittimità, spese che si liquidano in lire 23.000 e al pagamento degli onorari di avvocato che si liquidano in lire 3.000.000.
Così deciso in Roma, 13 giugno 2000

F.to Il Presidente

F.to il Consigliere Estensore
F.to il Collaboratore di Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 24 ottobre 2000

 


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